Autore Thomas Piketty
Titolo Capitale e ideologia
EdizioneLa nave di Teseo, Milano, 2020, i Fari 73 , pag. 1200, ill., cop.fle., dim. 15x23x3,5 cm , Isbn 978-88-346-0214-0
OriginaleCapital et idéologie
EdizioneSeuil, Paris, 2020
TraduttoreLorenzo Matteoli, Andrea Terranova
LettoreRiccardo Terzi, 2020
Classe economia politica , economia , politica , scienze sociali , storia sociale , storia economica , globalizzazione












 

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Indice


   9    Avvertenza per i lettori e ringraziamenti

  13    Introduzione

  16    Che cos'è un'ideologia?
  17    I confini e la proprietà
  20    Prendere sul serio l'ideologia
  24    Apprendimento collettivo e scienze sociali
  27    Le fonti utilizzate in questo libro: disuguaglianze e ideologie
  31    Il progresso, il ritorno delle disuguaglianze, la complessità del mondo
  36    Il ritorno delle disuguaglianze: primi dati
  39    Il grafico a forma di elefante: discutere serenamente sulla globalizzazione
  44    La giustificazione della massima disuguaglianza
  46    Imparare dalla storia, imparare dal XX secolo
  51    La glaciazione ideologica e le nuove disuguaglianze nell'istruzione
  54    Il ritorno delle élite multiple e le difficoltà di una coalizione egualitaria
  58    Ripensare la proprietà giusta, l'istruzione giusta, i confini territoriali giusti
  61    La complessa diversità del mondo: l'indispensabile passaggio per il lungo termine
  62    Sulla complementarità del linguaggio naturale e del linguaggio matematico
  65    Struttura del libro


        Parte prima. I regimi della disuguaglianza nella storia

  71 1. Le società ternarie: la disuguaglianza trifunzionale

  71    La logica trifunzionale: clero, nobiltà, terzo Stato
  73    Le società ternarie e la formazione dello Stato moderno
  76    La delegittimazione delle società ternarie, fra rivoluzioni e colonizzazioni
  77    Sull'attualità delle società ternarie
  80    La giustificazione delle disuguaglianze nelle società ternarie
  83    Molteplicità delle élite, unità del popolo?
  85    Le società ternarie e la formazione dello Stato: Europa, India, Cina, Iran

  87 2. Le società dei tre ordini europee: potere e proprietà

  87    Le società ternarie: una forma di equilibrio dei poteri?
  91    L'ordine trifunzionale, la promozione del lavoro libero e il destino dell'Europa
  95    Consistenza demografica e risorse del clero e della nobiltà: il caso della Francia
 100    Calo della consistenza demografica di nobili e clero alla fine dell'ancien régime
 106    Come spiegare il calo numerico della nobiltà?
 109    La nobiltà: una classe proprietaria fra Rivoluzione e Restaurazione
 114    La Chiesa cristiana come organizzazione proprietarista
 118    La Chiesa proprietarista, la ricchezza e le successioni ereditarie familiari
 121    La proprietà ecclesiastica: l'origine del diritto economico e del capitalismo?

 125 3. L'avvento delle società dei proprietari

 126    La "grande demarcazione" del 1789 e l'invenzione della proprietà moderna
 128    Corvée, bannalità, affitti: dal feudalesimo al proprietarismo
 132    I lods e la sovrapposizione dei diritti perpetui nell'ancien régime
 136    È possibile riformare la proprietà senza tener conto delle sue dimensioni?
 140    Sapere, potere ed emancipazione: la trasformazione delle società ternarie
 143    La rivoluzione, lo Stato centralizzato e l'apprendistato della giustizia
 148    L'ideologia proprietarista, tra emancipazione e sacralizzazione
 151    La giustificazione della disuguaglianza nelle società dei proprietari

 155 4. Le società dei proprietari: il caso della Francia

 155    La Rivoluzione francese e lo sviluppo di una società di proprietari
 158    La riduzione delle disuguaglianze: l'invenzione di una "classe media patrimoniale"
 160    Parigi, capitale della disuguaglianza: dalla letteratura agli archivi
        delle successioni ereditarie
 163    La diversificazione del portafoglio e delle forme di proprietà
 166    La belle époque (1880-1914): una modernità proprietarista fondata
        sulla disuguaglianza
 170    Il sistema fiscale in Francia dal 1800 al 1914: l'accumulazione senza limiti
 174    Le quatre vieilles, l'imposta sul capitale e l'imposta sul reddito
 178    Il suffragio universale, le nuove conoscenze, la guerra
 182    La Rivoluzione, la Francia e l'uguaglianza
 185    Il capitalismo: un proprietarismo dell'epoca industriale

 189 5. Le società dei proprietari: traiettorie europee

 190    La consistenza demografica del clero e della nobiltà: il caso dell'Europa
 193    Nobiltà guerriera, nobiltà proprietaria
 197    Il Regno Unito e la gradualità ternaria-proprietaria
 201    L'aristocrazia britannica, una nobiltà proprietarista
 204    La società dei proprietari nel romanzo classico
 208    L'almanacco di Burke, dai baronetti ai petromiliardari
 211    I Lord, i garanti dell'ordine proprietarista
 212    Lo scontro per la progressività fiscale e la riduzione del potere
        della Camera dei Lord
 217    L'Irlanda tra ideologia trifunzionale, proprietarista e colonialista
 222    La Svezia e l'organizzazione costituzionale della società in quattro ordini
 225    Un uomo, cento voti: la democrazia ipercensitaria in Svezia (1865-1911)
 227    Società per azioni, suffragio censitario: quale limite al potere monetario?
 232    La deriva della disuguaglianza nelle società dei proprietari del XIX secolo
 237    Le tre sfide delle società dei proprietari


        Parte seconda. Le società schiaviste e coloniali

 241 6. Le società schiaviste: la disuguaglianza estrema

 242    Società con schiavi, società schiaviste
 246    Regno Unito: abolizione e compensazione, 1833-1843
 249    La giustificazione proprietarista dell'indennizzo ai possessori di schiavi
 252    Francia: la doppia abolizione, 1794-1848
 257    Haiti: quando una proprietà schiavista diventa un debito pubblico e gli engagés
 265    Il lavoro forzato, la sacralizzazione proprietarista e il problema dei risarcimenti
 269    Stati Uniti: un'abolizione imposta con la guerra (1861-1865)
 276    L'impossibilità di un'abolizione-compensazione graduale negli Stati Uniti
 279    La giustificazione proprietarista e sociale della schiavitù
 282    La ricostruzione e la nascita del social-nativismo negli Stati Uniti
 288    Brasile: un'abolizione imperiale e meticcia (1888)
 291    Russia: l'abolizione della servitù della gleba in uno Stato debole (1861)

 295 7. Le società coloniali: eterogeneità e potere

 296    Le due fasi del colonialismo europeo
 299    Colonie di popolamento e colonie non popolate
 302    Le società schiaviste e coloniali: la disuguaglianza estrema
 309    Massima disuguaglianza nella proprietà, massima disuguaglianza nel reddito
 315    Una colonizzazione per i coloni: i bilanci coloniali
 321    Lo sfruttamento schiavista e coloniale in prospettiva storica
 326    Dall'appropriazione coloniale brutale all'illusione di un "dolce commercio"
 329    La difficoltà di essere posseduti da un altro paese
 334    Legalità "continentale", legalità coloniale
 338    Il lavoro forzato legale nelle colonie francesi (1912-1946)
 342    Un colonialismo in ritardo: l'apartheid in Sudafrica (1948-1994)
 345    L'uscita dal colonialismo e il problema del federalismo democratico
 348    Dall'Unione franco-africana alla Federazione del Mali

 353 8. Società ternarie e colonialismo: il caso dell'India

 354    L'invenzione dell'India: primi riferimenti
 361    L'India e l'ordine quaternario: bramini, kshatriya, vaishya, shudra
 365    Ordine braminico, regime vegetariano e patriarcato
 368    La pluralità multiculturale degli jati, l'ordine quaternario dei varna
 369    Feudalità indù, costruzione dello Stato e trasformazione delle caste
 373    La peculiare costruzione dello Stato in India
 376    La scoperta dell'India e l'accerchiamento iberico dell'islam
 379    Dominio con le armi, dominio con la conoscenza
 383    I censimenti coloniali britannici in India (1871-1941)
 387    La dimensione demografica delle società trifunzionali indiane ed europee
 390    Proprietari altamente istruiti, funzionari e controllo sociale
 395    L'India coloniale e l'irrigidimento delle caste
 401    L'India indipendente di fronte alle disuguaglianze del passato
 406    Successo e limiti della "discriminazione positiva" indiana
 412    Disuguaglianze proprietariste, disuguaglianze di status
 414    Le quote sociali e di genere e le condizioni per una loro evoluzione

 419 9. Società ternarie e colonialismo: traiettorie euroasiatiche

 419    Il colonialismo, il predominio militare e la ricchezza occidentale
 425    Quando lo Stato non era un guardiano notturno:
        i due grandi "balzi in avanti" dello Stato moderno
 429    Concorrenza tra Stati e condivisione delle innovazioni: l'invenzione dell'Europa
 433    Cinesi smithiani, europei trafficanti d'oppio
 436    Protezionismo e mercantilismo: alle origini della "grande divergenza"
 440    Il Giappone e la modernizzazione accelerata di una società ternaria
 444    Integrazione sociale dei burakumin, degli "intoccabili" e dei Rom
 448    La società trifunzionale e la costruzione dello Stato cinese
 453    I concorsi imperiali cinesi: letterati, proprietari e guerrieri
 456    Rivolte cinesi e biforcazioni inesplorate
 461    Un esempio di repubblica costituzionale fondata sulla religione: l'Iran
 463    La legittimazione anticolonialista del clero sciita
 467    Repubblica sciita egualitaria, petromonarchie sunnite: parole e fatti
 469    Uguaglianza, disuguaglianza e zakat nei paesi musulmani
 472    Proprietarismo e colonialismo: la globalizzazione della disuguaglianza


        Parte terza. La grande trasformazione del XX secolo

 477 10. La crisi delle società dei proprietari

 478    Ripensare la "grande trasformazione" della prima metà del XX secolo
 480    Il crollo dei regimi della disuguaglianza e della proprietà privata (1914-1945)
 483    Dal proprietarismo europeo al neoproprietarismo statunitense
 487    La fine delle società proprietariste, la stabilità della disuguaglianza salariale
 492    Analisi del collasso dei patrimoni privati (1914-1950)
 496    Espropri, nazionalizzazioni-sanzioni ed "economia mista"
 501    Risparmio privato, debito pubblico e inflazione
 505    Saldare i debiti del passato, costruire la giustizia:
        l'imposta eccezionale sul capitale privato
 510    Dal collasso a una deconcentrazione stabile: il ruolo della tassazione progressiva
 516    Le origini anglosassoni della progressività fiscale moderna
 522    L'affermazione dello Stato sociale e fiscale
 527    La diversità dei prelievi e il ruolo della progressività fiscale
 529    Le società proprietariste, la tassazione progressiva e la prima guerra mondiale
 533    Il ruolo delle lotte sociali e ideologiche nella crisi del proprietarismo
 536    La necessità di integrazione sociale dei mercati
 538    L'imperialismo e il crollo dell'equilibrio europeo
 543    Da un'indennità di guerra esorbitante a un nuovo ordine guerriero
 547    Il crollo delle società proprietariste, il superamento dello Stato-nazione
 550    L'unione federale, tra socialismo democratico e ordoliberalismo

 555 11. Le società socialdemocratiche: l'uguaglianza incompiuta

 556    La diversità delle società socialdemocratiche europee
 559    Il New Deal statunitense: una società socialdemocratica al ribasso
 561    I limiti delle società socialdemocratiche
 563    Proprietà pubblica, proprietà sociale, proprietà temporanea
 565    Distribuire il potere, istituire la proprietà sociale: una storia incompiuta
 569    Successi e limiti della cogestione in Germania
 572    La lenta diffusione della cogestione tedesca e nordica
 576    Socialisti, laburisti, socialdemocratici: traiettorie incrociate
 578    Da una direttiva europea per la cogestione alla proposta "2x + y"
 580    Andare oltre la cogestione: ripensare la proprietà sociale e
        la ripartizione del potere
 583    Cooperative e autogestione: capitale, potere e diritti di voto
 587    La socialdemocrazia, l'istruzione e la fine del progresso statunitense
 592    Gli Stati Uniti, paese della scolarizzazione e dell'istruzione secondaria precoce
 598    L'abbandono scolastico delle classi popolari negli Stati Uniti a partire dal 1980
 604    L'impatto del sistema legale, fiscale e dell'istruzione,
        sulle disuguaglianze primarie
 611    L'università di massa e la nuova stratificazione sociale e nell'istruzione
 616    Si può comprare l'ammissione all'università?
 618    La disuguaglianza nell'accesso all'istruzione in Europa e negli Stati Uniti
 621    L'uguaglianza nell'istruzione alle origini della crescita moderna
 625    Socialdemocrazia e giustizia fiscale: un incontro imperfetto
 627    La socialdemocrazia di fronte al superamento del capitalismo e dello Stato-nazione
 631    Ripensare la globalizzazione e la liberalizzazione dei flussi di capitale
 639    Gli Stati Uniti, l'Europa e la tassazione sulla proprietà: un dibattito incompiuto
 641    L'imposta progressiva sulla proprietà: una riforma agraria permanente
 646    L'insufficienza della tassa patrimoniale nata nel XVIII secolo
 652    Apprendimento collettivo e prospettive future per l'imposta sulla proprietà
 655    Traiettorie incrociate e ritorno dell'imposta patrimoniale

 661 12. Le società comuniste e post-comuniste

 662    È possibile prendere il potere senza aderire a una teoria della proprietà?
 666    La sopravvivenza del "marxismo-leninismo" al potere
 672    Fortune e sfortune dell'emancipazione comunista e anticolonialista
 676    Il comunismo e la questione delle legittime differenze
 679    Il ruolo della proprietà privata in un'organizzazione sociale decentralizzata
 681    La Russia post-comunista: una deriva oligarchica e cleptocratica
 685    Quando gli asset offshore superano il totale degli asset finanziari legali
 689    Alle origini della "terapia d'urto" e della cleptocrazia russa
 693    La Cina, un'economia mista autoritaria
 699    Ricchezza pubblica negativa, onnipotenza della proprietà privata
 703    La corsa all'indebitamento e la percezione dell'impossibilità
        di una giusta tassazione
 706    I limiti della tolleranza cinese per la disuguaglianza
 709    L'opacità della disuguaglianza in Cina
 712    La Cina tra comunismo e plutocrazia
 715    L'effetto della Rivoluzione culturale sulla percezione delle disuguaglianze
 717    Il modello cinese e il superamento della democrazia parlamentare
 721    La democrazia elettorale, il confine e la proprietà
 724    Partito unico e riformabilità del centralismo democratico
 727    L'Europa orientale: un laboratorio della disillusione post-comunista
 733    La "naturalizzazione" delle forze del mercato nell'Unione Europea
 738    Post-comunismo e minaccia social-nativista

 741 13. L'ipercapitalismo: tra modernità e arcadia

 742    Le forme della disuguaglianza nel mondo nel XXI secolo
 747    Il Medio Oriente: il massimo della disuguaglianza mondiale
 750    La misura delle disuguaglianze e il problema della trasparenza democratica
 755    La mancanza di trasparenza fiscale degli Stati
 757    Equità sociale ed equità climatica
 761    La disuguaglianza delle emissioni di CO2 fra paesi e fra individui
 766    La misura della disuguaglianza e la latitanza degli Stati
 771    Uscire dall'opacità: un catasto finanziario pubblico
 774    Il deterioramento della statistica pubblica nell'era dell'informazione
 777    Il neoproprietarismo, l'opacità patrimoniale e la concorrenza fiscale
 781    La persistenza dell'iperconcentrazione del patrimonio
 786    La continuità del patriarcato nel XXI secolo
 792    L'impoverimento degli Stati poveri e la liberalizzazione degli scambi
 796    Ci salverà la creazione di liquidità?
 801    Neoproprietarismo e nuovo regime monetario
 806    Neoproprietarismo e ordoliberalismo: da Hayek all'UE
 811    L'invenzione della meritocrazia e del neoproprietarismo
 815    Dall'illusione filantropica alla sacralizzazione dei miliardari


        Parte quarta. Rivedere le dimensioni del conflitto politico

 821 14. Confini e proprietà: la costruzione dell'uguaglianza

 822    Decostruire la sinistra e la destra: le dimensioni del conflitto sociopolitico
 827    La sinistra elettorale dal 1945 a oggi:
        dal partito dei lavoratori al partito dei laureati
 829    Per uno studio globale delle divisioni elettorali e politico-ideologiche
 834    Internazionalizzare lo studio delle divisioni etno-razziali e del social-nativismo
 837    Rinnovamento dei partiti politici, calo dell'affluenza alle urne
 844    Il calo dell'affluenza alle urne delle classi popolari
 848    Ribaltare l'effetto istruzione: l'invenzione del partito dei laureati
 851    Il peso elettorale del ribaltamento dell'effetto istruzione
 855    Ribaltamento dell'effetto istruzione e ridefinizione delle divisioni professionali
 857    La sinistra elettorale e le classi popolari: anatomia di un divorzio
 859    La "sinistra intellettuale benestante", la giustizia sociale, l'istruzione
 864    La necessità di nuove norme per un'istruzione equa
 869    Il patrimonio, la sinistra e la destra
 875    Sinistra e lavoratori autonomi: cronaca di una diffidenza del XX secolo
 879    Punti di forza e di debolezza della "sinistra intellettuale benestante"
        e della "destra mercantile"
 881    Il ritorno delle divisioni identitarie e religiose in Francia
 886    L'ascesa del nativismo e la grande instabilità politico-religiosa
 891    Divisioni religiose e legate alle origini: una trappola discriminatoria
 896    Confini e proprietà: un elettorato diviso in quattro blocchi
 903    Instabilità di un elettorato diviso in quattro blocchi
 905    La trappola social-nativista in Francia: Gilet,Gialli, CO2 e ISF
 908    Europa e classi popolari: come si è arrivati al divorzio
 911    Strumentalizzazione neoproprietarista dell'Unione Europea

 917 15. La sinistra intellettuale benestante: i nuovi divari euro-americani

 917    La trasformazione del sistema dei partiti negli Stati Uniti
 923    I democratici diventeranno il partito dei vincitori della globalizzazione?
 928    L'uso politico della divisione razziale negli Stati Uniti
 932    La strategia sudista dei repubblicani: welfare queens e "quote razziali"
 936    Divisioni elettorali e conflitti d'identità, uno sguardo al di là dell'Atlantico
 939    La fluidità delle identità e il pericolo delle categorie fisse
 943    Il partito democratico, la "sinistra intellettuale benestante" e
        la questione razziale
 946    Occasioni mancate e punti di biforcazione bloccati: da Reagan a Sanders
 951    La trasformazione del sistema dei partiti nel Regno Unito
 956    "Sinistra intellettuale benestante" e "destra mercantile" nel Regno Unito
 962    La crescita delle divisioni identitarie nel Regno Unito post-coloniale
 967    La strumentalizzazione politica dell'immigrazione nel Regno Unito, d
        a Powell all'UKIP
 970    Classi popolari e divorzio dall'Europa

 975 16. Social-nativismo: la trappola identitaria post-coloniale

 976    Dal partito dei lavoratori al partito dei laureati: somiglianze e differenze
 981    Ripensare il crollo del sistema sinistra-destra avvenuto nel dopoguerra
 985    L'emergere del social-nativismo nell'Europa post-comunista
 991    L'emergere del social-nativismo in Italia
 995    La trappola social-nativista e la delusione europea
1000    Il partito democratico: un social-nativismo di successo?
1002    La concorrenza tra Stati e l'ascesa dell'ideologia mercantil-nativista
1004    L'ideologia mercantil-nativista e la sua diffusione
1008    La possibilità di un social-federalismo in Europa
1011    La costruzione di uno spazio democratico transnazionale
1015    Costruire una sovranità parlamentare europea a partire
        dalle sovranità parlamentari nazionali
1019    Ricostruire la fiducia, sviluppare norme di giustizia comuni
1022    Uscire dalla crisi permanente del debito pubblico
1028    Guardare alla storia del debito per trovare nuove soluzioni
1032    Condizioni politiche per una trasformazione dell'Europa in senso social-federalista
1038    La trappola separatista e la sindrome catalana
1043    Dissonanza ideologica, dumping fiscale e sindrome da piccolo paese
1047    La trappola social-localistica e la costruzione dello Stato transnazionale
1049    India: la costruzione del sistema dei partiti e le divisioni dell'elettorato
1056    Le divisioni politiche indiane tra classe, casta e religione
1061    La difficile comparsa delle divisioni classiste in India
1064    Classi popolari che si percepiscono come "comunità di destino"
1067    Divisioni classiste, divisioni identitarie: la trappola social-nativista in India
1071    Il futuro della divisione classista e la redistribuzione in India:
        influenze incrociate
1077    La politicizzazione incompiuta della disuguaglianza in Brasile
1082    Divisione identitaria, divisione classista: confini e proprietà
1086    Vicoli ciechi e insidie nel dibattito sul "populismo"

1091 17. Elementi di un socialismo partecipato nel XXI secolo

1093    La giustizia come struttura di partecipazione e dibattito
1097    Superare il capitalismo e la proprietà privata
1098    Condividere il potere nelle imprese: una strategia di sperimentazione
1101    L'imposta progressiva sulla proprietà e la circolazione del capitale
1106    La diffusione della ricchezza e la dotazione universale di capitale
1108    La triade della tassazione progressiva: proprietà, successione, reddito
1113    Il ritorno della progressività fiscale e la riforma agraria permanente
1117    Verso la proprietà sociale e temporanea
1119    La trasparenza patrimoniale in un solo paese
1124    La ratifica costituzionale della giustizia fiscale
1129    Reddito di base e salario equo: il ruolo dell'imposta progressiva sul reddito
1134    La tassazione progressiva sulle emissioni di CO2
1138    Istituire equità nel campo dell'istruzione
1143    Abbandonare l'ipocrisia dell'istruzione, promuovere la trasparenza
1148    La democrazia dell'uguaglianza: i buoni per l'uguaglianza democratica
1151    Verso una democrazia partecipativa ed egualitaria
1154    I giusti confini: ripensare il social-federalismo a scala mondiale
1158    Verso una giustizia giusta transnazionale
1164    Fra collaborazione e involuzione: l'evoluzione di un regime transnazionale
        basato sulla disuguaglianza


1169 Conclusioni

1169    La storia come lotta delle ideologie e della ricerca di giustizia
1172    I limiti della de-occidentalizzazione della prospettiva
1174    Il ruolo civile e politico delle scienze sociali


1177    Indice dei grafici e delle tabelle

 

 

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Pagina 13

Introduzione


Ogni società umana deve giustificare le sue disuguaglianze: è necessario trovarne le ragioni, perché in caso contrario è tutto l'edificio politico e sociale che rischia di crollare. Ogni epoca produce, quindi, un insieme di narrative e di ideologie contraddittorie finalizzate a legittimare la disuguaglianza, quale è o quale dovrebbe essere, e a descrivere le regole economiche, sociali e politiche che permettono di strutturare l'insieme. Da questo confronto, che è al tempo stesso intellettuale, istituzionale e politico, emergono in genere una o più narrative dominanti sulle quali si fondano i regimi basati sulla disuguaglianza in essere.

Nelle società contemporanee, si tratta in particolare della narrativa proprietarista, imprenditoriale e meritocratica: la disuguaglianza moderna è giusta, perché è la conseguenza di un processo liberamente scelto nel quale ognuno ha le stesse opportunità di accesso al mercato e alla proprietà e nel quale ciascuno gode naturalmente del vantaggio derivante dal patrimonio dei più ricchi, che sono anche i più intraprendenti, i più meritevoli e i più utili. Condizioni che ci collocherebbero dunque agli antipodi della disuguaglianza delle società tradizionali, che si fondava su sperequazioni statutarie rigide, arbitrarie e spesso dispotiche.

Il problema è che questa grande narrazione proprietarista e meritocratica, che ha conosciuto un primo momento di gloria nel XIX secolo, dopo il crollo delle società classiste dell'ancien régime, e ha subito una riformulazione radicale di portata mondiale dalla fine del XX secolo, a seguito della caduta del comunismo sovietico e del trionfo dell'ipercapitalismo, è diventata sempre più fragile. Conduce infatti a contraddizioni che prendono forme molto diverse in Europa e negli Stati Uniti, in India e in Brasile, in Cina e in Sudafrica, in Venezuela e in Medio Oriente. Peraltro queste differenti traiettorie, derivate da vicende storiche specifiche e in parte collegate, in questo inizio di XXI secolo risultano sempre più strettamente ínterconnesse. Solo una visione transnazionale può consentire di comprendere meglio tali fragilità e di concepire una narrazione alternativa.

Di fatto, a partire dagli anni ottanta-novanta del Novecento la crescita delle disuguaglianze socioeconomiche si registra in quasi tutte le regioni del mondo. In alcuni casi il fenomeno è diventato così evidente che è ormai sempre più difficile giustificarlo in nome dell'interesse generale. Si è aperto inoltre un po' dappertutto un gigantesco abisso fra i proclami meritocratici ufficiali e i problemi che devono affrontare le classi più disagiate per accedere all'istruzione e alla sicurezza economica. La narrativa meritocratica e imprenditoriale sembra spesso un modo molto comodo, per i privilegiati del sistema economico attuale, di giustificare qualunque livello di disuguaglianza senza nemmeno doverlo analizzare, stigmatizzando allo stesso tempo chi soccombe per le sue mancanze: di merito, di capacità e di diligenza. Questa colpevolizzazione dei più poveri non esisteva o, almeno, non era così esplicita nei precedenti regimi basati sulla disuguaglianza, che sottolineavano invece la complementarità funzionale dei diversi gruppi sociali.

La disuguaglianza moderna è poi caratterizzata da un insieme di pratiche discriminatorie e di privilegi di status ed etno-religiosi la cui violenza viene mistificata dalla favoletta meritocratica, violenza che ci riporta alle forme più brutali delle disuguaglianze antiche, dalle quali pretendiamo di essere diversi. Si possono citare a questo proposito le discriminazioni delle quali sono vittime uomini e donne senza fissa dimora o che provengono da determinati quartieri o che sono di una particolare origine etnica. Pensiamo anche ai migranti che annegano nel Mediterraneo. Di fronte a queste contraddizioni, e in mancanza di una nuova visione universalista ed egualitaria credibile, che consenta di affrontare la sfida delle disuguaglianze economiche, delle migrazioni e del cambiamento climatico incombente, c'è da temere che la narrativa identitaria e nazionalista prenda sempre più campo come potente piattaforma alternativa, come è avvenuto in Europa nella prima metà del XX secolo, e come di nuovo sta avvenendo in diverse regioni del mondo all'inizio di questo XXI secolo.

È stata la prima guerra mondiale a lanciare il movimento che ha prima distrutto e poi ridefinito la grande disuguaglianza della globalizzazione commerciale e finanziaria avvenuta durante la belle époque (1880-1914), epoca che è sembrata "bella" solo a fronte della massacrante violenza che seguì, e che in verità lo fu solo per i signori e in modo più specifico per i signori bianchi. Se non si interviene a fondo sull'attuale sistema economico della disuguaglianza per renderlo più equo e stabile, riducendo la disuguaglianza economica, sia fra i paesi sia all'interno dei paesi, il "populismo" xenofobo e i suoi possibili futuri successi elettorali potrebbero rapidamente innescare il movimento di distruzione della globalizzazione ipercapitalista e digitale degli anni 1990-2020.

La conoscenza e la storia sono i migliori strumenti per prevenire questo rischio. Ogni società umana deve giustificare le sue disuguaglianze, e tali giustificazioni contengono sempre un misto di verità e di esagerazione, di fantasia e di miseria, di idealismo e di egoismo. Un regime basato sulla disuguaglianza intesa nel senso che si descriverà in questo studio si caratterizza con una serie di narrative e di dispositivi istituzionali finalizzati a giustificare e a strutturare le disuguaglianze economiche, sociali e politiche di una specifica società. Ogni regime ha i suoi punti deboli e per sopravvivere deve ridefinirsi continuamente, spesso in modo conflittuale e violento, ma sempre basandosi su esperienze e conoscenze condivise. Questo libro ha per oggetto la storia e l'evoluzione dei regimi basati sulla disuguaglianza. Con la raccolta di documentazione storica relativa a società molto lontane fra di loro, che spesso si ignorano e rifiutano di paragonarsi le une alle altre, spero di contribuire a una migliore comprensione delle trasformazioni in corso, in una prospettiva globale e transnazionale.

Da questa analisi storica emerge un'importante conclusione: è stata la lotta per l'uguaglianza e per l'istruzione che ha permesso il progresso umano e lo sviluppo economico, e non la sacralizzazione della proprietà, della stabilità e della disuguaglianza. La nuova narrazione dell'iperdisuguaglianza che si è affermata a partire dagli anni ottanta e novanta del Novecento è in parte il prodotto della storia e del disastro comunista. Ma è anche il frutto dell'ignoranza e della separazione dei saperi, e ha fortemente contribuito ad alimentare il fatalismo e le attuali derive identitarie. Riprendendo il filo della storia in una prospettiva pluridisciplinare, è possibile concepire una narrativa più equilibrata, e definire i contorni di un nuovo socialismo partecipativo per il XXI secolo; un nuovo orizzonte egualitario tendenzialmente universale, una nuova ideologia dell'uguaglianza, della proprietà sociale, dell'istruzione e della condivisione dei saperi e dei poteri, con un atteggiamento più ottimista sulla natura umana e anche più preciso e convincente rispetto alle precedenti narrazioni, perché più vicino alla lezione della storia globale. Ciascuno, poi, sarà libero di fare le sue valutazioni e di riprendere queste lezioni fragili e provvisorie per elaborarle e portarle avanti.

Prima di descrivere l'organizzazione di questo libro e la struttura della mia esposizione storica, dalle antiche società ternarie e schiaviste alle società post-coloniali e ipercapitaliste moderne, desidero presentare le fonti principali a cui ho attinto, e spiegare la relazione fra questo lavoro e la mia opera precedente, Il capitale nel XXI secolo. Ma prima è necessario che io spenda qualche parola sulla nozione di ideologia utilizzata in questo studio.

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Che cos'è un'ideologia?


In questo libro voglio provare a usare la nozione di ideologia in modo positivo e costruttivo, cioè come un insieme di idee e di narrazioni a priori plausibili e intese a descrivere come si dovrebbe strutturare la società. L'ideologia sarà inquadrata nelle sue dimensioni che sono al tempo stesso sociali, economiche e politiche. Un'ideologia è un tentativo più o meno coerente di dare risposte a un insieme di problemi, quanto mai ampi, relativi all'organizzazione desiderabile o ideale della società. Considerata la complessità dei problemi da affrontare, è ovvio che nessuna ideologia potrà mai contare su un'adesione piena e totale da parte di tutti: il conflitto e il confronto ideologico fanno intrinsecamente parte dell'ideologia stessa. Eppure, ogni società non ha altra scelta se non quella di tentare di rispondere a questi problemi, spesso sulla base della sua esperienza storica e talvolta anche di quella delle altre società. In generale, il singolo individuo si sente in dovere di avere un'opinione su questi problemi fondamentali ed esistenziali, per quanto imprecisa e insoddisfacente possa essere.

Si tratta in particolare del problema del regime politico, cioè l'insieme di regole che descrivono una comunità e il suo territorio, i meccanismi che permettono di prendere le decisioni collettive e i diritti politici dei suoi membri. Tutto questo include le diverse forme di partecipazione politica, il ruolo dei cittadini e degli stranieri, dei presidenti e delle assemblee, dei ministri e dei re, dei partiti e delle elezioni, degli imperi e delle colonie.

Si tratta anche del problema del regime della proprietà, l'insieme delle regole che descrivono le diverse forme possibili di possesso e le procedure legali e pratiche che definiscono e regolano i rapporti di proprietà fra i gruppi sociali interessati: il ruolo della proprietà privata e pubblica, immobiliare e finanziaria, fondiaria e mineraria, schiavile e servile, intellettuale e immateriale, nonché i rapporti tra proprietari e locatari, nobili e contadini, padroni e schiavi, azionisti e salariati.

Ogni società, ogni regime basato sulla disuguaglianza, si caratterizza per un insieme di risposte, più o meno coerenti e stabili, al problema del regime politico e al problema del regime della proprietà. Queste due serie di risposte e di narrative sono spesso strettamente legate fra di loro, perché in linea di massima derivano entrambe da una medesima teoria della disuguaglianza sociale e della sperequazione fra i diversi gruppi sociali in essere (disuguaglianza e sperequazione vere o presunte, legittime o deprecabili). In genere implicano svariati altri dispositivi intellettuali e istituzionali, in particolare un sistema dell'istruzione (cioè le regole e le istituzioni che organizzano la trasmissione di tradizioni spirituali e delle conoscenze: famiglie e chiese, padri e madri, scuole e università) e un sistema fiscale (le regole e i dispositivi che permettono di convogliare risorse adeguate agli Stati e alle regioni, ai comuni e agli imperi, come anche a una serie di organizzazioni sociali, religiose e collettive di varia natura). Per questo, le risposte che vengono date alle differenti dimensioni dei problemi possono essere molto diverse. Si può essere d'accordo sul regime politico e non sul regime della proprietà, oppure su uno specifico aspetto del sistema fiscale o dell'istruzione ma non su altri aspetti. Il conflitto ideologico è quasi sempre articolato su molte dimensioni, anche se può succedere che uno specifico aspetto assuma un'importanza prioritaria, magari per un periodo limitato di tempo, cosa che può dare l'illusione di un consenso maggioritario e promuovere talora un'ampia mobilitazione collettiva che porta poi a trasformazioni storiche di grande portata.

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I confini e la proprietà


Per semplificare, si può dire che ogni ideologia e ogni regime basato sulla disuguaglianza si fonda su una teoria dei confini e su una teoria della proprietà.

Prima bisogna affrontare il problema dei confini. È necessario definire chi fa parte della comunità umana e politica alla quale ci si riferisce e chi non ne fa parte, su quale territorio e con quali istituzioni si debba governare, e come si debbano organizzare i rapporti con le altre comunità nell'ambito della più vasta comunità universale degli uomini (che, a seconda delle ideologie, può essere più o meno riconosciuta come tale). È una questione che in larga parte riguarda il problema del regime politico, ma che richiede anche una risposta immediata ai problemi relativi alla disuguaglianza sociale, in particolare a quelli che dividono i cittadini dagli stranieri.

Bisogna poi riscontrare anche il problema della proprietà: è possibile possedere altri individui, i terreni agricoli, gli immobili, le imprese, le risorse naturali, le conoscenze, le azioni, il debito pubblico; e secondo quali modalità pratiche e in base a quale sistema legale e giuridico devono essere organizzati i rapporti tra proprietari e non proprietari e la continuità nel tempo di questi rapporti? I problemi relativi al sistema della proprietà, al sistema dell'istruzione e al sistema fiscale hanno un impatto strutturale sulle disuguaglianze sociali e sulla loro evoluzione.

Nella maggior parte delle società tradizionali, i problemi del regime politico e quelli del regime della proprietà - ovvero la questione del potere sugli individui e quella del potere sulle cose (o meglio sugli oggetti del possesso, che talvolta sono persone, come nel caso della schiavitù, e che in ogni caso hanno un impatto determinante sui rapporti di potere tra le persone) - sono legati in modo diretto e immediato. Come emerge in modo molto evidente nelle società schiaviste, dove i due problemi in gran parte si sovrappongono: certi individui possiedono altri individui, dei quali sono al contempo i governanti e i proprietari.

Lo stesso accade, ma in modo meno esplicito, nelle società ternarie o "trifunzionali" (cioè divise in tre classi funzionali: una classe clericale e religiosa, una classe aristocratica e guerriera, una classe plebea e lavoratrice). In questo schema storico, che si osserva nella maggior parte delle civiltà premoderne, le due classi dominanti sono inseparabilmente classi dirigenti dotate di poteri sovrani (sicurezza e giustizia) e classi di possidenti. Per secoli, il landlord è stato il signore delle persone che lavoravano sulle terre e il padrone delle terre stesse.

Le società dei proprietari, che fiorirono particolarmente in Europa nel XIX secolo, cercano al contrario di separare rigorosamente il problema del diritto alla proprietà (ritenuto universale e aperto a tutti) da quello del potere sovrano (ormai monopolio dello Stato centralizzato). Il regime politico e il regime della proprietà restano comunque strettamente legati, in parte perché i diritti politici sono rimasti per molto tempo riservati ai possidenti, nel quadro dei regimi politici detti "censitari" (basati sul censo), e in parte perché, più in generale, una molteplicità di regole costituzionali continuarono (e continuano tuttora) a limitare drasticamente la possibilità, per una maggioranza politica, di ridefinire il regime di proprietà secondo modalità legali e pacifiche.

Vedremo in seguito che il problema del regime politico e quello del regime della proprietà sono sempre stati inestricabilmente legati, dal tempo delle antiche società ternarie e schiaviste, fino alle moderne società post-coloniali e ipercapitaliste, passando per le società dei proprietari e le società comuniste e socialdemocratiche che si svilupparono come reazione alle crisi di identità e disuguaglianza provocate dalle società dei proprietari.

Per questa ragione propongo di analizzare queste trasformazioni storiche utilizzando la nozione di "regime della disuguaglianza", che comprende le disuguaglianze del regime politico e quelle del regime di proprietà (o anche del sistema dell'istruzione e di quello fiscale) e consente di percepirne meglio la coerenza. Per descrivere i vincoli strutturali e durevoli, ancora presenti nel mondo attuale, che legano regime politico e regime di proprietà, si può citare la totale assenza di un meccanismo democratico che consenta a una maggioranza di cittadini dell'Unione Europea (e a maggior ragione di cittadini del mondo) di adottare un progetto redistributivo anche minimo o una minima tassa per lo sviluppo comune, questo a causa del diritto di veto fiscale che ogni paese detiene, per quanto esigua sia la sua popolazione e nonostante i vantaggi che essa trae dalla sua integrazione commerciale e finanziaria nel sistema.

In termini più generali, il dato essenziale è che la disuguaglianza odierna è fortemente e potentemente strutturata dal sistema dei confini, delle nazionalità e dei diritti sociali e politici a questo associati. Un dato che contribuisce a generare, all'inizio del XXI secolo, conflitti ideologici violenti e multidimensionali sui problemi della disuguaglianza, sui problemi identitari e sui problemi delle migrazioni, cosa che complica molto la costituzione di coalizioni maggioritarie in grado di controllare la crescita delle disuguaglianze. In pratica, le divisioni etno-religiose e nazionali impediscono spesso alle classi popolari di origine diversa e provenienti da paesi differenti di riunirsi in un'unica coalizione politica, cosa che può fare il gioco dei più ricchi e della deriva della disuguaglianza, in mancanza di un'ideologia e di una piattaforma programmatica credibili e in grado di convincere i gruppi sociali più svantaggiati che ciò che li unisce è più importante di ciò che li divide. Questi problemi verranno trattati al momento opportuno. Qui voglio solo insistere sul fatto che lo stretto legame tra regime politico e regime di proprietà corrisponde a una realtà antica, strutturale e connotata da permanenza temporale, che non può essere correttamente analizzata se non nell'ambito di una prospettiva storica ampia e transnazionale.

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Prendere sul serio l'ideologia


La disuguaglianza non è economica o tecnologica: è ideologica e politica. Questa è la conclusione più evidente dell'indagine storica qui presentata. Il mercato e la concorrenza, il profitto e il salario, il capitale e il debito, i lavoratori qualificati e non qualificati, i soggetti nazionali e gli stranieri, i paradisi fiscali e la competitività non esistono in quanto tali. Sono categorie sociali e storiche che dipendono interamente dal sistema legale, fiscale, dell'istruzione e politico che si sceglie di istituire e dalle categorie che ne derivano. Scelte che rimandano prima di tutto alla concezione che ogni società si forma della giustizia sociale e dell'economia giusta, oltre che dei rapporti di forza politico-ideologici fra i diversi gruppi e fra le diverse narrazioni. Il punto importante è che tali rapporti di forza non sono solamente materiali: sono anche, e soprattutto, intellettuali e ideologici. In altre parole, le idee e le ideologie contano, nella storia. Permettono, costantemente, di immaginare e di strutturare mondi nuovi e società diverse. Sono sempre possibili molteplici traiettorie.

Questo approccio si distingue dai tanti discorsi conservatori finalizzati a dimostrare che esistono dei fondamenti "naturali" delle disuguaglianze. In modo non così sorprendente, le élite delle diverse società, in tutte le epoche e a tutte le latitudini, tendono spesso a descrivere le disuguaglianze come "naturali", cercando di rappresentarne i fondamenti come naturali e obiettivi, spiegando che le sperequazioni sociali esistenti sono "necessarie" nell'interesse dei più poveri e della società in generale e che, in ogni caso, la loro attuale struttura è la sola concepibile, né sarebbe possibile modificarla in modo sostanziale senza provocare enormi danni. L'esperienza storica dimostra il contrario: le disuguaglianze variano notevolmente nel tempo e nello spazio, sia nella loro dimensione sia nella loro struttura, e cambiano con modalità e rapidità tali da aver spesso colto di sorpresa i contemporanei. Un fatto che talvolta ha provocato gravi danni. Ma nel complesso, le diverse crisi e i diversi cambiamenti rivoluzionari e politici che hanno permesso di ridurre e di trasformare le disuguaglianze del passato sono stati un grande successo e hanno poi fatto nascere le nostre istituzioni più preziose, precisamente quelle che hanno permesso all'idea di progresso di diventare una realtà (il suffragio universale, la scuola gratuita e obbligatoria, l'assistenza sanitaria pubblica, il sistema tributario progressivo). È molto probabile che lo stesso si verifichi anche in futuro. Le attuali disuguaglianze e le istituzioni odierne non sono le sole possibili, contrariamente a quello che possono pensare i conservatori: anch'esse saranno chiamate a trasformarsi e a reinventarsi continuamente.

D'altra parte, questo approccio centrato sulle ideologie, sulle istituzioni e sulla diversità delle traiettorie possibili è differente anche da certe dottrine, qualificate talvolta come "marxiste", secondo le quali la situazione del potere economico e dei rapporti di produzione determinerebbero quasi automaticamente la "sovrastruttura" ideologica di una società. Io insisto, al contrario, sul fatto che esista una sostanziale autonomia della sfera delle idee, che è la sfera ideologico-politica. Per una stessa fase di sviluppo dell'economia e delle forze produttive (se queste parole hanno un senso, cosa che non è sicura), vi è sempre una molteplicità di regimi ideologici, politici e di disuguaglianza possibili. Per esempio, la teoria del passaggio automatico dal "feudalesimo" al "capitalismo" dopo la Rivoluzione industriale non permette di rendere conto della complessità e diversità delle traiettorie storiche e politico-ideologiche che si sono registrate nei vari paesi e nelle diverse regioni del mondo, in particolare fra regioni colonizzatrici e regioni colonizzate, come anche all'interno di ogni specifico sistema. E, soprattutto, non consente di trarne gli insegnamenti più utili ai fini degli sviluppi successivi. Per riprendere il filo del nostro discorso, si vede che ci sono sempre state e che ci saranno sempre molte alternative. A tutti i livelli di sviluppo di una società, ci sono molti modi per strutturare un sistema economico, sociale e politico, per definire i rapporti di proprietà, per organizzare un regime fiscale e un sistema dell'istruzione, per gestire un problema di debito pubblico o privato, per regolare i rapporti fra le diverse comunità umane e via di seguito. Ci sono sempre molte possibili vie che permettono di organizzare una società e i rapporti di potere e di proprietà al suo interno, differenze che in genere non riguardano solo elementi di dettaglio: tutt'altro. In particolare, ci sono molti e diversi modi di organizzare i rapporti di proprietà nel XXI secolo, e alcuni di questi possono rappresentare un superamento del capitalismo molto più autentico rispetto alla promessa di distruggerlo senza preoccuparsi di ciò che verrà dopo.

Lo studio delle diverse traiettorie storiche e delle molte biforcazioni abbandonate del passato è il migliore antidoto sia alla conservazione elitaria, sia all'attendismo rivoluzionario per la "grande occasione". Attendismo che spesso impedisce di considerare quale potrebbe essere il regime istituzionale e politico autenticamente progressista da istituire all'indomani della "grande occasione", e che, in genere, si risolve nell'accettazione di un potere statale al contempo ipertrofico e indefinito, che alla fine si può rivelare non meno pericoloso della sacralizzazíone proprietarista che si pretendeva di abbattere. Un simile atteggiamento ha provocato nel XX secolo pesanti danni umani e politici, dei quali ancora oggi paghiamo il prezzo. Il fatto che il post-comunismo (nella sua declinazione russa, come in quella cinese e anche, per certi aspetti, est-europea, nonostante le differenze delle diverse traiettorie) sia diventato, all'inizio del XXI secolo, il migliore alleato dell'ipercapitalismo è la conseguenza dei disastri del comunismo stalinista e maoista e dell'abbandono di qualsiasi ambizione egualitaria e internazionalista. Il disastro comunista è riuscito addirittura a far passare in secondo piano i danni provocati dalle ideologie schiaviste, colonialiste e razziste, nonché i profondi legami che le collegavano all'ideologia proprietarista e ipercapitalista: un'impresa davvero non da poco.

Nei limiti del possibile in questo libro vorrei tentare di prendere sul serio le ideologie. In particolare, vorrei concedere una possibilità a ogni ideologia del passato recuperandone la specifica coerenza, con particolare riguardo alle ideologie proprietariste, socialdemocratiche e comuniste, ma anche alle ideologie trifunzionali, schiaviste o colonialiste. Parto dal principio che ogni ideologia, per quanto estrema ed eccessiva possa apparire nella difesa di un certo tipo di disuguaglianza o di uguaglianza, esprima a suo modo una certa visione di società giusta e di giustizia sociale. Visione che ha sempre un fondo di plausibilità, di sincerità e di coerenza, dal quale è possibile imparare qualcosa per il futuro, a condizione però di studiare queste traiettorie politico-ideologiche non in modo astratto, astorico e a-istituzionale, ma al contrario nel rispetto del modo in cui si sono incarnate in determinate società e in epoche storiche e istituzioni specifiche, caratterizzate da particolari forme di proprietà e di regime fiscale e dell'istruzione. Queste forme devono essere pensate in maniera rigorosa e senza aver paura di studiarne in modo preciso le regole e le modalità di funzionamento (sistemi legali, aliquote fiscali, risorse per l'istruzione ecc.), senza le quali le istituzioni, come le ideologie, non sono che gusci vuoti, con i quali è impossibile trasformare la società e conquistare uno stabile supporto dei cittadini.

Ciò detto, non ignoro l'esistenza di un uso peggiorativo della nozione di ideologia, uso talvolta anche giustificato. Infatti, spesso viene qualificata come ideologica una visione caratterizzata da dogmatismo e da un assoluto disprezzo per i dati di fatto. Il problema è che quanti si qualificano come pragmatici puri sono spesso i più "ideologici" di tutti (in senso peggiorativo): la loro pretesa post-ideologica non riesce a nascondere il loro disinteresse per i fatti, la loro profonda ignoranza storica, il peso dei loro pregiudizi e del loro egoismo classista. Quando necessario, questo libro sarà molto "fattuale". Presenterò numerose traiettorie storiche relative alla struttura delle disuguaglianze e alla loro evoluzione nelle varie società, intanto perché si tratta del mio primo interesse come ricercatore, e poi perché sono convinto che l'esame spassionato delle fonti disponibili su questi problemi consenta di far progredire la riflessione collettiva. In particolare, questo consente di mettere a confronto società molto diverse fra di loro, che spesso rifiutano di paragonarsi le une con le altre, convinte (in genere a torto) della loro "eccezionalità" e del carattere unico e incomparabile della loro storia.

Allo stesso tempo so bene che le fonti disponibili non saranno mai sufficienti per dirimere tutte le controversie. L'esame dei "fatti" non consentirà mai di risolvere in modo definitivo il problema del regime politico (o del regime di proprietà, dell'istruzione o fiscale) ideale. Prima di tutto perché i fatti dipendono in larga misura dai dispositivi istituzionali (censimenti, indagini, tasse ecc.) e dalle categorie sociali, fiscali o giuridiche istituite dalle diverse società per descriversi, misurarsi e trasformarsi. I "fatti" stessi sono "costruiti" e non possono essere correttamente compresi se non nel contesto delle interazioni complesse, incrociate e interrelate fra lo strumento critico con il quale vengono osservati e la società oggetto di studio. Ciò evidentemente non significa che con questi strumenti conoscitivi non si possa apprendere nulla di utile, ma piuttosto che ogni tentativo di apprendimento deve tenere conto di questa complessità e di questa referenziale indeterminazione.

In secondo luogo, i problemi studiati - la natura dell'organizzazione sociale, economica e politica ideale - sono troppo complessi perché se ne possa trarre un'unica conclusione con un semplice esame "oggettivo" dei "fatti", che sarà sempre solo un'immagine riflessa delle limitate esperienze del passato e dei dibattiti parziali ai quali avremo potuto partecipare. Infine, perché è affatto possibile che il regime "ideale" (qualunque significato si scelga di dare a questo termine) non sia unico ma dipenda da molte delle specifiche caratteristiche della società studiata.

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Apprendimento collettivo e scienze sociali


Non è peraltro mia intenzione professare un relativismo ideologico generalizzato. È troppo facile, per un ricercatore di scienze sociali, mantenersi equidistante da tutte le diverse credenze senza pronunciarsi. Questo libro prenderà posizione, specie nell'ultima parte, ma cercherò di farlo esponendo nei limiti del possibile la procedura seguita e le ragioni che mi hanno portato su quelle posizioni.

Nella maggior parte dei casi, l'ideologia delle società si evolve prima di tutto in funzione della rispettiva esperienza storica. Per esempio, la Rivoluzione francese nasce, in parte, dal sentimento d'ingiustizia e dalle frustrazioni provocate dall'ancien régime. Dalle rotture che comporta, e dalle trasformazioni che provoca, la Rivoluzione contribuisce a sua volta a trasformare in modo permanente la percezione di un regime della disuguaglianza ideale, in funzione dei successi o degli insuccessi che i diversi gruppi sociali attribuiscono alle diverse esperienze rivoluzionarie, sia nel campo dell'organizzazione politica sia in quello del regime di proprietà o del sistema sociale, fiscale o dell'istruzione. Queste esperienze di apprendimento condizionano le future spaccature politiche e le traiettorie future. Ogni percorso politico-ideologico nazionale può essere considerato come un gigantesco processo di apprendimento collettivo e di sperimentazione storica. Un processo inevitabilmente conflittuale, perché i vari gruppi sociali e politici, oltre a non avere sempre uguali interessi e aspirazioni, non hanno la stessa memoria storica né un'uguale interpretazione degli avvenimenti o delle loro conseguenze sugli svolgimenti futuri. Queste esperienze di apprendimento peraltro contengono spesso anche determinati elementi di consenso nazionale, magari con valenza temporale limitata.

Questi processi di apprendimento collettivo hanno la loro parte di razionalità, ma hanno anche i loro limiti. In particolare, tendono ad avere la memoria corta (spesso bastano pochi decenni per dimenticare le esperienze del nostro paese, o se ne ricorda solo qualche briciola, raramente scelta a caso), e soprattutto, il più delle volte, sono memorie di marca strettamente nazionalista. Non confondiamo le cose: ogni società a volte impara qualcosa dalle esperienze di altri paesi, attraverso la conoscenza che ne ha, e in genere anche tramite gli incontri più o meno violenti tra le diverse società (guerre, colonizzazioni, occupazioni, trattati più o meno giusti... non sempre il modo più sereno e promettente di apprendere). Ma, in sostanza, le diverse visioni del regime politico ideale, del regime di proprietà più desiderabile, nonché del sistema legale, fiscale o dell'istruzione più giusto si formano in base alle esperienze nazionali nei vari settori e ignorano del tutto o quasi le esperienze degli altri paesi, soprattutto quando questi sono percepiti come lontani e depositari di tratti di civiltà, religione o etica molto diversi, oppure quando l'incontro è avvenuto in modo violento (cosa che può consolidare sentimenti di radicale estraneità). Più in generale, questi apprendimenti si basano spesso su rappresentazioni relativamente grossolane e imprecise dei dispositivi istituzionali effettivamente sperimentati in società diverse (cosa che può avvenire comunque anche a livello nazionale o fra paesi vicini). E questo accade sia nel campo della politica sia per i problemi legali, fiscali o dell'istruzione, un fatto che compromette seriamente l'utilità degli insegnamenti che se ne possono trarre.

Evidentemente, questi limiti non sono validi per l'eternità. Cambiano in funzione di una molteplicità di processi di diffusione e di trasmissione delle conoscenze e delle esperienze: scuole e libri, migrazioni e matrimoni, partiti e sindacati, incontri e mobilità, giornali, media e via dicendo. È qui che le scienze sociali possono giocare il loro ruolo. Conducendo un confronto accurato delle esperienze storiche svolte in paesi e in aree culturali e di civiltà differenti, sfruttando nel modo più sistematico possibile le fonti disponibili e studiando l'evoluzione della struttura delle disuguaglianze e dei regimi politico-ideologici nelle diverse società, sono convinto che sia possibile contribuire a una migliore comprensione delle trasformazioni in atto. Soprattutto, un simile approccio comparativo, storico e transnazionale permetterà di formarsi un'idea più precisa di quale potrebbe essere un'organizzazione politica, economica e sociale migliore per le varie società del mondo nel XXI secolo, e soprattutto per la società mondiale, che è la comunità politica umana alla quale tutti apparteniamo. Ma non pretendo certo che le conclusioni che propongo in questo libro siano le sole possibili. Mi sembrano quelle che derivano più logicamente dalle esperienze storiche disponibili e dalla documentazione che presento, e cercherò di esporre nel modo più preciso possibile gli episodi e le analisi comparative che mi sono sembrate più decisive per giustificare ogni specifica conclusione (senza cercare di nascondere l'importanza delle incertezze che permangono). È necessario comunque tenere presente che queste conclusioni dipendono da conoscenze e da ragionamenti caratterizzati anch'essi da seri limiti. Si tratta di un piccolo passo in un grande processo di apprendimento collettivo, e sono io stesso molto curioso e impaziente di scoprire i passi successivi di questa avventura umana.

Voglio anche aggiungere che questo libro non è in alcun modo un libro di lamentazioni: lo dico per coloro che si lamentano della crescita delle disuguaglianze e delle derive identitarie, e anche per coloro che temono che anch'io mi lamenti. Per quanto mi concerne sono invece un ottimista per natura, e il mio scopo principale è contribuire a trovare soluzioni ai problemi emergenti. Anziché voler vedere il bicchiere mezzo vuoto, non è per nulla vietato meravigliarsi per l'incredibile capacità delle società umane d'immaginare sempre nuovi istituti e nuove forme di collaborazione, di tenere insieme milioni (e talvolta centinaia di milioni o addirittura miliardi) di persone che non si sono mai incontrate e che non s'incontreranno mai e che potrebbero benissimo ignorarsi, o al limite distruggersi, invece di sottomettersi a regole pacifiche, nonostante si sappia così poco sulla natura del regime ideale e dunque delle regole alle quali sarebbe giusto sottomettersi. In ogni caso, anche questa immaginazione istituzionale ha i suoi limiti e deve essere oggetto di un'analisi ragionata. Dire che la disuguaglianza è ideologica e politica, e non economica o tecnologica, non significa che sia possibile far sparire la disuguaglianza come per incanto. Vuol dire, più modestamente, che bisogna prendere sul serio la diversità ideologico-istituzionale delle società umane e che bisogna diffidare di tutti i discorsi che cercano di far passare come naturali le disuguaglianze e di negare l'esistenza di possibili alternative. Questo significa anche che bisogna studiare bene i dispositivi istituzionali e i dettagli delle regole legali, fiscali o dell'istruzione istituite nei diversi paesi, perché sono proprio quelli i dettagli decisivi che in realtà fanno funzionare la collaborazione e che garantiscono (o meno) il progresso dell'uguaglianza, al di là della buona volontà degli uni e degli altri, che deve comunque essere sempre presupposta, ma che non è mai sufficiente, se non si associa a consolidati dispositivi cognitivi e istituzionali. Se riuscirò a comunicare al lettore un po' di questa ragionata meraviglia, e a convincerlo che le conoscenze storiche ed economiche sono troppo importanti per essere lasciate agli altri, allora il mio obiettivo sarà stato pienamente raggiunto.

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Le fonti utilizzate in questo libro: disuguaglianze e ideologie


Questo libro si basa su due grandi categorie di fonti storiche: da una parte le fonti che permettono di misurare l'evoluzione delle disuguaglianze in una prospettiva storica comparativa e multidimensionale (disuguaglianze di reddito, salario, patrimonio, istruzione, genere, età, professione, origine, religione, razza, status ecc.); dall'altra parte le fonti che permettono di studiare la trasformazione delle ideologie, delle credenze politiche, delle rappresentazioni delle disuguaglianze e delle istituzioni economiche, sociali e politiche che ne costituiscono la struttura.

Per quanto concerne le disuguaglianze utilizzerò in particolare i dati raccolti nel quadro del World Inequality Database (WID.world). Si tratta di un progetto che si basa sul lavoro combinato di più di 100 ricercatori in oltre 80 paesi di tutti i continenti. Il progetto fornisce la più ampia base di dati attualmente disponibile sull'evoluzione storica delle disuguaglianze di redditi e patrimoni, sia fra i diversi paesi che all'interno dei vari paesi. Il progetto WID.world è il risultato degli studi storici iniziati con Anthony Atkinson ed Emmanuel Saez all'inizio degli anni Duemila, studi che miravano a generalizzare e ad ampliare le ricerche avviate negli anni 1950-1970 da Simon Kuznets , Atkinson e Allan Harrison. Ricerche che si basano su un confronto sistematico delle differenti fonti disponibili, e in particolare sulla contabilità nazionale, sui risultati di indagini e sui dati fiscali e relativi agli atti di successione, che permettono in genere di risalire fino alla fine del XIX secolo e all'inizio del XX, periodo nel quale vennero istituiti in molti paesi sistemi di esazione fiscale progressivi sui redditi e sulle successioni, cosa che ha anche permesso di scoprire molti dati sui patrimoni (le tasse sono sempre uno strumento per generare categorie e conoscenze, e non solo entrate fiscali e malcontento). Per certi paesi la documentazione può risalire alla fine del XVIII o all'inizio del XIX secolo; è questo, in particolare, il caso della Francia, dove la Rivoluzione portò alla precoce istituzione di un sistema unificato di registrazione delle proprietà e della loro trasmissione. Queste ricerche hanno permesso di mettere in una prospettiva storica di lungo periodo il fenomeno dell'incremento delle disuguaglianze osservato a partire dagli anni ottanta e novanta del Novecento e anche di documentare il dibattito mondiale su questi problemi, come dimostra l'interesse suscitato da Il capitale nel XXI secolo, pubblicato nel 2013, e dal World Inequality Report 2018.

Questo interesse è anche una dimostrazione del profondo bisogno di democratizzazione delle conoscenze economiche e di partecipazione politica. In società sempre più istruite e informate è sempre meno accettabile lasciare i problemi economici e finanziari a un ristretto gruppo di esperti di dubbia competenza, ed è normale che gruppi sempre più numerosi di cittadini cerchino di farsi la loro opinione e di impegnarsi direttamente. L'economia è il cuore della politica; non la si può delegare, come non si può delegare la democrazia.

I dati disponibili sulle disuguaglianze restano sfortunatamente incompleti, in particolare per la mancanza di trasparenza economica e finanziaria e per la difficoltà di accesso alle fonti fiscali, amministrative e bancarie in troppi paesi. Grazie alla collaborazione di centinaia di cittadini, ricercatori e giornalisti, siamo riusciti negli ultimi anni ad avere accesso a nuove fonti che i governi dei vari paesi si erano fino a oggi rifiutati di mettere a disposizione, per esempio in Brasile e in India, in Sudafrica e in Tunisia, in Libano e in Costa d'Avorio, in Corea e a Taiwan, in Polonia e in Ungheria e, purtroppo in modo più limitato, in Cina e in Russia. Fra i molti limiti del mio libro del 2013, uno dei più evidenti è stato il suo occidentalcentrismo, nel senso che ha lasciato eccessivo spazio all'esperienza storica dei paesi detti "occidentali" (Europa occidentale, America del Nord, Giappone). Questo è conseguenza delle difficoltà di accesso a fonti storiche adeguate per gli altri paesi. I dati inediti ora disponibili dal WID.world mi permettono in questo nuovo libro di superare l'ambito occidentale e di svolgere un'analisi più ricca dei diversi regimi basati sulla disuguaglianza e delle traiettorie e biforcazioni possibili. Nonostante questo progresso, devo comunque sottolineare che í dati disponibili continuano a essere decisamente insufficienti, per quanto concerne sia i paesi ricchi che quelli poveri.

In questo libro ho anche raccolto molte altre fonti e materiali su periodi, paesi o aspetti delle disuguaglianze che non sono stati adeguatamente trattati nel WTD.world, per esempio sulle società preindustriali o sulle società coloniali, nonché sulle disuguaglianze di status, professionali, di istruzione, di genere, di razza o di religione.

Per quanto concerne le ideologie, le fonti utilizzate saranno naturalmente molto diverse. Continuerò a consultare le fonti classiche: dibattiti parlamentari, discorsi politici, programmi e piattaforme elettorali dei partiti. Utilizzerò i testi dei pensatori teorici come quelli degli attori della politica, perché sia gli uni sia gli altri giocano un ruolo importante nella storia. Ci danno un contributo complementare sugli schemi giustificativi della disuguaglianza correnti nelle diverse epoche. Questo vale, per esempio, per i testi vescovili dell'inizio dell'XI secolo che giustificavano l'organizzazione trifunzíonale della società in tre classi (clero, nobiltà guerriera e lavoratori), come anche per l'autorevole trattato neoproprietarista e semidittatoriale pubblicato all'inizio degli anni ottanta del Novecento da Friedrich von Hayek (Legge, legislazione e libertà), e per gli scritti degli anni trenta dell'Ottocento del senatore democratico della Carolina del Sud e vicepresidente degli Stati Uniti John Calhoun intesi a giustificare "la schiavitù come bene positivo" (slavery as a positive good). Lo stesso vale anche per i testi del presidente Xi Jinping e del Global Times sul sogno neocomunista cinese, che sono altrettanto rivelatori dei tweet di Donald Trump o degli articoli del Wall Street Journal o del Financial Times sulla visione ipercapitalista statunitense e anglosassone. Tutte queste ideologie devono essere considerate seriamente, non solo perché hanno avuto e hanno tuttora un forte impatto sul corso degli eventi, ma anche perché testimoniano, a loro modo, i tentativi (più o meno convincenti) di dare un senso a realtà sociali complesse. Gli uomini non possono fare a meno di tentare di dare un senso alle società nelle quali vivono, per diseguali e ingiuste che siano. Il principio dal quale parto è che ci sia sempre qualcosa da imparare dai diversi schemi ideologici, e che solo un esame dell'insieme delle narrative e delle traiettorie storiche possa permettere di trarre lezioni utili per il futuro.

Dovrò anche ricorrere alla letteratura, che spesso costituisce una delle fonti migliori per illustrare le trasformazioni delle rappresentazioni delle disuguaglianze. Nel Capitale nel XXI secolo avevo usato il romanzo classico europeo del XIX secolo, in particolare i testi di Balzac e di Jane Austen , che offrono un punto di vista unico per osservare le società proprietariste fiorite in Francia e nel Regno Unito nel periodo 1790-1830. Questi due scrittori hanno una conoscenza precisa della gerarchia della proprietà in vigore nel loro ambiente. Ne conoscono perfettamente le motivazioni profonde e i confini segreti, le conseguenze feroci sulla vita di uomini e donne, sulle loro strategie, frequentazioni e alleanze, sulle loro speranze e sulle loro disgrazie. Analizzano la struttura profonda delle disuguaglianze, il modo in cui le si giustifica e le loro implicazioni nella vita di ognuno, con un realismo e una forza evocatrice che nessun discorso politico o testo di scienze sociali può eguagliare.

Avremo modo di vedere che la capacità unica della letteratura di evocare i rapporti di potere e di dominio fra i diversi gruppi sociali, di sentire le percezioni delle disuguaglianze come sono vissute dagli uni e dagli altri, si ritrova in tutte le società e ci può fornire riscontri preziosi su regimi di disuguaglianza molto diversi. In Destino, un magnifico affresco pubblicato per la prima volta nel 2008, pochi anni prima della sua morte, Carlos Fuentes disegna un quadro illuminante del capitalismo messicano e della violenza sociale che attanaglia il suo paese. In Questa terra dell'uomo, pubblicato in lingua originale nel 1980, Pramoedga Ananta Toer ci fa vedere come funziona l'iniquo regime coloniale olandese in Indonesia a cavallo tra XIX e XX secolo, con un realismo e una brutalità che nessuna altra fonte può raggiungere. In Americanah Chimamanda Ngozi Adichie propone, nel 2013, un resoconto fiero e ironico dei percorsi migratori di Ifemelu e di Obinze, dalla Nigeria agli Stati Uniti e all'Europa, e un punto di vista unico su una delle dimensioni più dure del regime della disuguaglianza attuale.

Per studiare le ideologie e le loro trasformazioni, questo libro si basa anche su un uso sistematico e originale delle analisi post-elettorali effettuate nella maggior parte dei paesi nei quali si sono svolte elezioni dopo la seconda guerra mondiale. Nonostante tutti i loro limiti, questi sondaggi forniscono un'immagine incomparabile della struttura e delle dimensioni del conflitto politico, ideologico ed elettorale dagli anni quaranta e cinquanta del Novecento fino alla fine degli anni dieci del Duemila, non solo per quasi tutti i paesi occidentali (in particolare Francia, Stati Uniti e Regno Unito, paesi che analizzerò in modo più dettagliato) ma anche per molti altri paesi che saranno parimenti oggetto del mio studio, in particolare India, Brasile e Sudafrica. Uno dei limiti più importanti del mio Iibro del 2013, oltre all'occidental-centrismo, è stata la tendenza a trattare le trasformazioni politico-ideologiche relative alle disuguaglianze e alla redistribuzione come una specie di scatola nera. Ho formulato, beninteso, alcune ipotesi in merito, per esempio sulla trasformazione delle rappresentazioni e degli atteggiamenti politici rispetto alle disuguaglianze e alla proprietà privata nel XX secolo come conseguenza delle guerre mondiali, delle crisi economiche e della sfida comunista, ma senza affrontare a fondo il problema dell'evoluzione delle ideologie basate sulla disuguaglianza. E quello che cerco di fare in modo molto più esplicito in questo nuovo lavoro, collocando la questione in una prospettiva temporale e spaziale più ampia, utilizzando proprio le analisi post-elettorali e le altre fonti che consentono di analizzare l'evoluzione delle ideologie.

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Il progresso, il ritorno delle disuguaglianze, la complessità del mondo


Entriamo ora nel vivo della materia. Il progresso esiste, ma è fragile, e in ogni momento può venire massacrato dalle derive della disuguaglianza e dalle derive identitarie del mondo. Il progresso comunque esiste: per convincersene basta osservare l'evoluzione della salute e dell'istruzione nel mondo negli ultimi due secoli (vedi grafico 0.1).

La speranza di vita alla nascita nel mondo è passata dalla media di 26 anni circa nel 1820 a 72 anni nel 2020. All'inizio del XIX secolo, la mortalità infantile uccideva circa il 20% dei neonati del mondo nel loro primo anno di vita, contro meno dell'1% odierno. Se si considerano solo le persone che raggiungono il primo anno di vita, la speranza di vita alla nascita è passata da circa 32 anni nel 1820 a 73 anni nel 2020. E ci sono molti altri indicatori: la probabilità per un neonato di raggiungere i 10 anni di vita, quella di un adulto di raggiungere i 60 anni e quella di un anziano di vivere cinque o dieci anni dopo la pensione in buona salute. Per tutti questi indicatori il miglioramento sul lungo termine è stato impressionante. Certo si possono trovare paesi ed epoche in cui la speranza di vita diminuisce, anche in tempi di pace, come per esempio l'Unione Sovietica negli anni settanta del Novecento o gli Stati Uniti negli anni dieci del Duemila, un dato che, in generale, non è un buon segno per i regimi responsabili. Ma sul lungo termine la tendenza positiva è incontestabile, in tutte le regioni del mondo, indipendentemente dai limiti delle fonti demografiche disponibili.

Il genere umano vive oggi in condizioni di salute mai godute prima nella sua storia; lo stesso vale per l'accesso all'istruzione e alla cultura. L'UNESCO non esisteva all'inizio del XIX secolo e l'alfabetizzazione non era definita come lo è dal 1958 a oggi, cioè come la capacità di una persona di "leggere e scrivere, capendolo, un brano semplice in rapporto con la sua vita giornaliera". Secondo i dati raccolti in una serie di recenti indagini, si stima che appena il 12% della popolazione mondiale oltre i 15 anni di età si qualificava come alfabetizzata all'inizio del XIX secolo, a fronte di più dell'85% odierno. Anche in questo caso gli indicatori più precisi confermano la diagnosi: il numero medio di anni di scolarizzazione è passato da appena un anno, due secoli fa, a più di otto anni nel mondo odierno e a più di dodici anni nei paesi più avanzati. Al tempo di Austen e di Balzac, meno del 10% della popolazione mondiale aveva accesso alla scuola elementare; al tempo di Adichie e di Fuentes, più della metà delle giovani generazioni nei paesi ricchi va all'università: quello che era stato da sempre un privilegio di classe è ora possibile per la maggioranza della popolazione.

Per rendersi conto dell'importanza delle trasformazioni avvenute, è opportuno tenere presente che sia la popolazione mondiale sia il reddito medio sono aumentati di un fattore 10 rispetto al XVIII secolo. La popolazione è passata da circa 600 milioni nel 1700 a più di 7 miliardi nel 2020, mentre il reddito, nei limiti della possibilità di misurarlo, è passato da un potere d'acquisto medio (espresso in euro 2020) di 80 euro al mese per abitante del pianeta nel 1700, a circa 1000 euro al mese nel 2020 (vedi grafico 0.2).

Questi importanti incrementi quantitativi, che - è bene ricordarlo - corrispondono a ritmi di crescita annuale media di appena lo 0,8%, accumulati in più di tre secoli, rappresentano comunque dei "progressi" incontestabili dello stesso ordine di grandezza di quelli che si sono verificati per la salute e per l'istruzione; e provano che forse non è indispensabile una crescita del 5% annuo per garantire il benessere sul pianeta.

In realtà, nei due casi, l'interpretazione di questi fenomeni evolutivi è ambigua, e apre un complesso dibattito sul futuro. La crescita demografica riflette in parte la diminuzione della mortalità infantile e in parte l'aumento della durata media della vita, per cui un numero crescente di genitori invecchia con i figli in vita, che non è cosa da poco. Ma la conseguenza è che se questo tasso di crescita della popolazione continuasse allo stesso ritmo porterebbe in tre secoli a una popolazione di più di 70 miliardi di persone, una cosa che non sembra auspicabile né sostenibile dal pianeta. L'incremento del reddito medio implica da una parte un miglioramento effettivo della qualità della vita e nuove possibilità di viaggi, di divertimento, di incontri e di emancipazione (tre quarti degli abitanti del pianeta nel XVIII secolo vivevano al limite della soglia di sussistenza, mentre oggi quelli in questa condizione sono solo un quinto). Comunque ci sono ancora molti problemi nell'elaborazione degli strumenti contabili nazionali qui utilizzati per valutare l'evoluzione del reddito medio sul lungo termine; strumenti che, inventati in Francia e nel Regno Unito a cavallo tra XVII e XVIII secolo, da allora tentano di misurare il reddito nazionale, il prodotto interno lordo e a volte anche il capitale nazionale dei paesi. Questi strumenti, oltre a essere molto specifici sulle medie e sugli aggregati e poco attenti alle disuguaglianze, solo con molto ritardo e troppo lentamente cominciano a essere usati per il problema della sostenibilità e quello del capitale umano e naturale. Inoltre, non si deve sopravvalutare la loro capacità di esprimere con un unico indicatore le trasformazioni dimensionalmente molto articolate della qualità della vita e del potere d'acquisto su periodi così lunghi.

In generale i progressi reali in termini di salute, istruzione e potere d'acquisto nascondono grandi disuguaglianze e un'enorme fragilità. Nel 2018, nei paesi europei, nordamericani e nei paesi più ricchi dell'Asia, il tasso di mortalità infantile sotto l'anno di età è stato inferiore allo 0,1%, ma ha raggiunto quasi il 10% nei paesi africani più poveri. Il reddito medio mondiale ha raggiunto i 1000 euro al mese per abitante, ma era di soli 100-200 euro al mese nei paesi più poveri, mentre era superiore a 3000-4000 euro al mese nei paesi più ricchi, e ancora più alto in qualche microparadiso fiscale che alcuni sospettano (con buoni motivi) guadagnino rubando al resto del mondo, quando non si tratti di paesi la cui prosperità si basa su emissioni di CO2 e sul riscaldamento futuro del pianeta. Alcuni progressi sono avvenuti, ma ciò non cambia nulla sulla possibilità di fare meglio o, in ogni caso, di porsi seriamente il problema, invece di crogiolarsi nella beatitudine per i successi del mondo.

Il progresso medio sul lungo termine citato, ancorché incontestabile se si tengono presenti le condizioni di vita nel XVIII secolo e quelle all'inizio del XXI, non deve far dimenticare che è stato accompagnato da fasi di terribile regressione della civiltà e dell'uguaglianza. Le età dei lumi euro-americane e la Rivoluzione industriale furono anche anni di estrema violenza e di dominio proprietarista, schiavista e colonialista, che hanno avuto ampiezza storica senza precedenti nei secoli XVIII, XIX e XX, prima che le stesse potenze europee sprofondassero, negli anni 1914-1945, in una fase di autodistruzione genocida. In seguito, negli anni cinquanta e sessanta del Novecento, le stesse potenze si sono viste costrette alla decolonizzazione, mentre i governi statunitensi completavano l'estensione dei diritti civili ai discendenti degli schiavi. I timori di un'apocalisse nucleare legata al conflitto comunismo-capitalismo erano appena stati dimenticati, dopo il crollo sovietico del 1989-1991, e l'apartheid sudafricana era stata appena abolita nel 1991-1994, ed ecco che nel primo decennio del Duemila il mondo entrava in una nuova sindrome, quella del riscaldamento climatico e di una tendenza generale all'involuzione identitaria e xenofoba; il tutto, questo, in un contesto inedito di recrudescenza delle disuguaglianze socioeconomiche all'interno dei paesi, iniziata negli anni ottanta e novanta del Novecento e drogata da un'ideologia neoproprietarista particolarmente estrema. Pretendere che tutti questi fenomeni, osservati dal XVIII fino al XXI secolo, fossero necessari e indispensabili perché il progresso potesse avvenire non avrebbe alcun senso. Altre traiettorie e altri regimi basati sulla disuguaglianza sono stati possibili, e altre traiettorie e altri regimi con minore disuguaglianza sono sempre possibili.

Se c'è una lezione da apprendere dalla storia mondiale degli ultimi tre secoli, questa è che il progresso non è lineare, e che sarebbe sbagliato presumere che tutto andrà sempre per il meglio, che la libera concorrenza tra poteri statali e tra operatori economici sarà sufficiente a portarci, come per miracolo, all'armonia sociale universale. Il progresso esiste, ma è una battaglia, e deve soprattutto basarsi su un'analisi ragionata delle evoluzioni storiche del passato, con tutto quello che comportano di positivo e di negativo.

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Il ritorno delle disuguaglianze: primi dati


La crescita delle disuguaglianze socioeconomiche, osservata nella maggior parte dei paesi e delle regioni del pianeta a partire dagli anni ottanta e novanta del Novecento, rappresenta una delle evoluzioni strutturali più preoccupanti che il mondo si trovi ad affrontare in questo inizio di XXI secolo. Vedremo anche che sarà molto difficile trovare soluzioni alle altre grandi sfide dei nostri tempi, il cambiamento climatico e i movimenti migratori, se non si riesce nello stesso tempo a ridurre le disuguaglianze e a istituire una Giustizia giusta per tutti.

Cominciamo a esaminare come si è evoluto uno degli indicatori più semplici, a vedere cioè come è cambiata la quota parte del reddito totale presa dal decile superiore (cioè il gruppo del 10% dei più ricchi) nei diversi paesi del mondo a partire dal 1980. Se l'uguaglianza sociale fosse assoluta, questa parte dovrebbe essere pari al 10% (cioè il 10% della popolazione totale detiene una quota del 10% del reddito totale); in caso di disuguaglianza assoluta, questa parte dovrebbe essere del 100% (cioè il 10% della popolazione detiene il 100% del reddito totale). In realtà, è evidente che questa parte sarà sempre contenuta tra questi due estremi, con ampie variazioni nel tempo e nello spazio. Nel corso degli ultimi decenni si registra una tendenza all'aumento in quasi tutti i paesi. Se si confrontano i casi di India, Stati Uniti, Russia, Cina ed Europa, si vede anche che la quota parte di reddito nazionale percepita dal decile più alto si collocava nel 1980 intorno al 25-35% del reddito nazionale totale di ognuna di queste regioni, e che nel 2018 si colloca attorno al 35-55% del reddito nazionale totale (vedi grafico 0.3).

Tenendo conto dell'ampiezza degli intorni di variabilità, è giusto chiedersi fin dove arriverà questa evoluzione: la quota parte di reddito percepita dal decile superiore arriverà al 55-75% del reddito totale fra qualche decennio, e via di questo passo? Si noterà inoltre che l'ampiezza degli incrementi della disuguaglianza è molto variabile per le diverse regioni, anche per regioni che sono allo stesso livello di sviluppo. Le disuguaglianze sono aumentate molto più rapidamente negli Stati Uniti che in Europa, e molto di più in India che in Cina. Il dettaglio dei dati indica anche che questo aumento delle disuguaglianze è avvenuto in particolare a spese del 50% più povero, di coloro cioè il cui reddito nel 1980, in quelle cinque regioni, era intorno al 20-25% del totale, mentre nel 2018 non è più del 15-20% (e poco più del 10% negli Stati Uniti, e questo è particolarmente inquietante).

In un quadro temporale più lungo, si vede che nelle cinque grandi regioni del mondo rappresentate nel grafico 0.3 tra il 1950 e il 1980 c'è stato un andamento relativamente equilibrato della disuguaglianza, che dopo quegli anni ha cominciato a crescere (vedi per esempio grafico 0.6). Negli anni 1950-1980 in quelle regioni vi erano regimi politici diversi - regimi comunisti in Cina e in Russia, e democrazie definibili come socialdemocratiche in Europa come anche, per certi versi, negli Stati Uniti e in India, con caratteristiche molto diverse che dovremo studiare in modo preciso - che avevano però come tratto comune quello di promuovere una relativa uguaglianza socioeconomica (che non vuol dire che altre disuguaglianze non abbiano giocato un ruolo essenziale).

Se si osservano altre parti del mondo, si registra l'esistenza di regioni dove la disuguaglianza è molto maggiore (vedi grafico 0.4).

Per esempio, il decile più alto nell'Africa subsahariana ha una quota di reddito che è il 54% del reddito totale (e il 65% se ci si concentra sul Sudafrica), il 56% in Brasile e il 64% in Medio Oriente, che nel 2018 risulta essere la regione con la disuguaglianza più alta del mondo (quasi alla pari con il Sudafrica), dove il 50% della popolazione più povera ha una quota di reddito che è solo il 10% del reddito totale. Le origini delle disuguaglianze nelle diverse regioni sono molto varie: un'eredità storica pesante legata alle discriminazioni razziali e coloniali e in certi casi allo schiavismo (in particolare in Brasile e in Sudafrica, come per il passato negli Stati Uniti), oltre a fattori più "moderni", come, nel caso del Medio Oriente, quelli legati alla superconcentrazione di ricchezza di origine petrolifera, successivamente trasformata in stabile ricchezza finanziaria attraverso i mercati internazionali e grazie a un sofisticato sistema legale. La principale caratteristica comune di questi regimi (Sudafrica, Brasile, Medio Oriente) è che si collocano al margine della disuguaglianza del mondo contemporaneo, dove una parte del decile più alto ha un reddito intorno al 55-65% del reddito totale. D'altronde, anche se i dati storici sono approssimativi, sembrerebbe che queste regioni siano sempre state caratterizzate da alti livelli di disuguaglianza: non hanno mai avuto un periodo di equilibrio socialdemocratico dei redditi (e tanto meno comunista).

In sintesi: dal decennio 1980-1990 si sta verificando una crescita delle disuguaglianze in quasi tutte le regioni del mondo, tranne che in quelle che sono sempre state caratterizzate da una forte disuguaglianza. In qualche modo, le regioni che hanno fatto registrare una relativa condizione di uguaglianza negli anni 1950-1980 sembrano avviate a entrare nella zona mondiale caratterizzata da forte disuguaglianza, ma in modo diverso da paese a paese.

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Il grafico a forma di elefante: discutere serenamente sulla globalizzazione


La crescita delle disuguaglianze all'interno dei paesi dopo il 1980 è un fenomeno oggi ben documentato e riconosciuto. Ma questa constatazione non significa che ci sia un qualunque accordo sulle soluzioni: il problema cruciale non è tanto il livello della disuguaglianza, quanto piuttosto la sua origine e le modalità con le quali viene giustificata. Per esempio, nei regimi russo e cinese il livello di disuguaglianza monetaria nel 1980 veniva tenuto artificialmente troppo basso, e la crescita delle differenze fra i redditi registrata dopo gli anni ottanta-novanta del Novecento non ha avuto connotazione negativa e anzi ha contribuito a promuovere l'innovazione e la crescita a beneficio di tutti, comprese le classi più modeste, in modo particolare in Cina, dove la povertà è fortemente diminuita. Si tratta di un argomento accettabile, ma solo se utilizzato con moderazione e attenzione sistemica, dopo una verifica attenta degli elementi conoscitivi disponibili. Né il fatto che, in quei due paesi, le disuguaglianze monetarie fossero esageratamente basse nel 1980 può giustificare l'accaparramento personale di ricchezze naturali o di vecchie imprese pubbliche degli anni 2000-2020 da parte degli oligarchi russi e cinesi (che non hanno sempre dimostrato grandi capacità individuali di innovazione, a parte forse l'aver saputo immaginare marchingegni legali e fiscali per mettere al sicuro le loro appropriazioni).

Si potrebbe proporre un analogo argomento anche per il caso indiano, europeo e statunitense: il livello di uguaglianza venne considerato eccessivo negli anni 1950-1980, e fu necessario intervenire, nell'interesse dei più poveri. Questo argomento si scontra però con una serie di difficoltà molto più gravi che nel caso russo e cinese, e comunque non può essere usato per giustificare ogni sorta di aumento delle disuguaglianze, senza nemmeno analizzarlo. Per esempio, sia la crescita statunitense sia quella europea furono più marcate durante il periodo di equilibrio dell'uguaglianza (1950-1980), rispetto al periodo successivo, caratterizzato dall'aumento delle disuguaglianze, e questo solleva seri interrogativi sull'utilità sociale di quest'ultimo. L'aumento delle disuguaglianze osservato dopo il 1980, più importante negli Stati Uniti rispetto all'Europa, non ha peraltro generato una crescita supplementare, e in ogni modo non è stato di beneficio per il 50% dei più poveri, che negli Stati Uniti hanno invece subito una stagnazione completa del loro livello di vita assoluto e un crollo del loro livello relativo. Infine, l'aumento delle disuguaglianze post-1980 in India, più marcato rispetto alla Cina, è stato accompagnato da una crescita decisamente più debole, una doppia punizione per il 50% dei più poveri: una crescita totale debole, e una percentuale minore per loro. Per quanto fragili siano queste argomentazioni, basate sull'idea di una compressione eccessiva degli scarti fra i redditi negli anni 1950-1980 e di un aumento utile delle disuguaglianze a partire dal 1980, devono comunque essere considerate seriamente, almeno fino a un certo punto, e in questo libro le analizzeremo in modo approfondito.

Un modo particolarmente chiaro ed espressivo per rappresentare la distribuzione della crescita globale dopo il 1980 e la complessità delle dinamiche in gioco consiste nel correlare la posizione nella gerarchia mondiale dei redditi e l'ampiezza della crescita osservata in quello stesso livello della gerarchia. Si ottiene quello che si può chiamare la "curva o grafico dell'elefante" (vedi grafico 0.5).

Per riassumere: i livelli di reddito compresi tra i percentili 60 e 90 della distribuzione mondiale (cioè quelli che non appartengono né al 60% dei redditi più bassi del pianeta, né al 10% dei redditi più alti), redditi che corrispondono grosso modo alle classi media e popolare dei paesi ricchi, sono stati in linea di massima ignorati dalla crescita mondiale del periodo 1980-2018, che invece ha fortemente premiato gli altri gruppi, collocati al di sopra o al di sotto, cioè le famiglie dei paesi poveri o emergenti (il "dorso" dell'elefante, in particolare i gruppi fra i percentili 20 e 40), ma ancora di più le famiglie più ricche dei paesi ricchi di tutto il pianeta (la parte alta della "proboscide", oltre il percentile 99, cioè l'l% dei redditi più alti del mondo, e soprattutto quelli più alti ancora: lo 0,1% e lo 0,01%, che hanno beneficiato di una crescita nell'ordine di centinaia di punti percentuali). Se la distribuzione mondiale dei redditi fosse stata in condizioni di equilibrio, questa curva sarebbe piatta: tutti i centili dovrebbero progredire in media allo stesso ritmo. Ci sarebbero sempre dei ricchi e dei poveri e ci sarebbero sempre forti mobilità individuali, sia verso l'alto sia verso il basso, ma i livelli dei redditi medi dei diversi centili crescerebbero tutti allo stesso ritmo. La crescita mondiale si comporterebbe allora come "una marea che fa salire tutte le barche", per citare l'espressione anglosassone corrente nel dopoguerra per descrivere una crescita che avvantaggia in modo proporzionale tutte le classi di reddito. Il fatto che ci si sia tanto allontanati da una curva piatta dimostra l'ampiezza delle trasformazioni in atto.

Questa curva è fondamentale, perché permette di comprendere meglio il dialogo difficile che talvolta connota il dibattito pubblico sulla globalizzazione: da una parte ci si meraviglia della riduzione delle disuguaglianze e della povertà mondiale che permettono una formidabile crescita dei paesi meno sviluppati, mentre dall'altra ci si lamenta della massiccia crescita delle disuguaglianze che si accompagna inesorabilmente agli eccessi dell'ipercapitalismo globale. Le due posizioni sono entrambe in parte vere: le disuguaglianze sono diminuite tra la parte bassa e la parte media della distribuzione mondiale dei redditi, e sono aumentate tra la parte media e la parte alta del modello distributivo. Questi due aspetti della globalizzazione sono tutti e due fenomeni reali; non si tratta, quindi, di negare l'uno o l'altro, ma piuttosto di sapere come fare per mantenere i vantaggi della globalizzazione, eliminandone però le implicazioni negative. Il linguaggio, le categorie e il dispositivo cognitivo utilizzati sono importanti: se si rappresentassero le disuguaglianze con un unico indicatore, come il coefficiente di Gini, si potrebbe avere l'illusione che non cambi nulla, proprio perché non ci saremmo dati gli strumenti per mettere in evidenza che questi processi sono complessi e multidimensionali e che all'interno di un indicatore "sintetico" in realtà si confondono e si compensano effetti molteplici e distinti. È invece necessario rappresentare le disuguaglianze e la loro evoluzione separando nettamente i diversi decili e centili dei redditi e dei patrimoni interessati, per distinguere bene i gruppi sociali in gioco.

Si potrebbe accusare il grafico dell'elefante di dare troppa importanza visiva all'l% e allo 0,1% della popolazione mondiale, i ricchi nella parte più alta del modello distributivo. Anziché provocare stupidamente l'invidia e il rancore nei confronti di gruppi così minuscoli, non si dovrebbe invece apprezzare la crescita registrata nella parte bassa del modello distributivo? In realtà, gli studi più recenti non solo hanno confermato la correttezza di questo approccio, ma hanno anche dimostrato che il grafico dell'elefante presenta una curva ancora più marcata, nella sua parte alta, di quanto non si fosse stimato inizialmente. Si vede quindi che nel periodo 1980-2018 la quota parte della crescita mondiale totale presa dall'l% dei più ricchi del mondo è stata del 27%, a fronte del 12% per il 50% dei più poveri (vedi grafico 0.5). In altre parole, è vero che la parte alta della proboscide rappresenta una piccola parte della popolazione, ma questa si è appropriata di una fetta enorme della crescita, più del doppio rispetto alla parte che è andata ai 3,5 miliardi di persone che costituiscono la metà più povera del mondo. Questo vuol dire, per esempio, che un modello di crescita leggermente meno favorevole al vertice della piramide avrebbe permesso (e potrebbe permettere in futuro) una riduzione molto più rapida della povertà nel mondo.

Questi dati possono orientare il dibattito, ma non lo possono chiudere. Di nuovo, tutto dipende dall'origine delle disuguaglianze e da come vengono giustificate. Il nodo del problema è sapere fino a che punto è ammissibile giustificare la crescita dei redditi al vertice del modello distributivo con i benefici che i più ricchi conferiscono al resto della società. Se veramente si ritiene che l'aumento delle disuguaglianze permetta, ancora e sempre, di migliorare i redditi e la qualità della vita del 50% dei più poveri, si può giustificare che l'1% dei più ricchi si accaparri il 27% della crescita mondiale e magari anche di più, per esempio il 40, il 60 o anche l'80%. Ma l'analisi delle diverse traiettorie, in particolare i già citati confronti tra Stati Uniti ed Europa e tra India e Cina, non conferma affatto questa interpretazione, perché i paesi dove il vertice del modello distributivo si arricchisce di più non sono quelli dove i più poveri stanno meglio. Queste analisi comparative suggeriscono invece che la quota parte di crescita mondiale presa dall'1% dei più ricchi avrebbe potuto essere abbassata (e potrebbe essere abbassata in futuro) del 10-20% o anche di più, per consentire un significativo aumento della quota parte presa dal 50% dei più poveri. Ma questi problemi sono tanto importanti da meritare un'analisi dettagliata. In sostanza, sembra davvero difficile, alla luce di questi dati, pretendere che ci sia un unico modo di organizzare la globalizzazione, e che la quota parte presa dall'1% debba essere necessariamente e precisamente il 27% della crescita (contro il 12% per i più poveri), né più né meno. La globalizzazione comporta pesanti deformazioni della distribuzione, che non possono essere ignorate sostenendo che la sola cosa che conta è la crescita totale. Un serio dibattito sulle alternative e sulle scelte istituzionali e politiche che potrebbero cambiare la distribuzione della crescita mondiale, in un modo o nell'altro, si impone.

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La giustificazione della massima disuguaglianza


I più grandi patrimoni mondiali, dopo gli anni ottanta del XX secolo, hanno fatto registrare aumenti ancora più significativi di quelli rappresentati nel grafico 0.5. In tutte le regioni del mondo si registra una crescita rapida e forte dei maggiori patrimoni, che si tratti di oligarchi russi o magnati messicani, miliardari cinesi o finanzieri indonesiani, proprietari di immobili sauditi o miliardari statunitensi, industriali indiani o titolari di portafogli d'investimento europei. Si osservano incrementi che procedono a ritmi molto superiori al tasso di crescita dell'economia mondiale, in particolare tre o quattro volte più rapidi della crescita mondiale nel periodo 1980-2018. Per definizione, un fenomeno di questo genere non può continuare all'infinito, a meno che non si accetti l'idea che la quota parte del totale dei patrimoni mondiali presa dai miliardari, a poco a poco, tenda al 100% - una prospettiva difficilmente difendibile. Eppure la divergenza fra la crescita dei grandi patrimoni e la crescita media mondiale è proseguita anche durante il decennio seguito alla crisi finanziaria del 2008, quasi con la stessa dinamica osservata nel periodo 1990-2008: ci troviamo cioè di fronte a un'evoluzione strutturale di grande portata della quale forse non abbiamo ancora visto la fine.

Rispetto a fenomeni così spettacolari, le giustificazioni dell'enorme disuguaglianza patrimoniale sono le più varie e qualche volta sono anche incredibili. Nei paesi occidentali viene fatta spesso una netta distinzione. Da una parte gli "oligarchi" russi, i petromiliardari del Medio Oriente e gli altri miliardari cinesi, messicani, guineani, indiani o indonesiani: di costoro si pensa che non abbiano veramente "meritato" il loro patrimonio, perché l'hanno ottenuto tramite relazioni con il potere dello Stato (per esempio mediante l'appropriazione indebita di risorse naturali o di licenze varie), e che quindi i loro patrimoni non saranno utili per la crescita. Dall'altra parte, degli "imprenditori" europei e statunitensi, di preferenza californiani, è giusto pensare che dovrebbero essere ancora più ricchi, se il pianeta li sapesse compensare come meritano, e se ne cantano le lodi e vengono ricordati i loro infiniti contributi al benessere mondiale. Forse dovremmo anche considerare il nostro eccezionale debito morale nei loro confronti come un pesante debito finanziario, e magari cedergli anche il nostro diritto di voto, cosa che peraltro non è lontana dall'essere già attuale in molti paesi. Questo genere di giustificazioni delle disuguaglianze, al tempo stesso ipermeritocratico e occidentalocentrico, è molto significativo dell'incontenibile bisogno delle società umane di dare un senso alle loro disuguaglianze anche al di là del ragionevole. In effetti questa quasi-beatificazione della ricchezza non è priva di contraddizioni, per alcuni addirittura abissali. Siamo sicuri che Bill Gates e gli altri tecnomiliardari avrebbero potuto sviluppare le loro imprese senza le centinaia di miliardi di denaro pubblico investito nella formazione e nella ricerca di base per decine di anni? E pensiamo veramente che il loro potere di quasi-monopolisti commerciali e la possibilità di brevettare privatamente il sapere pubblico avrebbe potuto affermarsi senza il supporto attivo del sistema legale e fiscale vigente?

Per questi motivi, la giustificazione di queste estreme disuguaglianze prende spesso la forma di un discorso molto più modesto che insiste più che altro sul bisogno di stabilità patrimoniale e di protezione del diritto di proprietà. La disuguaglianza dei patrimoni forse non è del tutto giusta, né sempre utile, specie nelle proporzioni registrate, come in California, ma aprire la discussione rischia di scatenare una battaglia infinita della quale i più poveri e la società nel suo insieme finirebbero per pagare il prezzo. Questo argomento proprietarista dei diritti di proprietà acquisiti nel passato, basato sul bisogno di stabilità sociopolitica e di sicurezza assoluta (talvolta quasi religiosa), ha già giocato un ruolo centrale nella giustificazione delle disuguaglianze che hanno caratterizzato le società dei proprietari prosperate in Europa e negli Stati Uniti nel XIX secolo e all'inizio del XX. Un argomento eterno, quello della stabilità, che troveremo di nuovo nella giustificazione delle società trifunzionali e schiaviste. Oggi bisognerebbe anche aggiungerci un discorso sull'ipotetica scarsa efficacia dello Stato e sulla presunta maggiore efficienza della filantropia privata, argomento che ha già avuto un ruolo in periodi precedenti, ma che oggi ha ripreso vigore. Sono discorsi legittimi e vanno accettati, con riserva, ma cercherò di dimostrare che si possono superare se ci basiamo sulle lezioni della storia.

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Imparare dalla storia, imparare dal XX secolo


In generale vedremo che, per analizzare quanto avvenuto alla fine del XX secolo e quello che sta avvenendo all'inizio del XXI, ma soprattutto per trarne una lezione per il futuro, è necessario ricollocare la storia delle ideologie e dei regimi della disuguaglianza in una prospettiva storica e comparativa di lungo termine. L'attuale regime della disuguaglianza, che possiamo qualificare come neoproprietarista, contiene le tracce di tutti i regimi precedenti. Può essere studiato correttamente solo se si imposta lo studio a partire dalle antiche società trifunzionali (basate sulla struttura ternaria clero/nobiltà/terzo Stato) e dalla loro trasformazione nelle società dei proprietari del XVIII e del XIX secolo, per vedere come sono poi crollate nel corso del XX secolo, per effetto della sfida combinata comunista e socialdemocratica, delle guerre mondiali e da quelle d'indipendenza, che misero fine a molti secoli di dominio coloniale. Tutte le società umane devono giustificare le loro disuguaglianze e le giustificazioni del passato, se si studiano da vicino, non sempre sono più folli di quelle odierne. Esaminandole tutte, nel loro svolgimento storico concreto, e mettendo in evidenza la molteplicità delle traiettorie e delle biforcazioni, si può inquadrare l'attuale regime basato sulla disuguaglianza e prevedere le condizioni per la sua trasformazione.

Daremo particolare importanza alla caduta delle società proprietariste e coloniali nel XX secolo, caduta che è stata accompagnata da una trasformazione radicale della struttura delle disuguaglianze e delle loro giustificazioni, dalla quale deriva direttamente il mondo dí oggi. I paesi dell'Europa occidentale, Francia, Germania e Regno Unito, che alla vigilia della prima guerra mondiale avevano livelli di disuguaglianza più elevati rispetto a quelli degli Stati Uniti, nel corso del XX secolo hanno ridotto i livelli della disuguaglianza, innanzitutto perché la contrazione delle disuguaglianze seguita agli anni 1914-1945 è stata più massiccia, e poi perché l'aumento delle disuguaglianze dopo gli anni ottanta è stato qui meno marcato che negli Stati Uniti (vedi grafico 0.6).

Vedremo che la notevole contrazione delle disuguaglianze avvenuta tra il 1914 e il decennio 1950-1960 si spiega, in Europa come negli Stati Uniti, come conseguenza di una serie di cambiamenti del sistema legale, sociale e fiscale, cambiamenti fortemente accelerati dalle guerre 1914-1918 e 1939-1945, dalla Rivoluzione bolscevica del 1917 e dalla crisi del 1929, ma che erano in gestazione intellettuale e politica fin dalla fine del XIX secolo, per cui è possibile pensare che sarebbero comunque avvenute, in modo diverso, in occasione di altre crisi. È la combinazione di tendenze intellettuali e di logiche fattuali che produce il cambiamento storico: le une non possono nulla senza le altre. Si tratta di una lezione che ritroveremo spesso, per esempio quando analizzeremo gli avvenimenti della Rivoluzione francese o le trasformazioni strutturali delle disuguaglianze seguite all'epoca coloniale in India.

Fra i cambiamenti legali, fiscali e sociali adottati nel corso del XX secolo per ridurre le disuguaglianze troviamo in particolare lo sviluppo su larga scala di un sistema d'imposte progressivo sui redditi e sui patrimoni ereditati, cioè di un sistema d'imposizione fiscale che incide con tassi molto più elevati sui redditi alti e sui grandi patrimoni che non sui redditi e sui patrimoni minori. L'invenzione della forte progressività fiscale moderna avvenne negli Stati Uniti dove, all'epoca della Gilded Age (1865-1900) e delle grandi accumulazioni industriali e finanziarie d'inizio XX secolo, ci si era molto preoccupati all'idea di diventare in futuro il luogo della disuguaglianza come la vecchia Europa, allora considerata oligarchica e contraria allo spirito democratico statunitense. L'invenzione si deve anche al Regno Unito, che pure fra il 1914 e il 1945 non aveva subito le stesse distruzioni patrimoniali della Francia e della Germania. L'iniziativa della tassazione progressiva nel Regno Unito venne assunta in un quadro politico più sereno, per uscire dal passato di disuguaglianza aristocratica e proprietarista.

Per quanto concerne l'imposta sui redditi, il tasso applicato ai redditi più alti tra il 1932 e il 1980, dunque per quasi mezzo secolo, negli Stati Uniti è stato in media dell'81% e nel Regno Unito dell'89%, a fronte di "solo" il 58% in Germania e il 60% in Francia (vedi grafico 0.7).

Va precisato che questi tassi non comprendevano altre imposte (per esempio sui consumi), e che nel caso degli Stati Uniti non comprendevano le imposte sui redditi degli Stati federati (in pratica dell'ordine del 5 o 10%, in aggiunta ai tassi del fisco federale). E questi tassi superiori all'80% applicati per mezzo secolo non sembrano affatto aver condotto alla distruzione del capitalismo statunitense, anzi.

Vedremo che una simile imposizione fiscale pesantemente progressiva ha contribuito in modo significativo a ridurre le disuguaglianze nel XX secolo, e analizzeremo in modo dettagliato come sia stata riveduta negli anni ottanta del XX secolo, in particolare negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Vedremo anche quali lezioni si possono trarre dalle diverse esperienze storiche e dalle differenti traiettorie nazionali. Per i repubblicani statunitensi guidati da Ronald Reagan, come per i conservatori britannici rappresentati da Margaret Thatcher, entrambi giunti al potere a seguito delle elezioni del 1979-1980, la spettacolare riduzione della progressività fiscale fu la misura emblematica di quella che allora venne chiamata la "rivoluzione conservatrice». Lo spartiacque politico-ideologico degli anni ottanta del secolo scorso ha avuto significative conseguenze sulla successiva evoluzione della tassazione progressiva e delle disuguaglianze, non solo in quei due paesi, ma anche a livello mondiale, tanto più che questo spartiacque non è mai stato davvero rimesso in discussione dai governi e dai movimenti politici che si sono poi succeduti in quei due paesi. Negli Stati Uniti, dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso il tasso superiore delle imposte federali sui redditi ha fluttuato intorno ai valori del 30-40%; nel Regno Unito, il tasso superiore ha oscillato intorno al 40-45%, con una leggera tendenza al rialzo dopo la crisi del 2008. Nei due casi, i livelli osservati per il periodo 1980-2018 si assestano circa due volte più in basso rispetto a quelli applicati negli anni 1932-1980, cioè intorno al 40% e non più all'80% (vedi grafico 0.7).

Agli occhi dei promotori e dei difensori di questa grande svolta, la spettacolare riduzione della progressività fiscale si giustificava con l'idea che nei due paesi i tassi superiori di esazione nel periodo dal 1950 al 1980 avevano raggiunto un peso eccessivo. Secondo alcuni avevano anche indebolito gli imprenditori anglosassoni, e sostenuto la concorrenza da parte dei paesi dell'Europa continentale e da parte del Giappone (tema molto presente nelle campagne elettorali statunitensi e britanniche degli anni settanta e ottanta del Novecento). Alla luce dell'attuale recessione, più di tre decenni dopo, mi sembra che questa tesi non regga alla prova dei fatti, e che tutto il problema abbia bisogno di essere riesaminato. La ripresa economica (dell'Europa continentale e del Giappone) degli anni 1950-1980 si può spiegare meglio con diversi altri fattori, prima di tutto con il fatto che la Germania, la Francia, la Svezia e il Giappone nel 1950 erano molto in ritardo rispetto ai paesi anglosassoni (e più ancora rispetto agli Stati Uniti), per cui era quasi inevitabile un'accelerazione della loro crescita nei decenni successivi. La forte crescita di questi paesi può anche essere stata favorita da una serie di fattori istituzionali, in particolare dalle politiche sociali e dell'istruzione relativamente ambiziose ed egualitarie attuate dopo la seconda guerra mondiale, misure che hanno permesso un recupero di istruzione particolarmente rapido rispetto agli Stati Uniti e un superamento netto del Regno Unito che, dopo il XIX secolo, aveva accumulato, nella formazione, un ritardo storico sempre più grave, ritardo che il paese non ha mai davvero affrontato quanto avrebbe potuto. Va poi sottolineato il fatto che l'aumento della produttività negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel periodo 1950-1990 è stato in effetti molto più forte di quanto non si sia mai verificato negli anni 1990-2020, e questo getta seri dubbi sull'abbassamento dei tassi di imposizione fiscale degli alti redditi come fattore di promozione dell'economia.

È vero, invece, che la riduzione della progressività nell'imposizione fiscale decisa negli anni ottanta del XX secolo ha contribuito a un aumento senza precedenti delle disuguaglianze negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel periodo 1980-2018, nonché a un crollo della quota di entrate nazionali presa dai bassi redditi, e forse anche all'aumento di un senso di abbandono tra le classi medie e popolari e all'involuzione identitaria e xenofoba manifestatasi poi con violenza nei due paesi negli anni 2016-2017, con il referendum per l'uscita dall'Unione Europea (Brexit) e con l'elezione di Donald Trump. Comunque, queste esperienze possono essere utilizzate per ripensare a forme più ambiziose di progressività fiscale per il XXI secolo, per i redditi come per i patrimoni, e per i paesi ricchi come per i paesi poveri, che sono stati le prime vittime della concorrenza fiscale e della mancanza di trasparenza finanziaria. La libera circolazione dei capitali, senza controllo e senza scambio d'informazioni tra le amministrazioni fiscali, è stata una delle principali strutture di consolidamento e di diffusione internazionale della rivoluzione fiscale conservatrice degli anni ottanta e novanta del Novecento. Ha avuto un impatto pesantemente negativo sul processo di formazione degli Stati e di una fiscalità legittima in tutto il pianeta. In verità, è soprattutto l'incapacità delle coalizioni socialdemocratiche del dopoguerra di far fronte a questa sfida che dovremo chiamare in causa, e in particolare la loro incapacità d'impostare la problematica della progressività fiscale alla scala transnazionale e alla nozione di proprietà privata temporanea (che avrebbe comportato di fatto un'imposta sufficientemente progressiva sui più importanti detentori di patrimoni, i quali ogni anno avrebbero dovuto restituire alla comunità una quota significativa delle loro proprietà). Questo blocco programmatico, intellettuale e ideologico è una delle ragioni di fondo che spiegano l'indebolimento del movimento storico per l'uguaglianza e il conseguente aumento delle disuguaglianze.

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La glaciazione ideologica e le nuove disuguaglianze nell'istruzione


Per meglio comprendere la dinamica complessiva delle trasformazioni in atto, sarà anche necessario analizzare le trasformazioni politico-ideologiche relative ad altre istituzioni politiche e sociali che promuovono la riduzione delle disuguaglianze. In particolare, il problema della condivisione del potere economico e il coinvolgimento dei salariati nei processi decisionali e nelle strategie di impresa, un problema per il quale molti paesi (come Germania e Svezia) hanno proposto fin dagli anni cinquanta del Novecento soluzioni innovative che non sono state fino a oggi veramente diffuse e approfondite. I motivi sono senza dubbio da ricercare nella diversità delle traiettorie politico-ideologiche specifiche di ogni paese. I laburisti inglesi e i socialisti francesi, per esempio, hanno privilegiato fino agli anni ottanta del XX secolo un programma impostato sulle nazionalizzazioni, per poi abbandonare di colpo questa prospettiva dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine del comunismo. Ma la cosa si spiega anche con la mancanza, un po' ovunque, di una riflessione sufficientemente approfondita sul superamento del concetto di proprietà puramente privata.

Infatti, la guerra fredda non ha solo prodotto gli effetti che conosciamo sul sistema di relazioni internazionali. Per molti aspetti ha anche contribuito al congelamento della riflessione sul superamento del capitalismo, tendenza che l'euforia anticomunista seguita alla caduta del Muro ha consolidato, quasi fino alla "grande recessione" del 2008. Il pensiero su come migliorare l'integrazione sociale delle forze economiche è stato ripreso solo da poco tempo.

Lo stesso vale per il problema nodale dell'investimento nell'istruzione e dell'accesso alla formazione. L'aspetto più sconvolgente dell'aumento delle disuguaglianze negli Stati Uniti è stato il crollo della quota parte del reddito totale nazionale presa dal 50% dei più poveri, che è passata dal 20% circa nel 1980 a poco più del 12% nel 2018. Un crollo così massiccio, partendo da una quota già bassa, si spiega solo con una molteplicità di fattori, primo fra tutti l'involuzione delle regole sociali e salariali (come la riduzione del salario reale minimo federale a partire dal 1980) e le pesanti disuguaglianze nell'accesso all'istruzione. Su questo aspetto è sconvolgente constatare fino a che punto le opportunità di accesso all'università negli Stati Uniti siano determinate dal reddito dei genitori. Associando le informazioni sugli studenti con le dichiarazioni dei redditi dei genitori, una ricerca ha dimostrato che la probabilità di accesso all'istruzione superiore (compresi i diplomi brevi di due anni), negli anni dieci del XXI secolo, era di poco più del 20% per il 10% dei giovani adulti con genitori appartenenti alla fascia di reddito più bassa e passava, con andamento quasi lineare, a oltre il 90% per i giovani adulti con genitori appartenenti alla fascia di reddito più alta (vedi grafico 0.8).

È necessario inoltre precisare che, una volta entrati all'università, gli uni e gli altri non hanno diritto a un'istruzione superiore di uguale livello. La concentrazione degli investimenti formativi e dei finanziamenti sugli indirizzi di studio elitari è molto forte negli Stati Uniti, e si accompagna a una grande opacità sulle procedure di ammissione e a una quasi totale assenza di normativa pubblica.

Sono dati sconvolgenti, perché documentano la grande distanza esistente fra le dichiarazioni meritocratiche ufficiali (che insistono con molta prosopopea sull'importanza delle uguali opportunità, vere solo a livello teorico e retorico) e la realtà che devono affrontare le classi più svantaggiate per quanto riguarda l'accesso all'istruzione. Le disuguaglianze di accesso e di finanziamento dell'istruzione sono meno acute in Europa e in Giappone, cosa che può in parte spiegare il forte divario fra alti e bassi redditi che si osserva negli Stati Uniti. Peraltro, il problema della disuguaglianza degli investimenti per l'istruzione e della mancanza di trasparenza democratica sulla questione esiste in tutti i paesi e fa parte delle lacune più importanti delle socialdemocrazie, insieme ai problemi relativi alla ridefinizione della proprietà.

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Il ritorno delle élite multiple e le difficoltà di una coalizione egualitaria


Cercheremo di comprendere meglio in quali condizioni generali si sono formate le coalizioni politiche egualitarie nel XX secolo che avevano lo scopo di ridurre le disuguaglianze ereditate dal passato, perché hanno finito per esaurirsi e a quali nuove condizioni potrebbero riemergere all'inizio del XXI secolo.

Le coalizioni a vocazione socialdemocratica orientate alla redistribuzione (nel senso più ampio del termine) che sono arrivate al potere alla metà del XX secolo avevano una dimensione che non era solo elettorale, istituzionale e partitica, ma in primo luogo intellettuale e ideologica. In altre parole, è stato proprio sul terreno delle idee che è stato condotto e vinto il confronto. Quelle coalizioni si sono anche costituite in partiti e hanno partecipato a specifiche elezioni: partiti esplicitamente e autenticamente socialdemocratici come la SAP in Svezia o la SPD in Germania - che hanno avuto importanti responsabilità negli anni venti e trenta del Novecento - oppure come il partito laburista nel Regno Unito (che ottenne la maggioranza assoluta dei seggi nelle storiche elezioni del 1945), o come il partito democratico negli Stati Uniti (al potere dal 1932 al 1952 sotto Roosevelt e Truman), o ancora sotto forma di varie alleanze social-comuniste in Francia (al potere nel 1936 e nel 1945) e in molti altri paesi. Ma indipendentemente dalle forme organizzative specifiche, l'effettiva presa del potere fu di matrice ideologica e intellettuale. Erano coalizioni con idee e programmi finalizzati alla riduzione delle disuguaglianze e a una profonda trasformazione del sistema legale, fiscale e sociale, che s'imposero all'insieme delle forze politiche nel periodo 1930-1980, compresi i partiti situati più a destra sullo scacchiere politico del tempo. Questa trasformazione poggiava sulle strategie di mobilitazione attuate dai partiti socialdemocratici (nel senso più ampio del termite), ma più in generale sul coinvolgimento di larga parte del corpo sociale (sindacati, militanti, media, intellettuali) e su un'evoluzione complessiva dell'ideologia dominante, che per tutto il XIX secolo si era fondata sul dogma, quasi religioso, del mercato, della disuguaglianza e della proprietà.

Il fattore principale che portò alla formazione di queste coalizioni di idee e di questa nuova visione del ruolo dello Stato fu la delegittimazione del sistema della proprietà privata e della libera concorrenza, avvenuta dapprima in modo graduale nel XIX secolo e all'inizio del XX, a causa delle enormi concentrazioni di ricchezza generate dalla crescita industriale e del conseguente senso di ingiustizia, e più rapidamente negli anni successivi, a seguito delle guerre mondiali e della crisi degli anni trenta del Novecento. Anche l'esistenza di un contromodello comunista nell'Unione Sovietica ebbe un ruolo essenziale, da una parte nell'imporre un'agenda redistributiva ambiziosa ai diversi attori sociali e ai partiti conservatori che spesso resistevano; e dall'altra nell'accelerare il processo di decolonizzazione degli imperi coloniali europei e quello di ampliamento dei diritti civili negli Stati Uniti.

Se si osserva l'evoluzione della struttura degli elettorati socialdemocratici dopo il 1945, stupisce constatare quanto si siano trasformati sia in Europa sia negli Stati Uniti, in condizioni relativamente simili, un dato per nulla scontato a priori, in considerazione delle origini storiche molto diverse dei sistemi dei partiti sulle due rive dell'Atlantico. Negli anni 1950-1970, il partito democratico negli Stati Uniti era molto forte fra gli elettori meno scolarizzati, a basso reddito e con modesti patrimoni (mentre il voto repubblicano era al contrario forte fra i laureati/diplomati e i detentori di redditi e patrimoni consistenti). La stessa struttura si riscontrava in Francia in proporzioni quasi identiche: i partiti socialisti, comunisti e radicali negli anni 1950-1970 prendevano più voti tra i meno scolarizzati, i percettori di bassi redditi e i detentori di modesti patrimoni (il contrario per i partiti del centrodestra e della destra delle diverse tendenze). Questa struttura dell'elettorato ha cominciato a trasformarsi alla fine degli anni sessanta e negli anni settanta del XX secolo, e a partire dagli anni 1980-2000 si osserva una struttura molto diversa da quella degli anni 1950-1970, di nuovo in modo quasi identico negli Stati Uniti e in Francia: il voto per i democratici, come quello per i social-comunisti, è aumentato fra gli elettori più istruiti, pur rimanendo relativamente debole fra gli elettori a reddito più alto. Ma è un assetto di breve durata: alle elezioni presidenziali americane del 2016, per la prima volta non solo gli elettori più istruiti, ma anche quelli a reddito più alto hanno dato la preferenza al partito democratico anziché a quello repubblicano, con un completo capovolgimento della struttura sociale dell'elettorato rispetto agli anni 1950-1970 (vedi grafico 0.9).

Le elezioni negli Stati Uniti e in Francia nel 2016-2017 mostrano fino a che punto si sia trasformata la struttura destra-sinistra dell'elettorato del dopoguerra, struttura sulla quale si era basata la riduzione delle disuguaglianze alla metà del XX secolo. La trasformazione strutturale dell'elettorato è un fenomeno che viene da lontano e che può essere correttamente valutato solo nel quadro di una nuova, più ampia prospettiva.

Nella storia della struttura degli elettorati si trovano trasformazioni simili per quanto riguarda il voto laburista nel Regno Unito e il voto dei partiti socialdemocratici di varia tendenza in altri paesi d'Europa. Il voto socialdemocratico (in senso lato), che negli anni 1950-1980 corrispondeva al voto dei lavoratori, a partire dagli anni 1990-2010 è diventato il voto della popolazione istruita. Vedremo però che i detentori dei patrimoni più alti hanno continuato a non fidarsi dei partiti socialdemocratici, laburisti e socialisti, come anche del partito democratico negli Stati Uniti (benché sempre meno nettamente, in entrambi i casi). L'aspetto importante è che queste diverse dimensioni delle disuguaglianze sociali (titolo di studio, reddito, proprietà) sono sempre state correlate fra di loro, ma solo in modo parziale: negli anni 1950-1980 come negli anni 2000-2020, si possono trovare molti soggetti la cui posizione nella gerarchia dei titoli di studio è più alta che nella gerarchia della proprietà, e vale anche il contrario. Il cambiamento importante che è avvenuto è relativo alla capacità, da parte delle organizzazioni e coalizioni politiche interessate, di associare o al contrario di mettere in opposizione le diverse dimensioni della disuguaglianza sociale.

Negli anni 1950-1980, queste differenti dimensioni erano politicamente allineate: i soggetti che occupavano posizioni meno elevate nella gerarchia sociale in linea di massima votavano per lo stesso partito o coalizione, qualunque fosse la dimensione considerata (titolo di studio, reddito, patrimonio), e il fatto di essere in posizione di svantaggio in più dimensioni produceva effetti cumulativi sul voto. La struttura del conflitto politico era "classista", nel senso che opponeva le classi sociali più modeste alle classi sociali più elevate, indipendentemente dalle dimensioni assunte per definire l'identità di classe (identità che in pratica è sempre molto complessa e multidimensionale, caratteristica che rende complicata anche la formazione di coalizioni maggioritarie).

Invece, a partire dagli anni 1980-2000, le diverse dimensioni della disuguaglianza sociale non sono state più allineate. La struttura del conflitto politico corrisponde a quello che si può descrivere come un sistema di "élite multiple": un certo partito o una certa coalizione attira i voti dei più istruiti (l'élite intellettuale o culturale), mentre un'altra coalizione o un altro partito prende i voti degli alti patrimoni e, in una certa misura, anche degli alti redditi (élite mercantile e finanziaria). Fra le molte difficoltà derivanti da questa situazione vi è, in particolare, il fatto che tutti coloro che non hanno un diploma, né un patrimonio o un reddito elevati, rischiano di sentirsi ignorati da una simile struttura del conflitto politico. Questo fatto può spiegare perché la partecipazione elettorale sia crollata, nel corso degli ultimi decenni, tra i soggetti non diplomati dei gruppi sociali a basso reddito e basso patrimonio, mentre negli anni 1950-1970 la loro partecipazione elettorale era pari a quella dei gruppi sociali più benestanti. Se si vuole capire l'affermarsi del "populismo" (termine onnicomprensivo spesso usato dalle élite per squalificare i movimenti politici che sentono di non riuscire a controllare), potrebbe essere utile cominciare da un'analisi dell'affermarsi dell'"elitismo" all'interno delle strutture dei partiti. Si può anche notare che questo sistema di élite multiple non è molto lontano dal vecchio regime trifunzionale, che si basava su un certo equilibrio tra le élite del clero e dei nobili guerrieri, anche se le forme di legittimazione sono evidentemente molto cambiate.

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Ripensare la proprietà giusta, l'istruzione giusta, i confini territoriali giusti


Cercheremo di comprendere a fondo le origini e le implicazioni di questa trasformazione della struttura delle divisioni politiche ed elettorali dopo gli anni 1950-1970. Si tratta di un'evoluzione complessa, che si può analizzare sia come causa sia come conseguenza dell'aumento delle disuguaglianze, che per essere compresa in modo più soddisfacente richiederebbe ricerche ulteriori e materiale documentale più ampio di quello che sono riuscito a raccogliere in questo libro. Intanto, si può vedere questa evoluzione come la conseguenza della "rivoluzione conservatrice" degli anni ottanta del Novecento e del movimento di deregolamentazione sociale e finanziaria che ne seguì, al quale i socialdemocratici hanno molto contribuito, se non altro per aver trascurato di elaborare un modello alternativo di organizzazione dell'economia mondiale e di superamento dello Stato-nazione.

Fu così che i vecchi partiti e le vecchie coalizioni del campo socialdemocratico abbandonarono a poco a poco qualunque progetto ambizioso di redistribuzione economica e di riduzione delle disuguaglianze, anche per effetto della crescente competizione fiscale fra paesi e della libera circolazione di beni e capitali (che loro stessi avevano partecipato a istituire, senza pretendere una contropartita in termini di nuove regole fiscali e sociali comuni), tanto che alla fine persero il supporto degli elettori meno privilegiati e concentrarono sempre più la propria attenzione su quelli più istruiti, che erano anche i più avvantaggiati dalla globalizzazione in corso.

Si può invece ritenere che sia stato l'aumento delle divisioni razziali ed etno-religiose a provocare l'inizio di profonde scissioni all'interno delle classi popolari, e a condurre al progressivo dissolversi della coalizione egualitaria degli anni 1950-1980, con il graduale spostamento di parte delle classi popolari bianche o autoctone verso il voto xenofobo e nativista. Una fase iniziata prima negli Stati Uniti degli anni sessanta del secolo scorso, come reazione al movimento per i diritti civili, e poi in Europa negli anni ottanta e novanta, quando si sono acuiti i conflitti relativi ai problemi post-coloniali e dell'immigrazione. Stando alla prima spiegazione, i socialdemocratici avrebbero abbandonato le classi popolari; stando alla seconda, sarebbe avvenuto il contrario.

Le due teorie sono entrambe in parte vere, ma l'analisi delle diverse traiettorie e cronologie suggerisce la loro possibile integrazione in un unico fattore: l'incapacità della coalizione egualitaria socialdemocratica del dopoguerra di rinnovare e approfondire íl suo programma e la sua ideologia. Invece di addossare la colpa alla globalizzazione liberale (che non è caduta dal cielo), o al presunto razzismo popolare (che non ha nulla di più spontaneo di quello delle élite), è più costruttivo spiegare queste evoluzioni con l'ideologia della coalizione egualitaria, o meglio, nel caso specifico, con la sua debolezza ideologica.

Debolezza dovuta soprattutto all'incapacità di pensare e organizzare la redistribuzione economica e la progressività fiscale alla scala transnazionale, un problema che era stato in sostanza rimosso dai socialdemocratici al tempo del trionfo dello Stato-nazione redistributivo del dopoguerra, e del quale non si sono mai veramente occupati fino a oggi, in particolare nell'ambito dell'Unione Europea, e più generalmente a livello mondiale. Questo vale anche per la difficoltà d'integrare nella riflessione sulla disuguaglianza sociale il problema delle differenze di origine, problema che a dire il vero non si era mai posto prima degli anni sessanta-settanta del Novecento, in quanto raramente si incrociavano nelle stesse società persone di diversa origine continentale, razziale o etno-religiosa, se non tramite l'intermediazione statale e dei governi coloniali. In ultima analisi, queste due debolezze risalgono a uno stesso problema: quello dei confini della comunità alla quale ci si riferisce per organizzare la vita collettiva e in particolare per ridurre le disuguaglianze e istituire uno standard di uguaglianza accettabile per la maggioranza della popolazione. La tendenza generale a una sempre più stretta interconnessione tra le diverse parti del mondo, conseguente ai progressi nelle tecnologie della comunicazione e dei trasporti, impone di rivedere continuamente il quadro d'azione, e d'impostare il problema della giustizia sociale in un'ottica esplicitamente transnazionale e mondiale.

Vedremo anche come il programma socialdemocratico non abbia mai veramente riflettuto sulle condizioni di una proprietà giusta, dopo lo scacco comunista. I compromessi socialdemocratici del dopoguerra sono stati costruiti frettolosamente e il problema della tassazione progressiva non è mai stato analizzato e sperimentato in modo globale e coerente come avrebbe potuto, così come quello della proprietà temporanea e della diffusione della proprietà (per esempio tramite una dotazione universale di capitale, finanziata da una tassa progressiva sulla proprietà e sulle successioni), quello della condivisione del potere e della proprietà sociale nelle imprese (cogestione, autogestione) e quello della democrazia contabile e della proprietà pubblica. Il fatto che l'istruzione superiore non sia più stata riservata a una ristretta élite, ottima cosa in sé, ha anche cambiato le condizioni necessarie a realizzare un'istruzione veramente giusta. Per l'istruzione primaria e secondaria, era disponibile un programma egualitario relativamente semplice, in materia di istruzione: bastava investire le risorse necessarie per portare una generazione completa alla fine del ciclo primario, e poi di quello secondario. Per l'istruzione superiore, è più complesso definire un obiettivo egualitario. Si sono sviluppate con vigore ideologie presumibilmente basate sull'uguaglianza delle opportunità, ma in realtà preoccupate soprattutto di glorificare i meriti dei privilegiati nel sistema dell'istruzione, che hanno prodotto distribuzioni molto diseguali e ipocrite di posti e di risorse (vedi grafico 0.8). L'incapacità dei socialdemocratici di convincere le classi svantaggiate che si preoccupavano dei loro figli e della loro istruzione come dei propri figli e dei figli delle élite spiega, senza dubbio e in gran parte, perché siano diventati il partito dei più istruiti (la cosa non sorprende del resto, visto che non hanno mai veramente messo a punto una politica giusta e trasparente in materia).

Nell'ultima parte tenterò di analizzare, nel merito di questi diversi problemi, le lezioni che si possono trarre dalle esperienze storiche disponibili e i dispositivi istituzionali necessari per impostare un regime di proprietà giusto, un sistema dell'istruzione giusto e confini territoriali giusti. Queste conclusioni devono essere valutate per quello che sono: lezioni imperfette, fragili e provvisorie, per delineare i contorni di un socialismo partecipativo e di un social-federalismo basato sulle lezioni della storia. Voglio soprattutto insistere su quello che è uno dei principali insegnamenti della narrazione storica che seguirà e che costituisce il messaggio principale di questo libro: le idee e le ideologie sono importanti nella storia, ma non sono nulla senza la verifica delle logiche fattuali, della sperimentazione storica e istituzionale concreta, e spesso delle crisi, più o meno violente. Un punto sembra sicuro: alla luce delle profonde trasformazioni della struttura delle categorie politiche ed elettorali verificatesi dopo gli anni 1950-1980, è poco probabile che un giorno una nuova coalizione egualitaria possa emergere, in assenza di una ridefinizione radicale dei suoi fondamenti programmatici, intellettuali e ideologici.

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La complessa diversità del mondo: l'indispensabile passaggio per il lungo termine


Prima di riprendere l'analisi delle evoluzioni recenti e attuali, è necessaria una digressione sulla storia dei regimi basati sulla disuguaglianza. In particolare, dovremo studiare le trasformazioni delle antiche società trifunzionali (basate su tre classi: clero, nobiltà guerriera e terzo Stato) in società dei proprietari, e come lo scontro con le potenze proprietariste e coloniali europee abbia influenzato le traiettorie delle società extra-europee. Ho già accennato ai motivi di questo indispensabile passaggio attraverso un'analisi sui tempi lunghi. Questo ci consentirà prima di tutto di avere un'idea della complessa diversità politico-ideologica di questi regimi, come della molteplicità delle traiettorie e biforcazioni possibili. Le varie società umane nel corso della storia hanno dimostrato grande creatività nella strutturazione ideologica e istituzionale delle disuguaglianze sociali, e sarebbe sbagliato interpretare queste costruzioni intellettuali e politiche solo come un velo ipocrita e privo d'importanza che consente alle élite di giustificare il loro immutabile dominio. Queste costruzioni riflettono lotte e visioni contraddittorie, che hanno tutte in qualche misura un fondo di sincerità e di plausibilità, e dalle quali si possono trarre utili insegnamenti. Il problema dell'organizzazione ideale di una grande società è tutto meno che semplice, e non basta denunciare il regime al potere per essere sicuri che quello che lo sostituirà sarà più apprezzabile. Bisogna prendere sul serio le costruzioni ideologiche del passato, prima di tutto perché non sempre sono più folli di quelle del presente, e poi perché per analizzarle disponiamo di un punto di vista storico e della possibilità di prendere le distanze che spesso ci mancano nell'analisi del presente. Vedremo altresì che molti dibattiti attuali hanno radici antiche, come le discussioni sulla tassazione progressiva e sulla redistribuzione delle proprietà al tempo della Rivoluzione francese. Lo studio di queste origini è necessario per comprendere meglio i conflitti futuri e le soluzioni che si possono concepire.

Infine, e soprattutto, questa digressione storica è indispensabile perché il contatto fra le diverse regioni del mondo è stato un processo molto graduale. Per secoli, le molteplici società del pianeta hanno avuto pochissimi legami. Poi sono iniziati i contatti, per mezzo di scambi intellettuali e commerciali, nonché nel quadro dei rapporti di forza fra Stati e delle relazioni di dominio coloniale. Solo dopo l'indipendenza delle colonie e dopo la fine della guerra fredda, le diverse regioni del mondo si sono effettivamente collegate, non solo tramite flussi economici e finanziari, ma anche e soprattutto per mezzo di scambi umani e culturali. In molti paesi, per esempio nelle società europee, prima degli anni sessanta e settanta del Novecento non vi era quasi nessun contatto diretto fra popolazioni di diversa origine continentale e religiosa. Questi rapporti hanno iniziato a consolidarsi sostanzialmente con i flussi migratori post-coloniali, e hanno avuto un pesante impatto sulla struttura del conflitto ideologico ed elettorale in Europa. In altre regioni del mondo, per esempio in India, negli Stati Uniti, in Brasile o in Sudafrica, c'è un'esperienza più antica di incontri sullo stesso territorio di popolazioni che si percepiscono come radicalmente diverse fra loro per motivi razziali, sociali o religiosi; di qui le diverse traiettorie connotate dal meticciato, dal compromesso o dall'antagonismo, a volte persistente. Solo impostando un'ampia prospettiva storica di questi incontri e dei regimi basati sulla disuguaglianza che ne sono risultati è possibile concepire la transizione alle fasi successive di questa lunga storia comune e correlata.

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Sulla complementarità del linguaggio naturale e del linguaggio matematico


Prima di procedere in questo studio vorrei precisare un punto di metodo. Questo libro impiega in generale un linguaggio naturale (che peraltro non ha nulla di particolarmente naturale, né per la lingua francese che è quella nella quale scrivo, né per le altre lingue), ma in certe situazioni si avvale di un linguaggio matematico e statistico. Per esempio, farò spesso ricorso alle nozioni di decile e centile, per misurare la disuguaglianza dei redditi o della proprietà, o la gerarchia dei titoli di studio. Nel fare questo, la mia intenzione non è di sostituire la lotta dei decili alla lotta di classe. Le identità sociali sono e saranno sempre flessibili e multidimensionali, ed è utilizzando il linguaggio naturale che i gruppi sociali delle diverse società possono trovare le risorse linguistiche per designare le professioni e i mestieri, le attività e le qualifiche, le speranze e le esperienze in cui s'identificano. Nulla potrà mai sostituire il linguaggio naturale, né per esprimere le diverse identità sociali e le ideologie politiche, né per organizzare la struttura della ricerca nelle scienze sociali e la riflessione sulla società giusta. Quanti pensano che un giorno sarà possibile delegare a una formula matematica, a un algoritmo o a un modello econometrico il compito di scegliere il livello "socialmente ottimale" di disuguaglianza e le istituzioni che consentano di arrivarci resteranno delusi. Non succederà mai ed è meglio così. Solo un'espressione aperta e democratica, formulata nel linguaggio naturale (o piuttosto nelle diverse lingue naturali, e non è un dettaglio da poco), può garantire le sfumature e le sottigliezze necessarie per concepire questo genere di scelte.

Il linguaggio matematico, le serie statistiche, i grafici e le tabelle occupano comunque uno spazio importante in questo libro e giocano un ruolo essenziale nella deliberazione politica e nel percorso della storia. Lo ripetiamo: come tutte le statistiche, anche le serie storiche e le altre valutazioni quantitative qui presentate non sono altro che costruzioni sociali imperfette, provvisorie e fragili. Non intendono stabilire "la" verità dei numeri o la certezza dei "fatti". Per me, le statistiche hanno prima di tutto lo scopo di fornire un linguaggio capace di definire gli ordini di grandezza, e soprattutto di mettere a confronto nel modo il più possibile ragionevole epoche, società e culture che si considerano molto lontane fra di loro e che, per come sono state costruite, non potranno mai essere perfettamente paragonate le une alle altre. Tuttavia, al di là dell'unicità assoluta e della radicale specificità di ogni società, può essere legittimo, per esempio, cercare di paragonare la concentrazione della proprietà negli Stati Uniti del 2018 con quella nella Francia del 1914 o nel Regno Unito del 1800.

Le condizioni nelle quali viene esercitato il diritto alla proprietà nei tre casi non sono certo uguali. I sistemi legali, fiscali e sociali sono diversi sotto molti aspetti, e anche le categorie delle attività svolte (agricoltura, transazioni immobiliari urbane, attività finanziarie) sono molto differenti. Potrà quindi avere senso questo tipo di confronto, solo se si rimane coscienti di tutte queste specificità e della loro importanza, e se si tengono sempre presenti le condizioni sociali e politiche che hanno condizionato la formazione delle fonti delle quali disponiamo. A tali condizioni si potrà confrontare, per esempio, la stima della quota parte del totale delle proprietà in mano al 10% dei più ricchi e al 50% dei più poveri nelle diverse società. Il ricorso a dati statistici, nel campo della ricerca storica, è anche il miglior modo di misurare la dimensione della nostra ignoranza. Ricorrere ai numeri impone immediatamente il ricorso ad altri numeri, che spesso non sono disponibili, aspetto che è importante constatare e dichiarare esplicitamente. Questo comporta la necessità di precisare quali confronti si possono fare e quali no. Di fatto, esistono alcuni paragoni che hanno senso anche fra società che si ritengono eccezionali e radicalmente diverse fra di loro, e che spesso rifiutano di apprendere le une dalle altre. Uno dei principali obiettivi della ricerca nel campo delle scienze sociali consiste appunto nell'individuare tali paragoni, indicando allo stesso tempo con chiarezza quelli che invece non sono leciti.

Simili confronti sono utili perché possono aiutare a trarre insegnamento dalle diverse esperienze politiche e dalle diverse traiettorie storiche, ad analizzare gli effetti del sistema legale o fiscale, a definire norme comuni di giustizia sociale ed economica, e a costruire dispositivi istituzionali accettabili dalla maggioranza dei cittadini. Troppo spesso le scienze sociali si contentano di dire che ogni statistica è una costruzione sociale, affermazione che senz'altro è sempre vera, ma non basta, perché alla fine ciò significa lasciare ad altri il dibattito su questioni fondamentali e, in particolare, quello sull'economia. Un atteggiamento che rivela talvolta un approccio conservatore, o in ogni caso un grande scetticismo sulla possibilità di trarre insegnamento dalle fonti imperfette che ci fornisce la storia.

Eppure, è proprio basandosi su dispositivi statistici e su modelli matematici di diversa natura che è stato possibile attuare molti processi storici di emancipazione sociale e politica. È difficile, per esempio, organizzare elezioni a suffragio universale se non si hanno í dati dei censimenti, che permettono di definire le circoscrizioni elettorali e di assicurare che il voto di ogni cittadino abbia uguale peso, o se non si hanno regole elettorali che permettano di trasformare i voti in decisioni. Non è semplice perseguire la giustizia fiscale se non si riesce a sostituire il potere discrezionale dell'esattore con una tabella delle aliquote che preveda un tasso d'imposizione definito per ogni classe di reddito. Questi criteri, a loro volta, si devono applicare a grandezze quali il reddito e il capitale, che sono concetti astratti e teorici, la cui definizione pratica comporta molte difficoltà, ma che permettono di far sì che gruppi sociali molto diversi accettino di confrontarsi fra di loro all'atto dell'applicazione concreta di queste categorie al tessuto sociale e alle sue precise articolazioni, per mezzo di negoziati e compromessi sociopolitici complessi. Fra qualche anno forse ci si renderà conto che non era molto credibile pretendere di organizzare la giustizia del sistema dell'istruzione, senza aver predisposto gli strumenti per verificare se le classi svantaggiate beneficiano o meno di risorse pubbliche almeno uguali a quelle accordate alle classi più privilegiate (e non di risorse nettamente inferiori, come oggi accade un po' dovunque), e senza introdurre in modo esplicito e verificabile la provenienza sociale nei dispositivi finalizzati all'allocazione di queste risorse. Per combattere il nazionalismo intellettuale, come per sfuggire all'arbitrio delle élite e istituire un nuovo ambiente sociale egualitario, il linguaggio matematico e statistico, utilizzato con moderazione e con cognizione di causa, è un complemento indispensabile del linguaggio naturale.

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Struttura del libro


Il libro si divide in quattro parti e diciassette capitoli. La Parte prima, intitolata I regimi della disuguaglianza nella storia, si compone di cinque capitoli. Il capitolo 1 contiene un'introduzione generale allo studio delle società ternarie o trifunzionali, organizzate in base alla ripartizione in tre classi funzionali (clero, nobiltà, terzo Stato). Il capitolo 2 analizza il caso delle società dei tre ordini europee, basate su un equilibrio fra i diritti legittimi delle élite intellettuali e guerriere e forme specifiche di proprietà e di rapporti di potere. Il capitolo 3 studia il sorgere delle società proprietariste, in particolare mediante la cesura emblematica della Rivoluzione francese, che cercò d'istituire una separazione radicale tra il diritto alla proprietà (ritenuto aperto a tutti) e il potere sovrano (ormai monopolio statale), ma che non risolse il problema della disuguaglianza della proprietà e della sua persistenza nel tempo. Il capitolo 4 analizza lo sviluppo di una società di proprietari di estrema disuguaglianza affermatasi nella Francia del XIX secolo e protrattasi fino alla prima guerra mondiale. Il capitolo 5 studia le diverse forme europee di transizione dalle logiche trifunzionali a quelle proprietariste con specifica attenzione ai casi del Regno Unito e della Svezia, il che permette d'illustrare la molteplicità delle traiettorie possibili e l'importanza delle azioni collettive e delle biforcazioni politico-ideologiche nelle trasformazioni dei regimi basati sulla disuguaglianza.

La Parte seconda, intitolata Le società schiaviste e coloniali, si compone di quattro capitoli. Il capitolo 6 tratta delle società schiaviste, che sono state la forma storica più estrema di regime basato sulla disuguaglianza. Ho trattato in modo particolare delle abolizioni della schiavitù del XIX secolo e dei modi con i quali sono stati compensati i proprietari che le avevano subite. Questi episodi documentano la forza del regime di quasi-sacralizzazione della proprietà che dominava in quell'epoca, e che ha in parte segnato il mondo di oggi. Il capitolo 7 studia la struttura delle disuguaglianze nelle società coloniali post-schiaviste, certo meno estreme rispetto a quelle delle società schiaviste precedenti, ma che hanno comunque lasciato tracce profonde nella struttura della disuguaglianza contemporanea, sia fra i diversi paesi sia all'interno dei paesi. I capitoli 8 e 9 analizzano i modi in cui le trasformazioni delle società trifunzionali extraeuropee sono state informate dall'incontro con le potenze coloniali e proprietariste europee, con particolare riguardo al caso dell'India (dove le antiche divisioni di status hanno lasciato tracce inusualmente persistenti, in parte a causa della loro rigida codificazione ad opera dei colonizzatori britannici), per passare poi a una prospettiva eurasiatica più ampia (Cina, Giappone, Iran).

La Parte terza, intitolata La grande trasformazione del XX secolo, si compone di quattro capitoli. Il capitolo 10 analizza la caduta delle società proprietariste nel XX secolo come conseguenza di due guerre mondiali, della crisi degli anni trenta e della sfida posta dal comunismo e dall'indipendenza delle ex colonie, ma soprattutto dalle grandi mobilitazioni collettive e ideologiche (in particolare socialdemocratiche e sindacali) che dalla fine del XIX secolo si stavano preparando a rifondare un regime basato sulle disuguaglianze più giusto rispetto al proprietarismo. Il capitolo 11 studia le conquiste e i limiti delle società socialdemocratiche al potere dopo la seconda guerra mondiale, in particolare i limiti che hanno dimostrato nel riformulare le condizioni di una proprietà più giusta, nell'affrontare le disuguaglianze nell'istruzione superiore e nell'impostare il problema della redistribuzione alla scala transnazionale. Il capitolo 12 analizza le società comuniste e post-comuniste nelle varianti russa, cinese ed est-europea, e le modalità con cui il post-comunismo ha contribuito ad alimentare le recenti derive identitarie e della disuguaglianza. Il capitolo 13 ricolloca il regime ipercapitalista mondiale attuale basato sulla disuguaglianza in un contesto intermedio tra modernità e arcaismo, e ne sottolinea l'incapacità di affrontare le crisi della disuguaglianza e dell'ambiente che lo stanno minando.

La Parte quarta, intitolata Rivedere le dimensioni del conflitto politico, si compone di quattro capitoli, nei quali studio l'evoluzione della struttura socioeconomica degli elettorati dei diversi partiti e movimenti politici dopo la metà del XX secolo, e le prospettive di ricomposizione future. Il capitolo 14 studia le condizioni della formazione storica e poi della scomparsa di una coalizione elettorale egualitaria, cioè basata su una piattaforma redistributiva piuttosto convincente, tale da attirare il consenso di classi popolari di diversa origine, a partire dal caso francese. Il capitolo 15 mostra come il processo di disaggregazione-borghesizzazione della coalizione socialdemocratica del dopoguerra si sia verificato anche negli Stati Uniti e nel Regno Unito, probabilmente a seguito di motivi strutturali comuni. Il capitolo 16 estende l'analisi alle altre democrazie elettorali occidentali, all'Europa orientale, all'India e al Brasile. In questo capitolo studio anche la formazione, all'inizio di questo XXI secolo, di una vera e propria trappola social-nativista, e insisto su come le derive identitarie attuali siano alimentate dall'assenza di una piattaforma egualitaria e internazionalista abbastanza forte da contrastarle - ossia dall'assenza di un social-federalismo credibile. Il capitolo 17 cerca di indicare gli insegnamenti che si possono trarre dalle esperienze storiche riferite nei capitoli e nelle parti precedenti, e di delineare un possibile socialismo partecipativo per il XXI secolo. Analizzo in particolare le forme che potrebbe assumere una proprietà giusta, con due fondamentali pilastri: da una parte, un'effettiva condivisione del potere e del diritto di voto all'interno delle imprese, che permetta di istituire la proprietà sociale e di superare sia la cogestione sia l'autogestione; dall'altra parte, una tassazione fortemente progressiva sulla proprietà, che permetta di finanziare una dotazione di capitale significativa per ogni giovane adulto e di istituire una forma di proprietà temporanea e di circolazione permanente dei patrimoni. Mi occuperò anche del problema di una istruzione giusta e del sistema fiscale giusto, nonché del bisogno di garantire l'istruzione giusta e la giustizia fiscale grazie alla trasparenza e al controllo dei cittadini. Analizzerò infine le condizioni necessarie per una democrazia giusta e per confini territoriali giusti. Il problema centrale è quello di un'organizzazione alternativa per l'economia mondiale che permetta di istituire, grazie al social-federalismo, forme nuove di solidarietà fiscale, sociale e ambientale, in sostituzione dei trattati di libera circolazione dei beni e dei capitali che oggi regolano la governance mondiale.

I lettori più impazienti potrebbero essere tentati di andare direttamente all'ultimo capitolo e alle conclusioni. Non posso impedirlo, ma devo avvertirli che avranno difficoltà a comprendere da dove siano tratti gli argomenti che presento, se prima non avranno letto, almeno in modo frammentario, le quattro parti del libro. Altri potranno pensare che il materiale presentato nelle prime due parti si riferisca a una storia troppo antica per essere ai loro occhi davvero pertinente, e preferiranno concentrarsi sulla terza e quarta parte. Ho cercato d'inserire molti riferimenti e rinvii all'inizio di ogni parte e di ogni capitolo, che dovrebbero permettere di leggere il libro in modi diversi. Ognuno può scegliere il percorso che più gli aggrada, anche se il più corretto sarebbe quello della sequenza più logica.

Per rendere la lettura più agevole, nel testo e nelle note a piè di pagina sono state citate solo le fonti e i riferimenti principali. I lettori che desiderano informazioni più dettagliate sull'insieme delle fonti storiche, sulle bibliografie e sui metodi utilizzati in questo libro possono consultare l'allegato tecnico in pdf, disponibile all'indirizzo: http://piketty.pse.ens.fr/files/AnnexeKIdeologie.pdf.

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