Autore Pier Paolo Poggio
CoautoreMarino Ruzzenenti
Titolo «Primavera ecologica» mon amour
SottotitoloIndustria e ambiente cinquant'anni dopo
EdizioneJaca Book, Milano, 2020, Ecologica , pag. 188, cop.fle., dim. 15x23x1,4 cm , Isbn 978-88-16-41634-5
LettoreGiangiacomo Pisa, 2021
Classe ecologia , energia , scienze naturali , economia , politica , paesi: Italia












 

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Indice


INDUSTRIA E AMBIENTE.
UN'IPOTESI DI PERIODIZZAZIONE E L'ITALIA
COME CASO DI «AUTOCOLONIZZAZIONE»                 9

LA «PRIMAVERA ECOLOGICA»
SVELA I COSTI AMBIENTALI E SANITARI RIMOSSI      29

CINQUANTA ANNI PERDUTI?                          43

LA MANCATA GIUSTIZIA AMBIENTALE                  55

LA «PANDEMIA SILENZIOSA»                         71

IL RUOLO DELLA SCIENZA                           89

LA «SINDROME NIMBY»                             113

IL NUOVO «IMBROGLIO ECOLOGICO»                  133

L'«APPRODO MANCATO» O LA META SBAGLIATA?        145

E ORA?                                          169


 

 

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INDUSTRIA E AMBIENTE.
UN'IPOTESI DI PERIODIZZAZIONE
E L'ITALIA COME CASO DI
«AUTOCOLONIZZAZIONE»



Il tema controverso del rapporto tra industria e ambiente in Italia appare in gran parte ancora inesplorato: delinearne la configurazione essenziale, sia nello spazio territoriale che nell'evoluzione temporale, è un'impresa, allo stato attuale delle conoscenze, molto ardua. Tuttavia ci sembra utile tentare un primo abbozzo di descrizione e perioodizzazione, che gli auspicabili studi futuri potranno ampliare, precisare, ridiscutere e, se del caso, correggere. In questa sede, pur tenendone conto, non possiamo meccanicamente rifarci ai criteri che presiedono alla scansione cronologica nell'ambito degli studi sull'industrializzazione, né risolvere il problema dell'arretratezza palese della storiografia italiana sui temi ambientali, se comparata con quella di altri Paesi industriali.

In merito ci limitiamo ad alcune considerazioni che meriterebbero ulteriori approfondimenti. Come in altri casi, si può far valere la lunga egemonia novecentesca dell'idealismo ma ancor più il fatto che esso sia stato scalzato solo dal produttivismo e dall'economicismo; esemplare in tal senso il passaggio anche nella sinistra dalla centralità del partito a quella dell'impresa. Non meno importante la mancanza di un'elaborazione teorica all'altezza della sfida che la crisi ecologica lancia al compimento della modernità. In questo ambito si hanno a disposizione più che altro ripetitive elucubrazioni sull'età della tecnica e il suo intrinseco nichilismo. Infine la frantumazione delle discipline non solo mantiene ferrea la separazione tra le due culture, superata solo regressivamente da movenze new age, ma disintegra in microspecializzazioni la ricerca storica.

La storia dell'ambiente nell'età dell'industrializzazione solleva anche impegnative questioni di metodo. Possiamo qui solo sfiorarle. Esse concernono sia le fonti che gli strumenti per interrogarle. In realtà tutte le fonti tradizionali possono diventare utili alla ricerca allorché in esse sono registrati eventi che riguardano l'impatto ambientale delle attività industriali (e a loro collegate). In questa ottica si possono indagare i comportamenti e le scelte degli attori istituzionali, delle forze politiche, dei movimenti, etc. Si tratta quindi di rivolgere domande nuove a fonti che vengono normalmente usate per ricostruire aspetti particolari o generali della storia contemporanea, con tutti i problemi di tale disciplina, sommersa da una quantità sterminata di documenti di ogni genere, per altro soggetti a rapida e spesso casuale distruzione. Una storia e storiografia dotate di archivi immensi e labili, alle prese con la dissoluzione incessante di ciò che appare più solido e duraturo, ridotto a un cumulo crescente di macerie ( W. Benjamin ). Ma la storia dell'ambiente trasformato dall'industria ha a disposizione, se trova i mezzi per interrogarle, anche delle fonti di nuovo tipo, che hanno molto più a che fare con l'archeologia che con la storiografia. Un'archeologia del tempo presente costituita dalla sedimentazione nei luoghi industriali ad alto impatto ambientale dei resti degli impianti, dagli scarti dei cicli produttivi, del loro mutare nel tempo, ovvero dalla testimonianza fisica ma niente affatto statica di come l'industria ha investito l'ambiente, gli esseri viventi, le persone. Basti accennare alle analisi chimico-fisiche, ai dati delle bonifiche, a quelli epidemiologici, alla documentazione dei conflitti suscitati dall'impatto ambientale dell'industrializzazione, per far intravedere un continente che la storia dell'ambiente deve cercare di esplorare, distillando dal caos elementi di conoscenza, gettando qualche luce nel buio che inghiotte un passato che è ancora presente.

Per altro, paradossalmente e significativamente, il delinearsi corposo della crisi ecologica per effetto delle esigenze e delle conseguenze del produttivismo industriale, nel cruciale passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta, con la fine dei «trent'anni gloriosi» dello sviluppo postbellico, ha avuto effetti paralizzanti sulla storiografia. Sino a quel momento le principali scuole storiografiche, specie quella egemone delle «Annales» e quella marxista, consideravano il territorio, il paesaggio, il clima, elementi costitutivi e interni di una storia che pretendeva di essere addirittura totale. Non c'era bisogno di una storia a parte dell'ambiente. Invece, proprio in coincidenza con il manifestarsi della centralità della questione ambientale, il progetto di una storiografia capace di tenere assieme società e natura, tecnologia ed ecologia, entra in crisi per lasciare il posto a storie parziali, specializzate, frammentarie, in cui è prevista una nicchia anche per la storia dell'ambiente quasi solo di ambito preindustriale.

Mentre l'impatto ambientale, territoriale, ecosistemico, delle attività antropiche si fa dirompente, la storiografia non riesce a collocare con decisione la crisi ecologica come luogo di incontro tra scienze naturali e umane. La spiegazione di questo mancato incontro e dei percorsi molto più tortuosi e fragili che si sono intrapresi, anche in Italia, non è alla portata di questo contributo. Possiamo segnalare come pista di ricerca il cortocircuito che si è venuto a determinare in tempo reale, per l'accelerazione e generalizzazione dell'industrializzazione, tra la temporalità lenta propria della storia ambientale di lunga durata con quella di rapidità crescente dell'innovazione tecnologica. Resta il fatto che la grande storiografia novecentesca, si pensi a un Hobsbawm , si è sempre tenuta lontana dalle colonne d'Ercole della crisi ecologica, in definitiva perché partecipe, sia pure in termini riflessivi e con lo sguardo attento alle altre civiltà e culture, dello stesso progetto della modernità e del progresso che viene minato alla base dal dispiegarsi della crisi. A maggior ragione risulta spiazzata la storia sociale, ancora impegnata a liberarsi dall'egemonia dell'idealismo.

In termini più circostanziati una forte debolezza del quadro interpretativo deriva dalla mancata messa a fuoco del cosiddetto «secondo miracolo economico» italiano, dopo la crisi degli anni Settanta e la fine della centralità della fabbrica fordista sia nella realtà che nell'immaginario. La narrazione prevalente ha rappresentato uno scenario di deindustrializzazione, dematerializzazione, fine della classe operaia, approdo a una società di consumatori individualisti. Una costruzione ideologica seppure ancorata a dati di fatto che ha reso invisibile, nel suo compiersi, il processo di diffusione capillare dell'industrializzazione di territorio, distrettuale o meno, che ha mantenuto sino a ieri l'Italia al quinto posto tra i Paesi manifatturieri. Un'Italia iperindustrialista sviluppatasi in modo selvaggio secondo le pulsioni e l'energia degli «spiriti animali» del capitalismo familiare. È questo mondo, rappresentato emblematicamente dal Nord-Est, che compensa la crisi della grande impresa, di Stato o meno, il declino di comparti come quello della chimica, a forte impatto ambientale. È, in linguaggio economico, la parte «sana e produttiva» del Paese, con al suo interno una contraddizione micidiale. Ancor più del primo, il secondo miracolo economico si compie a danno dell'ambiente, divorando e distruggendo paesaggi, culture e colture. Esso si dispiega infatti sotto forma di sprawl urbano e in sintonia con l'irruzione della tecnoscienza nell'agricoltura meccanizzata, in tutte le aree a maggiore produttività.

L'altra faccia di tutto ciò sono le lotte, le resistenze, le esperienze alternative che in contesti diversissimi, a partire dagli anni Settanta e seguenti, si manifestano localmente senza trovare veri momenti di unificazione, soprattutto una prospettiva duratura. Sono altre storie negate e sommerse che faticosamente, interrogate dall'attualità, si cerca di far riemergere in opere come quelle che la Fondazione Micheletti di Brescia ha cercato di promuovere, su impulso di Giorgio Nebbia , da oltre 20 anni. E anche quando, oggi, il meglio della storiografia industriale italiana affronta questo periodo più recente e si distanzia dalla narrazione celebrativa del «secondo miracolo economico» registrandone criticamente il mancato approdo, rivela una significativa incapacità di mettere a tema il vincolo ambientale, sia per quanto riguarda il surplus di degrado delle risorse naturali prodotto, sia per il peso giocato in quell'insuccesso dall'incapacità del sistema industriale di assumere positivamente la sfida ecologica. Quest'ultimo aspetto è davvero sorprendente, perché si tratta di storici particolarmente attenti ai fattori endogeni ed esogeni che hanno favorito od ostacolato il «sistema Italia» negli ultimi cinquant'anni e che scrivono i loro saggi in un periodo in cui anche l'uomo della strada meno avvertito sa che «la più grande sfida dell'esistente (è) quella ambientale», come ci ricordava Hobsbawm nel 2012. Anche per questa clamorosa lacuna, faremo più avanti diversi riferimenti a questo lavoro comunque importante.

Per quanto riguarda il nostro breve saggio, il criterio guida che potremmo assumere è quello della dimensione qualitativa e quantitativa dell' impatto che l'industrializzazione ha esercitato sull'ambiente. Come è noto il concetto di impatto ambientale e della conseguente valutazione si afferma, a partire dagli Stati Uniti, quando la società comincia a percepire le conseguenze negative di determinate produzioni industriali, un impatto che si proiettava al di là dei muri delle fabbriche, investendo l'ambiente esterno, tendenzialmente l'ecosfera. Per definirlo, potremmo riferirci a quanto la normativa europea del 1985 prevede in sede di valutazione di impatto ambientale: gli «effetti diretti e indiretti» di una determinata industria «sui seguenti fattori: l'uomo, la fauna e la flora; il suolo, l'aria, il clima, il paesaggio; i beni materiali e il patrimonio culturale; l'interazione tra i fattori» sopra indicati.

Con questo criterio si possono individuare fondamentalmente, per l'Italia, quattro periodi.

- Primo periodo, tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, con un impatto puntiforme, sporadico.

- Secondo periodo, dagli anni Trenta a metà anni Cinquanta, caratterizzato da un impatto intenso, ma ancora circoscritto.

- Terzo periodo, da metà anni Cinquanta agli anni Settanta, con un impatto potente e pervasivo.

- Quarto periodo, dagli anni Ottanta a oggi, in cui l'impatto appare diffuso, capillare, anche se contrastato e «mitigato».

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Al fine di cominciare a mettere a fuoco gli effetti del processo di industrializzazione sull'ambiente nel contesto italiano, anche in questo breve saggio l'accento cade inevitabilmente sulle manifatture che costituirono effettivamente il motore dello sviluppo economico e l'epicentro dell'intero sistema dal punto di vista tecnico e sociale. Ciò non toglie che ai fini di una rappresentazione adeguata della trasformazione dell'ambiente da parte dell'economia industrializzata si dovrebbero prendere in considerazione altri ambiti senza di cui né l'industrializzazione né il suo impatto ambientale possono essere capiti e studiati adeguatamente. Si pensi alle trasformazioni dell'agricoltura, alla creazione delle infrastrutture, all'urbanizzazione, al sistema dei consumi e del commercio, a tutti gli altri comparti della vita sociale che vengono investiti e forgiati dal dispiegarsi dell'innovazione tecnico-industriale.

La storia ambientale è tendenzialmente globale ma questa enorme dilatazione rischia di essere paralizzante. D'altro canto può essere utile concentrare l'attenzione su alcuni nodi ad alto valore euristico e indubbiamente lo è quello del rapporto tra manifatture e territorio. Infatti è proprio in questo ambito, sia pure solo in casi specifici, che si è imposto, in modo cogente, il tema dei limiti della crescita, di per sé estraneo al funzionamento del capitalismo e però, a nostro avviso, orizzonte insuperabile del nostro tempo. Si tocca così una questione cruciale che definisce con chiarezza due campi in conflitto sulla scena culturale, con ricadute su tutti gli altri ambiti, dalla politica alla ricerca, all'industria. Da un lato vi sono coloro che si collocano all'interno del contesto definito dalla crisi ecologica quale prodotto storico dell'industrializzazione, dall'altro coloro che affidano alla scienza, e alle sue applicazioni, il trascendimento dei vincoli ecologici, accettando e perseguendo una completa artificializzazione del mondo. La seconda opzione si colloca in continuità lineare con il progetto della modernità; nella prima prevale un approccio critico, del resto ben presente nella stessa tradizione occidentale. L'esito del conflitto, di cui è inutile richiamare le valenze politiche e filosofiche, è del tutto aperto. In ogni caso crediamo che sia indispensabile far emergere la portata e gli elementi concreti che sostanziano le tesi in campo.

Nel saggio che aggiorna l'evoluzione della secolare vicenda dell'ACNA si fa spesso riferimento al concetto di «colonizzazione» del territorio tradizionalmente agricolo da parte dell'industria per intendere lo sfruttamento di risorse naturali da sempre destinate alle colture (nel caso specifico in particolare l'acqua) da parte di un'entità estranea al territorio stesso, il grande impianto chimico. In verità, da una rassegna dei casi fino a ora studiati, si ricava che qualcosa di analogo è avvenuto nell'intero Paese, almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso. Classicamente il neocolonialismo tuttora in auge, dopo l'emergenza ambientale nel Nord del mondo, si esprime in una nuova e micidiale forma di colonizzazione del Sud del mondo, dove è l'ambiente stesso a essere ridotto in stato di servitù, continuando nella rapina delle risorse e dislocandovi le produzioni a più elevato impatto, nonché i rifiuti e le scorie tossiche. A questo proposito il disastro della cittadina indiana di Bhopal, avvenuto nel 1984 con migliaia di vittime, è il caso più emblematico di questa nuova forma di colonizzazione delle aree povere del pianeta da parte di multinazionali dei Paesi ricchi, interessati a collocare fuori dalla madre patria le produzioni più inquinanti e pericolose, ormai non più accettate dalle proprie popolazioni. Da allora una tale tendenza non si è più interrotta, dilatando in ogni direzione il concetto di Sud del mondo.

Ebbene, in Italia sembra essere avvenuto qualcosa di analogo, a opera però di iniziative industriali prevalentemente autoctone, per cui potremmo parlare di una sorta di «autocolonizzazione» e di «autosfruttamento» del proprio ambiente di vita. In sostanza i meccanismi sono simili a quelli classicamente coloniali (sfruttamento selvaggio delle risorse umane, naturali ed economiche di un territorio da parte di una potenza straniera dominatrice), ma messi in opera da forze interne, che appartengono allo stesso Paese che si «autosfrutta», in un contesto democratico e con il consenso delle forze politiche rappresentative, una forma di servitù volontaria, basata sulla condivisione più che sul dominio dall'esterno.

Questa sembra la peculiarità del «caso italiano», o almeno è una chiave interpretativa che ci sembra legittimo avanzare e che va collocata in particolare in quel terzo periodo sopra individuato, in cui l'Italia compie il balzo «miracoloso» da Paese prevalentemente agricolo, arretrato e povero, a Paese industriale, avanzato e relativamente ricco. Quello che avviene sul piano economico si può rappresentare in estrema sintesi con i seguenti dati arrotondati per comodità di esposizione: nel decennio '59-'68 il reddito nazionale lordo aumenta del 70%, quello pro-capite del 60%, la produzione industriale cresce del 100% e le esportazioni aumentano del 250%. I critici di quel «miracolo economico», in particolare gli studiosi e i politici che gravitavano attorno al più grande partito di opposizione dell'epoca, il PCI, ne individuarono alcune debolezze strutturali, alcuni risvolti negativi destinati a pesare sul futuro. Il «miracolo» sarebbe avvenuto essenzialmente perché «il capitalismo italiano ha potuto utilizzare particolari condizioni preferenziali: bassi salari, alto tasso di autofinanziamento e scarso carico tributario, disponibilità di manodopera e qualificazione delle nuove leve giovanili, rovesciamento sulla collettività dei costi sociali, esiguo onere delle spese di ricerca scientifica e utilizzazione della ricerca estera». Con il senno dei successivi cinquant'anni non si può non sottoscrivere questa analisi che ci aiuta a capire anche le particolari difficoltà del nostro Paese nella crisi attuale. Ma si impone l'integrazione di un elemento cruciale, che significativamente sfugge all'illustre critico comunista del tempo, così come era assente nella cultura politica dell'epoca (e di quelle successive): l'azzeramento di ogni costo ambientale a carico delle imprese italiane, rendendole, anche per questa via, competitive sui mercati internazionali (per tacere del costo del petrolio, pressoché irrisorio, garantito dall'ENI di Mattei e dalla convinzione che fosse una risorsa illimitata). Insomma, l'ambiente, le risorse naturali e il territorio vengono concessi in uso gratuito e senza alcun vincolo all'industria; concessione ritenuta quasi scontata, anche dagli oppositori politici, per non caricare il sistema Italia di costi aggiuntivi che avrebbero ostacolato il decollo di quella che in poco tempo sarebbe divenuta la quinta potenza industriale del mondo. L'adesione entusiasta del popolo italiano al cambiamento epocale nei costumi e nelle condizioni di vita indotto dal «miracolo economico» ci aiuta a capire come sia alto il grado di accettazione del carico inquinante dello sviluppo. Si esce da una condizione di povertà e anche di arretratezza culturale, per essere proiettati in pochi anni nella fantasmagorica civiltà dei consumi, con il miraggio di approdare a una società ricca di ogni comodità, in cui affluiscono incessantemente beni artificiali alla portata di tutti che alleviano la pesantezza del vivere quotidiano, che aprono nuove libertà, di muoversi, di esprimersi, di divertirsi, di consumare o almeno di attrezzarsi per farlo. Un'ubriacatura che determina un cambiamento antropologico violento e rapidissimo, che sarà colto in presa diretta da pochi perché non può essere accompagnato da un'adeguata rielaborazione culturale, da nuove consapevolezze capaci di vedere in profondità le debolezze e le ambiguità di quel processo. Forse non si vuole neppure considerarle, quelle evidenze critiche, nessuna cultura politica è attrezzata per affrontarle. Il bel documentario zavattiniano per i Cento anni dell'Unità, La lunga calza verde, nel 1961, in pieno Boom, si conclude significativamente con l'appello a costruire «un'Italia grande e felice», mentre l'anno prima il documentario voluto da Enrico Mattei, celebrativo della «sua» impresa, l'ENI, confezionato da un grande regista internazionale, Joris Ivens, in collaborazione con i fratelli Taviani e con testo di Alberto Moravia, usciva con l'eloquente titolo, L'Italia non è un Paese povero: la società italiana è divisa politicamente ma concorde nell'investire sullo sviluppo senza preoccuparsi minimamente dei guai che si arrecano all'ambiente, al volto del Bel Paese. L'autocolonizzazione del territorio può, quindi, procedere a ritmi incessanti senza incontrare ostacoli apprezzabili.

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La prevenzione era ed è troppo impegnativa, se non di ostacolo, per un sistema proiettato verso lo sviluppo illimitato e la messa in valore economico di ogni cosa. Infatti essa comporta la rimozione delle fonti di inquinamento, quindi la bonifica dei siti contaminati e lo stop a ulteriori immissioni di veleni nell'ambiente, ovvero quell'inversione di rotta che in Italia, come abbiamo visto, non si vuole intraprendere. Invece si preferisce sviluppare sempre più l'industria della terapia farmacologica e chirurgica, con un aggravio di costi a carico del sistema sanitario pubblico e con risultati contraddittori: diminuiscono i decessi per queste moderne patologie, ma aumenta in continuazione l'incidenza delle stesse. Di conseguenza, dal 2004, mentre è aumentata significativamente l'aspettativa di vita, anche se meno delle previsioni negli ultimi anni, è rimasta pressoché stabile l'aspettativa di vita in condizioni soddisfacenti di salute.

Trattasi di una questione di grande rilevanza sociale ed economica che qui possiamo solo evocare. I costi crescenti e insostenibili della sanità dipendono, oltre che da sprechi e truffe, da una medicalizzazione della vita che ha cause culturali, ma anche una base materiale nel prolungamento medio dell'esistenza e nel contemporaneo peggioramento della stessa in tarda età per la maggioranza delle persone. In questo contesto, la scienza e la ricerca medica, mentre conseguono successi importanti sul fronte delle terapie sempre più efficienti (anche se spesso capaci di curare e di mantenere in vita, ma non di guarire), sembrano molto più impacciate quando si tratta di certificare il nesso di causalità tra determinate patologie e sostanze inquinanti immesse nell'ambiente. In questo ambito i dubbi e le cautele sembrano precludere alla scienza il raggiungimento di una qualche certezza. Una prudenza apprezzabile se ispirata a sani principi deontologici ed epistemologici, che, per altro, stride con il fatto che oncologi, trasformati in star dai mezzi di comunicazione, pronunciano troppo spesso con facilità sentenze negli ambiti più diversi («il nucleare è sicuro», «le emissioni dei moderni inceneritori sono pari a zero»), venendo rapidamente, ma inutilmente, smentiti dai fatti.

Ma anche la decantata efficienza del sistema di cura ha mostrato di poggiarsi su piedi d'argilla di fronte alla pandemia da Covid 19, proprio in Lombardia, la Regione tecnologicamente e industrialmente più avanzata del Paese. Una débâcle che ha lasciato tutti stupefatti, e che non si può spiegare solo con il taglio degli investimenti pubblici nella sanità, in omaggio alle politiche di aggiustamento di bilancio, con il dissennato foraggiamento delle imprese sanitarie private a scapito del patrimonio pubblico, con la regionalizzazione di un servizio che doveva rimanere nazionale, alimentando così corruzione e clientelismo. La causa va ricercata più in profondità e individuata nella presunzione della modernità capitalistica di ridurre la natura, la biosfera, alla dimensione della gigantesca protesi esosomatica creata dall'uomo, la cosiddetta tecnosfera. Come questa, in quanto prodotto artificiale, è ritenuta con qualche ragione perfettamente misurabile, programmabile, prevedibile e governabile, così, da parte di una tecnoscienza arrogante, si è pensato di poter includere nello stesso paradigma anche la natura. Dimenticando la lezione profetica di Leopardi sull'irrimediabile fragilità dell'uomo di fronte a una natura che è sì fonte essenziale di vita - e per questo andrebbe il più possibile preservata dal degrado e dall'inquinamento -, ma può essere anche matrigna, con eventi di una forza dirompente immensa, dai terremoti e dalle eruzioni vulcaniche, ai tifoni, alle alluvioni, alle pandemie virali, eventi da cui possiamo difenderci, ancora una volta, con la sola arma della prevenzione, che invece abbiamo del tutto dismesso.

Così le strutture deputate alla tutela della salute e alla cura sono state negli ultimi decenni ridefinite sul modello delle aziende che producono automobili: anche negli ospedali si è affermato il Toyotismo del just in time, che prevede l'azzeramento delle scorte e dei magazzini, lo sfruttamento massimo degli impianti con la riduzione del personale e la dismissione di macchinari, ovvero di letti e apparecchiature, sottoutilizzati. L'aziendalizzazione non è stata solo un'operazione nominalistica, ma sostanziale: la cura di un corpo, di un organo, di un batterio o di un virus è stata assimilata alla costruzione di un'automobile e l'efficienza è stata misurata nel rapporto tra costi (quindi posti letto, scorte di magazzino, personale, apparecchiature...) e prestazioni e si è preteso di programmare questo rapporto, incentivato con premi ai dirigenti anche nel pubblico, sulla base di algoritmi lineari assimilabili all'andamento di mercato previsto per le automobili. Con tale impostazione ovviamente ci si è trovati disarmati di fronte all'imprevedibilità e non programmabilità della natura, di una biosfera che sa sempre sorprenderci nel bene o nel male. Nella prevenzione primaria e secondaria, in sostanza, non si è contemplato un evento eccezionale come una severa pandemia, pur sapendo che questa prima o poi sarebbe arrivata, semplicemente perché incompatibile con il modello di aziendalizzazione che si è imposto negli ultimi decenni. Clamorosa, a questo riguardo, la situazione dei letti per terapie intensive, come rilevato dall'OMS negli ultimi 40 anni: l'Italia si è trovata ad affrontare l'emergenza con 275 letti per 100 mila abitanti, rispetto ai 621 letti della Germania; ma il nostro Paese, dopo il varo del Sistema sanitario, nel 1980, ne aveva ben 922. Una sana prevenzione, probabilmente, avrebbe ridotto le vittime, tenuto sotto controllo il contagio e, paradossalmente, ridotto anche il danno economico rendendo possibili chiusure parziali.

Insomma, anche in questa vicenda che ha sconvolto l'intero pianeta, sembrano confermarsi i caratteri di una tecnoscienza che si è in gran parte messa al servizio di un sistema sociale e produttivo, quello capitalistico e neoliberista fino a ieri trionfante, mosso dagli idoli della crescita illimitata, dell'efficienza, della competitività, del massimo profitto, idoli ai quali vanno sacrificate le risorse naturali e le «risorse umane», come pudicamente si definiscono le prestazioni lavorative anch'esse private in gran parte di tutele, dopo il crollo del comunismo e la sconfitta del movimento operaio. Ci permettiamo, a questo punto, di riproporre una riflessione di qualche anno fa che oggi appare profetica:

La crisi ecologica rende manifesti gli effetti negativi del progetto fondamentale della modernità: sfruttare integralmente le risorse naturali per costruire un mondo sempre più artificiale, sino ad arrivare a liberarsi della natura e di tutti i limiti. La novità inaspettata è che la natura non umana si è ribellata al suo sfruttamento, pena il dispiegarsi di retroazioni incontrollabili. Questo ritorno del non umano ha di colpo posto fine al monopolio scientifico del discorso sulla natura e ha messo in crisi il progetto ideologico trasversale di neutralizzazione, tendenzialmente assoluta, della natura da parte della tecnica.


Ora l'umanità è di fronte a un microscopico virus che ha letteralmente messo in ginocchio un mondo così perfezionato e tecnologico, tronfio di sviluppo e di scienza, costringendo in clausura tre miliardi di persone, cosa mai successa nemmeno nel XIV secolo con la peste nera. E, probabilmente, il geniale sbigottimento nasce, più che dalla paura della morte, dallo smarrimento di fronte agli incredibili limiti che abbiamo scoperto di avere. Basterà tutto questo ad avviare un saggio ripensamento?

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IL RUOLO DELLA SCIENZA



Ma tornando al tema che ci occupa in questo saggio, quello del rapporto tra industria e ambiente, la scienza è chiamata in causa non solo per certificare i danni all'ambiente e alla salute di determinate produzioni e sostanze di sintesi. La ricerca scientifica ha un ruolo fondamentale in questa vicenda per il fatto di essere protagonista della ricerca che precede e sta alla base delle innovazioni e delle applicazioni industriali. Molti degli studiosi che abbiamo citato, tra cui Laura Conti in particolare, si sono soffermati sul distacco che ha sempre separato la ricerca e la sperimentazione delle proprietà tecnologicamente ed economicamente interessanti di nuovi prodotti di sintesi, da un canto, e, dall'altro, la ricerca e la sperimentazione degli effetti potenzialmente nocivi degli stessi prodotti. Negli anni di Laura Conti, peraltro, il tema è argomento di un dibattito acceso e vivace, che travalica l'ambito accademico e coinvolge fasce estese della pubblica opinione e dei movimenti sociali, studentesco e operaio, che la animano.

La contestazione studentesca dà il via a quello che verrà definito il «secondo biennio rosso», in cui le lotte nelle università si uniscono senza soluzione di continuità alle lotte operaie nelle fabbriche. Un movimento sociale, quello degli studenti, estremamente complesso che si dispiega dentro la scuola come terreno privilegiato di critica e di azione di massa, ma che ha ripercussioni su diversi aspetti della società contemporanea.

In particolare, ai fini della nostra ricerca, nei gruppi di studio, nei seminari, nelle assemblee, nei documenti studenteschi comincia a circolare un nuovo punto di vista critico nei confronti della scienza e della tecnica. Erano suggestioni, come vedremo, non originali, ma quel che qui interessa è che per la prima volta divengono patrimonio comune di una generazione di intellettuali, destinati alle più diverse professioni (medici, giudici, psichiatri, urbanisti, insegnanti, etc.), nelle quali penetrerà il germe di quella riflessione critica sviluppata dentro le università. Si tratta della critica alla teoria della «neutralità» della scienza, fondata su due considerazioni fondamentali: la prima che «il valore sociale delle singole discipline ne condiziona anche i contenuti», mentre la seconda «solleva il problema dell'obbiettività delle conoscenze ottenute». Viene cioè messa in discussione la concezione fino ad allora dominante, e fatta propria dalla tradizione marxista, che considera la scienza e la tecnica strumenti neutrali di progresso della società e che postula un processo di sviluppo scientifico regolato da una propria dinamica interna, soggetta a proprie leggi, dinamica che può essere tutt'al più favorita e ostacolata dalla struttura della società e dai suoi ritmi di sviluppo, ma non alterata o determinata nella sostanza. Insomma per la prima volta si fa scendere dall'altare coloro che si sono autodefiniti emuli dell'opera divina, togliendo alla scienza quell'aura sacrale che le è stata assegnata nel corso della modernità, almeno da Cartesio in poi.

Questa critica alla «neutralità» ha però radici proprie, determinate dallo stesso sviluppo scientifico novecentesco, a cui il movimento degli studenti seppe attingere per tradurla in senso comune di massa. Da un canto affondava nel dibattito epistemologico che ebbe origine dalla critica al neopositivismo e all'induttivismo iniziata da Karl Popper. Questi in particolare nella sua Logica della scoperta scientifica (1934) introduceva il criterio della falsificazione come metodo per avvalorare «in negativo» il sapere scientifico, Ma poiché, in assoluto, non si poteva escludere che una proposizione scientifica fosse in futuro esposta al vaglio della critica e alla possibilità della falsificazione e dell'errore, la verità del sapere scientifico doveva essere ritenuta mai perfettamente definita una volta per tutte, bensì una sorta di «approssimazione alla verità».

D'altro canto un filone ugualmente fecondo è rintracciabile nella critica all'ortodossia marxista basata in particolare sulla rilettura del Marx dei Manoscritti e dei Grundrisse compiuta dal filosofo tedesco Herbert Marcuse , esponente della cosiddetta Scuola di Francoforte. Testo di culto fra gli studenti è il suo L'uomo a una dimensione (1964), nel quale si sviluppa una critica penetrante alla società contemporanea ispirata dal «pensiero a una dimensione» (simile a quello che oggi viene rinominato dai critici della globalizzazíone «pensiero unico») in cui la razionalità scientifica e tecnologica assume un ruolo fondativo. La polemica di Marcuse prende di petto in particolare il carattere meramente utilitaristico della scienza moderna, la quale «in virtù del suo metodo e dei suoi concetti, ha progettato e promosso un universo in cui il dominio della natura è rimasto legato al dominio dell'uomo - legame che rischia di essere fatale a questo universo intero». E qui l'analisi critica anticipa alcuni temi decisivi che di lì a poco troveranno largo spazio all'interno della cultura ecologista.

In Italia il già citato Giulio Alfredo Maccacaro, tra gli anni Sessanta e Settanta, si occupa di metodi della statistica applicata alla medicina e alla ricerca delle cause soprattutto ambientali e lavorative delle malattie e da questo punto di vista mette in discussione la neutralità della scienza. Ma nei decenni successivi il mito dell'obiettività, imparzialità e neutralità della scienza ha ripreso vigore e sembra essersi nuovamente imposto nel senso comune. È un fenomeno ideologico, smentito dai fatti, nondimeno frutto di processi reali che andrebbero analizzati in profondità. Da un lato lo scientismo degli scienziati deriva dalla crescente specializzazione e ristrettezza dei loro ambiti di lavoro, con la conseguente perdita di visione generale, e l'aggrapparsi a certezze corporative che accompagnano la subordinazione della ricerca alla macchina produttiva, la cui logica si è imposta nelle università come negli enti e istituti di ricerca, indebolendo o annullando l'indipendenza e la libertà dei ricercatori. D'altro canto le società sono in preda allo smarrimento per cui o si aggrappano alle religioni, politicizzandole, o, dove la laicizzazione sembra irreversibile, si affidano fideisticamente alla scienza e ai suoi reali o presunti portavoce.

È pur vero che, all'opposto, si è venuto manifestando anche un rigetto in toto della scienza, con forme di regressione verso culture irrazionalistiche e premoderne; un atteggiamento, questo, a nostro parere, errato e invalidante perché rischia di rigettare le grandi conquiste di civiltà e di diritti acquisite con la modernità, mentre risulta nei fatti del tutto inefficace per affrontare i problemi complessi e le criticità con cui dobbiamo oggi misurarci, per effetto dello sviluppo tecnico-scientifico e della gigantesca tecno-struttura posta in essere. In sostanza, anche per questa via, si rischia di rafforzare quella tendenza «scientista» che la vittoria del «pensiero unico» e il tramonto delle «grandi narrazioni» hanno favorito. La scienza ridiventa un idolo a cui affidarsi, l'unica ancora di salvezza in grado di garantire un futuro all'umanità. Il vasto pubblico che segue i diversi festival della scienza che si tengono negli ultimi anni in alcune città sembra attestare questa rinnovata fede nel pensiero scientifico. Un atteggiamento che è favorito dalla politicizzazione e spettacolarizzazione della scienza che attraverso suoi esponenti di punta, o molto noti, lotta contro chi propone un atteggiamento critico e riflessivo nei confronti della scienza stessa e soprattutto delle sue applicazioni, tenendo conto che è sempre più difficile separare la scienza dalla tecnica. Sottraendosi alla possibilità di critica, la scienza, contraddittoriamente rispetto al suo statuto storico-epistemologico, rischia di approdare a posizioni dogmatiche, come sempre più di frequente è possibile registrare.

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Se, in conclusione, come verifica empirica, ci soffermiamo sui casi già oggetto di studio e citati (in particolare ACNA di Cengio, piombo tetraetile, ICMESA, Caffaro) le istituzioni scientifiche che se ne sono occupate non superano di certo la prova di «neutralità» o «indipendenza» dai poteri e dagli interessi economici in campo, anzi appaiono spesso gravemente responsabili del reiterarsi nel tempo di devastazioni ambientali e sanitarie, che altrimenti si potevano arrestare.

Come già accennato lo scientismo, vale a dire la pretesa di assolutezza e inconfutabilità delle verità scientifiche, è contraddittorio rispetto alla natura della scienza, alla sua storia e realtà, all'autoriflessione che si è sviluppata al suo interno, almeno dagli inizi del Novecento. Lo scientismo è causa di gravi danni in primo luogo all'interno della comunità scientifica, esso alimenta lo spirito corporativo a scapito di quello critico e incentiva la subordinazione della scienza al potere politico e all'economia, denotando una situazione di debolezza che contraddice le pretese di superiorità e assolutezza, denunciandone la natura compensatoria, mentre la libertà della ricerca e la sua autonomia dai centri di potere dominanti sono indispensabili affinché la scienza e le sue applicazioni siano di aiuto nel reggere le sfide della crisi ecologica.

D'altro canto lo scientismo e la delega ai tecnici sono divenuti strumenti di governo per una classe politica in caduta libera, priva di credibilità, impegnata solo nel garantire la propria sopravvivenza, incapace di assumere decisioni per il futuro che escano dalla coazione a ripetere. Un ceto politico, questo, che ricorre opportunisticamente al sapere tecnico-scientifico, ridotto a copertura di interessi immediati, indifferenti al bene pubblico, estranei e ostili a una seria politica ambientale.

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IL NUOVO «IMBROGLIO ECOLOGICO»



Per reggere tanto tempo, mezzo secolo, il sistema ha elaborato una strategia molto sofisticata, una sorta di «imbroglio ecologico» riveduto e potenziato, rispetto a quello preconizzato da Paccino. Abbiamo visto come il sistema paleotecnico e termoindustriale si sia perpetuato nella sua struttura fondamentale: sono costantemente aumentati i consumi di combustibili fossili, i prelievi di minerali, le emissioni di CO2 e di inquinanti in forma di rifiuti pericolosi e sostanze tossiche in ambiente, la distruzione di suolo naturalizzato con la cementificazione e, quindi, la temperatura globale. Diciamo che sono aumentati i tre fattori dell'equazione di Commoner P, M e T, quindi anche il risultato, I, in termini di maggior degrado e inquinamento ambientale. Forse, in parte, si è intervenuto in alcuni settori sul fattore T (tecnica), ma sempre in termini di «efficienza» della megamacchina, scontando il cosiddetto effetto rimbalzo: si riducono i consumi relativi e le emissioni delle automobili, ma se ne aumentano la dimensione e la potenza. Si è già accennato a come gli strumenti di controllo e di sanzione siano stati ammorbiditi o resi addirittura impotenti, anche grazie a una ricerca scientifica sempre più integrata nei meccanismi dello stesso Sistema, a come sia stato usato il «bastone», in certi casi non solo metaforico, e si sia ricorso a campagne martellanti contro la sindrome NIMBY e il cosiddetto «ambientalismo del no». Inoltre il Sistema ha saputo assorbire senza particolari scosse quelle innumerevoli micro esperienze alternative che in questi decenni sono state prodotte dal basso da associazioni, comunità, singoli individui. Si tratta del bricolage della strategia lillipuziana dei comportamenti virtuosi individuali o dei percorsi comunitari dei gruppi di acquisto solidale, di forme di autoproduzione e degli ecovillaggi; ipotesi suggestive e lodevoli, ma del tutto insufficienti rispetto all'urgenza e alla dimensione del problema. Questa strategia era nata nel clima del crollo del comunismo e dalla convinzione che una via politica di cambiamento del sistema capitalistico non fosse più né praticabile né auspicabile e che quindi vi potesse essere una terza via, capace di destrutturare dal basso il sistema e i meccanismi nefasti del libero mercato, con iniziative concrete di pratiche virtuose, di consumo critico, di comportamenti individuali e di gruppo amichevoli nei riguardi dell'ambiente. Non si contano in questi decenni i convegni, le pubblicazioni, i manuali sui nuovi stili di vita, che nonostante tutto continuano a essere editati. Eppure dopo tanto tempo sarebbe opportuna un'analisi critica, non tanto per abbandonare questo terreno di buone pratiche, sempre comunque utili, ma per riconoscerne i limiti e porsi il problema di come attrezzarsi per un compito molto più impegnativo, all'altezza dell'urgenza e della complessità della crisi ecologica.

Nel contempo il sistema si è attrezzato per annacquare l'impatto che poteva produrre la «primavera ecologica» se avesse potuto dispiegare pienamente le sue potenzialità innovative. Il gigantesco imbroglio fu costruito in particolare negli ultimi trent'anni mettendo in campo in maniera diffusa e pervasiva operazioni di cosmesi di facciata, il cosiddetto green washing.

Il timbro sulla sostanza ingannevole della svolta ambientalista dell'economia mondiale viene emblematicamente impresso nel 1992 da un personaggio a noi noto, Stefhan Schmidheiny, il magnate svizzero della Eternit, responsabile della devastazione prodotta dal cemento-amianto in mezzo mondo: fu lui il principale ispiratore, in qualità di consigliere di Maurice Strong, Signor Ambiente all'ONU e organizzatore del summit della Terra a Rio, della proposta dello «sviluppo sostenibile» che da quel Summit inondò tutte le contrade del pianeta promettendo una rivoluzione che, in realtà non poteva realizzarsi. In quell'anno Schmidheiny pubblica il libro, Cambiare rotta, che spiega agli imprenditori il modus operandi per concretizzare in affari le ambizioni ambientaliste e sociali fissate a Rio e di lì a poco darà vita alla Fondazione che avrebbe dovuto guidare gli imprenditori in questo percorso apparentemente «virtuoso», il World Business Council for Sustainable Development (WBCSD), diventando così un leader «verde» rispettato dalla comunità internazionale.

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[...] Se vogliamo salvare il pianeta per le generazioni future, questa tendenza distruttiva non solo va arrestata, ma invertita, restituendo alla natura quanto abbiamo preso in prestito. Ma se guardiamo ai decenni che l'umanità ha sprecato dopo la «primavera ecologica» di inizi anni Settanta, non c'è da stare tranquilli. Dunque la prima trappola da evitare è l'illusione che questa formula abbia la proprietà magica di mantenere intatto l'attuale flusso di prelievo di materia ed energia non rinnovabile e di successiva dispersione di inquinanti nell'ambiente. Poiché la natura non offre pasti gratis non c'è modo di sfuggire alla fondamentale scelta che ci consigliava Giorgio Nebbia, se vogliamo lasciare qualcosa per vivere all'umanità futura: occorre passare dall'economia dell'abbondanza all'economia dell'abbastanza, ovvero alla consapevolezza che l'unica merce o energia davvero sostenibile per l'ambiente è quella che riusciamo a non consumare. Ma questa prospettiva è compatibile con il sistema capitalistico neoliberista che si prefigge la crescita illimitata della produzione e dei consumi dei beni e quindi dei profitti?

[...]

Ma, si potrebbe obiettare, questi sono comunque schemi astratti di teoria economica; inoltre c'è sempre lo Stato che potrebbe indurre il mercato a farsi carico del bene comune e della tutela dell'ambiente. Effettivamente tutto ciò veniva promesso proprio cinquant'anni fa dal Presidente della più grande potenza del mondo occidentale, Richard Nixon, in un impegnativo e, in apparenza, lungimirante messaggio sullo stato dell'Unione, il 22 gennaio 1970:

Nei prossimi 10 anni aumenteremo la nostra ricchezza del 50%. La domanda profonda è: questo significa che saremo più ricchi del 50 per cento in termini reali, più benestanti del 50 per cento, più felici del 50 per cento? Oppure significa che nel 1980 il Presidente che starà in questo luogo guarderà indietro a un decennio in cui il 70 per cento della nostra gente viveva in aree metropolitane congestionate dal traffico, soffocate dallo smog, avvelenate dall'acqua, assordate dal rumore e terrorizzate dalla criminalità? [...] La grande domanda degli anni Settanta è: ci arrenderemo a ciò che ci circonda, o faremo pace con la natura e cominceremo a riparare i danni che abbiamo arrecato alla nostra aria, alla nostra terra e alla nostra acqua? Riportare la natura al suo stato naturale è una causa che va al di là dei partiti e delle fazioni. È diventata una causa comune a tutto il popolo di questo Paese. È una causa di particolare preoccupazione per i giovani americani; perché più di noi raccoglieranno le gravi conseguenze della nostra incapacità di agire sui programmi che sono necessari ora se vogliamo prevenire il disastro in seguito. Aria pulita, acqua pulita, terreni incontaminati: questi dovrebbero tornare a essere diritti di ogni americano alla nascita. Se agiamo ora, possono esserlo. Pensiamo ancora all'aria come a un'aria gratuita. Ma l'aria pulita non è gratuita, e nemmeno l'acqua pulita. Il prezzo da pagare per tenere sotto controllo l'inquinamento è alto. Nei nostri anni di disattenzione del passato abbiamo contratto un debito con la natura e ora quel debito chiede di essere saldato.

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L'«APPRODO MANCATO» O LA META SBAGLIATA?



Avviandoci alla conclusione di questo breve saggio non possiamo non riprendere l'importante lavoro collettivo di ricerca storica sull'ultimo mezzo secolo dell'industria italiana pubblicato negli annali Feltrinelli nel 2017 dal suggestivo titolo, L'approdo mancato, titolo che ci sembra particolarmente stimolante e meritevole di alcune riflessioni.

Non possiamo non convenire, per quanto sin qui detto, che l'approdo sia stato mancato e che fondamentalmente l'industria italiana abbia sprecato appunto cinquant'anni. Tuttavia rimane un problema del tutto aperto e controverso: qual è l'approdo auspicabile che non è stato raggiunto? È questo un punto dirimente non solo per la valutazione del passato, ma anche per la progettazione del futuro. È vero che la storia non è maestra di vita, ma una lettura critica sviluppata in profondità del passato può aiutare a capire il presente e, forse, anche a muoversi meglio nel futuro. L'approdo, correttamente, in quel lavoro viene definito non solo in termini quantitativi (prodotto interno lordo a carico dell'industria), ma anche qualitativi (sviluppo nei settori tecnologici di frontiera). Tuttavia, sul piano della consistenza dell'apparato industriale italiano, sembra in diversi autori serpeggiare una sorta di nostalgia per i risultati straordinari del «miracolo economico», che il successivo declino non avrebbe più permesso di raggiungere. Convincente, a questo proposito, sembra invece la constatazione realistica di Franco Amatori nelle conclusioni, in cui si dice «costretto a un riesame» per cui «l'approdo più che mancato sembra "impossibile"». In particolare era ed è impossibile immaginare un'Italia che raggiungesse le performances di un Giappone o di una Germania. Aggiungendo, da parte nostra, che forse non sarebbe neppure stato auspicabile. Del resto la rincorsa, in parte riuscita, del «miracolo economico» si è costruita proprio sulla condizione di arretratezza in cui l'Italia si trovava in partenza, essendo nel dopoguerra ancora prevalentemente Paese agricolo, mentre la Germania già negli anni Trenta aveva visto sopravanzare nella propria economia il settore industriale: il nostro Paese, quindi, aveva di fronte un terreno vergine da dissodare, doveva fornire beni di consumo durevole (dall'automobile alla lavatrice) a una popolazione che ne era quasi del tutto priva. Poiché questa condizione non può riproporsi, sarebbe utile che le classi dirigenti attuali comprendessero finalmente che un nuovo miracolo economico, continuamente evocato a sproposito, è irrealistico e che inseguire a tutti i costi il mito della crescita produce solo distorsioni negative e, alla fine, persino regressive nelle politiche industriali, ambientali e sociali.

Ma il tema centrale è, a nostro parere, quello relativo alla qualità dell'approdo mancato e quindi agli errori dei percorsi dell'industrializzazione italiana che l'hanno ostacolato. I diversi autori sembrano convenire in sostanza sul fatto che il processo di globalizzazione neoliberista sia non solo ineluttabile ma anche desiderabile, e che l'Italia avrebbe mancato l'approdo di una propria piena integrazione perché il sistema Italia non sarebbe sufficientemente competitivo (eccesso di burocrazia, mancanza di infrastrutture, alto costo del lavoro, etc.) e perché la prevalenza della piccola e media impresa l'avrebbe esclusa dai settori tecnologici di frontiera, individuati nel nucleare, nell'elettronica, e nella chimica, anche a causa di un'endemica debolezza delle strutture, pubbliche e private, deputate alla ricerca e di una generale inadeguatezza del sistema formativo.

Ci soffermiamo qui solo sul tema oggetto del nostro saggio, segnalando che nel quadro di una scontata integrazione nella globalizzazione neoliberista, non vengono ovviamente contemplati aspetti qualitativi dello sviluppo economico e sociale, come l'equità nella distribuzione dei redditi garantita da un sistema fiscale capace di combattere l'evasione, il riequilibrio tra i territori, il grado di copertura universale del welfare, il diritto per tutti a un reddito e lavoro dignitosi e a un'abitazione decorosa, tutti temi che nei saggi sostanzialmente vengono ignorati o solo accennati.

Ciò che invece sorprende è che non trovi neppure un accenno tutta la tematica che è oggetto di questo saggio.

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E ORA?



Stiamo scrivendo nella condizione inedita di reclusi in casa, come gran parte dell'umanità, nel tentativo di contenere l'aggressione maligna del Covid 19. Una vicenda, come abbiamo già accennato, sconvolgente. Sembra, dalle reazioni che si avvertono, che ci si stia dividendo tra chi morde il freno per ricominciare al più presto tutto come prima e chi pensa sia opportuna una riflessione profonda sul futuro della presenza umana sul pianeta e che questa debba essere un'occasione da cogliere per «ripensare il mondo» e il rapporto tra noi umani e con la natura. Ovviamente anche noi avvertiamo quest'ultima urgenza, perché il grande esperimento termoindustriale basato sui fossili e il modello neoliberista di società che si sono imposti in quest'ultimo mezzo secolo con tutta evidenza sono giunti al capolinea: ormai quarant'anni fa i cantori del neoliberismo annunciavano una crescita illimitata della ricchezza per tutti, se si fossero sciolte le briglie al libero mercato e ai profitti, con quelle che venivano chiamate, con un salto mortale semantico, «riforme strutturali». E la dose di queste «riforme» è stata davvero massiccia: la sterilizzazione del controllo pubblico sulla Banca centrale, depotenziandone il ruolo di prestatore di ultima istanza per favorire le scorrerie della grande finanza; la dissennata privatizzazione di buona parte dell'industria di Stato; la drastica riduzione della spesa sociale (scuola, pensioni, sanità) sempre per avvantaggiare l'iniziativa privata; la riduzione delle tutele per i lavoratori, con la precarizzazione selvaggia, l'abolizione dell'art. 18, l'emarginazione dei sindacati; infine la rimozione dei vincoli ambientali. Dopo quarant'anni è legittimo tirare le somme: la mitica crescita e il promesso «nuovo miracolo economico» non si sono visti, mentre sono rimaste le macerie sociali e ambientali: sono cresciute la divaricazione inaccettabile tra pochi super ricchi e tanti poveri e impoveriti, sia nelle condizioni di vita che nei diritti, e la devastazione dell'ambiente e degli ecosistemi.

Fatta questa considerazione, per nostra fortuna, non è compito dello storico indicare che cosa si dovrebbe fare per raddrizzare le troppe cose storte. Ci limitiamo, in conclusione, a una breve rassegna di quelle che possiamo registrare come potenziali energie in campo per contribuire a questa impresa.

Innanzitutto, stando al tema di questo saggio, notiamo che da alcuni anni vi è una speciale effervescenza di comitati e di associazioni locali che si muovono sul terreno della tutela ambientale e della salute. Il ruolo di questa miriade di comitati, tra l'altro, sembra sia stato determinante nell'inaspettato risultato dei referendum del 12 e 13 giugno 2011 sull'acqua pubblica e contro il ritorno al nucleare. A differenza del precedente referendum dell'87, da alcuni anni siamo nel periodo in cui chi non vuole che i quesiti referendari abroghino determinate leggi propugna la non partecipazione al voto: così basta aggiungere poco più di un 20% di contrari attivi al 30% circa di non voto ormai da tempo consolidato e il gioco è fatto. Inoltre, a differenza del precedente, in cui tutti i grandi partiti (PCI, PSI e DC), per una ragione o per l'altra, si erano alla fine schierati per votare sì, i partiti di governo in questo secondo caso hanno nei fatti invitato al non voto, mentre il principale partito di opposizione si è collocato nel fronte dei referendari solo all'ultimo momento e con non pochi distinguo e perplessità. La vittoria dei referendum sembrava dunque un'impresa impossibile, poi realizzatasi grazie soprattutto alla campagna capillare transitata attraverso il web e i tanti «NIMBY» che in questi ultimi anni si sono disseminati per il Paese. Una vittoria ancor più clamorosa di quella dell'87 che sfruttò la paura di un'opinione pubblica, sconvolta dalle proibizioni, introdotte dopo Chernobyl anche per il nostro Paese, riguardo al consumo di verdure a foglia larga, di determinati funghi, di latte per i bambini.

Non si può certamente sottovalutare il ruolo che ha avuto il gravissimo incidente di Fukushima del marzo 2011. È probabile che esso, abbia contribuito a deprimere lo schieramento dei filonucleari, appoggiato da tutte le forze che contano, piuttosto che a determinare il passaggio di questi al fronte avverso. Il fatto è che gli eventi giapponesi si sono inseriti in un trend di crescente diffidenza verso le pratiche manipolatorie del sistema della comunicazione al servizio del potere politico ed economico. Una diffidenza confermata dall'opacità delle informazioni sul disastro giapponese, con l'esplicito tentativo di farlo sparire il prima possibile, come se nulla di grave fosse avvenuto.

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A conforto di questi nuovi movimenti il 24 maggio 201512 viene pubblicata l'enciclica Laudato Si' di Papa Francesco, il primo documento ufficiale della Chiesa cattolica che affronta il tema della crisi ecologica rivolto esplicitamente «a ogni persona che abita questo pianeta». Un'enciclica di una rilevanza eccezionale che va letta e meditata per intero, di cui ci limitiamo qui a citare alcuni passi che ne possono restituire il valore:

Il movimento ecologico mondiale ha già percorso un lungo e ricco cammino, e ha dato vita a numerose aggregazioni di cittadini che hanno favorito una presa di coscienza. Purtroppo, molti sforzi per cercare soluzioni concrete alla crisi ambientale sono spesso frustrati non solo dal rifiuto dei potenti, ma anche dal disinteresse degli altri. Gli atteggiamenti che ostacolano le vie di soluzione, anche fra i credenti, vanno dalla negazione del problema all'indifferenza, alla rassegnazione comoda, o alla fiducia cieca nelle soluzioni tecniche.

L'ambiente umano e l'ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale. Di fatto, il deterioramento dell'ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta: «Tanto l'esperienza comune della vita ordinaria quanto la ricerca scientifica dimostrano che gli effetti più gravi di tutte le aggressioni ambientali li subisce la gente più povera» [...] Ma oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull'ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri.

Il problema fondamentale è un altro, ancora più profondo: il modo in cui di fatto l'umanità ha assunto la tecnologia e il suo sviluppo insieme a un paradigma omogeneo e unidimensionale. In tale paradigma risalta una concezione del soggetto che progressivamente, nel processo logico-razionale, comprende e in tal modo possiede l'oggetto che si trova all'esterno. Per questo l'essere umano e le cose hanno cessato di darsi amichevolmente la mano, diventando invece dei contendenti. Da qui si passa facilmente all'idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a «spremerlo» fino al limite e oltre il limite. Si tratta del falso presupposto che «esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti».

Il paradigma tecnocratico tende a esercitare il proprio dominio anche sull'economia e sulla politica. L'economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza prestare attenzione a eventuali conseguenze negative per l'essere umano. La finanza soffoca l'economia reale. Non si è imparata la lezione della crisi finanziaria mondiale e con molta lentezza si impara quella del deterioramento ambientale. In alcuni circoli si sostiene che l'economia attuale e la tecnologia risolveranno tutti i problemi ambientali, allo stesso modo in cui si afferma, con un linguaggio non accademico, che i problemi della fame e della miseria nel mondo si risolveranno semplicemente con la crescita del mercato.

Per questo è arrivata l'ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti. Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell'ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso.


Mentre scriviamo questo saggio in piena emergenza Covid, particolarmente tragica nelle nostre terre, Lombardia e Piemonte, il 22 aprile viene celebrato il cinquantesimo anniversario della Giornata della Terra istituita dall'ONU, una singolare coincidenza, una sorta di cortocircuito che ha stimolato diverse riflessioni, che meritano di essere riprese.

Da un canto, il nesso tra pandemia del Covid 19, come altre zoonosi (malattie di origine animale), e degrado dell'ambiente è stato evidenziato proprio da uno studio prodotto dal Programma per l'ambiente dell'ONU, l'UNEP, focalizzato in sei punti che ci devono far riflettere:

L'interazione dell'uomo o del bestiame con la fauna selvatica li espone al rischio di diffusione di potenziali agenti patogeni. Per molte zoonosi, il bestiame funge da ponte epidemiologico tra fauna selvatica e infezioni umane.

I driver dell'emergenza della malattia zoonotica sono i cambiamenti nell'ambiente, di solito il risultato di attività umane, che vanno dal cambiamento dell'uso del suolo al cambiamento climatico; cambiamenti negli animali o negli ospiti umani; e cambiamenti nei patogeni, che si evolvono sempre per sfruttare i nuovi ospiti.

Ad esempio, sono emersi virus associati ai pipistrelli a causa della perdita del loro habitat per la deforestazione e l'espansione agricola. I pipistrelli svolgono ruoli importanti negli ecosistemi essendo impollinatori notturni e mangiando insetti.

L'integrità dell'ecosistema sostiene la salute umana e lo sviluppo. I cambiamenti ambientali indotti dall'uomo modificano la struttura della popolazione selvatica e riducono la biodiversità, determinando nuove condizioni ambientali che favoriscono particolari agenti patogeni.

L'integrità dell'ecosistema può aiutare a limitare le malattie, sostenendo una varietà di specie in modo che sia più difficile per un agente patogeno emergere e diffondersi.

È impossibile prevedere da dove arriverà il prossimo focolaio o quando sarà. La crescente evidenza suggerisce che focolai o malattie epidemiche possono diventare più frequenti a mano a mano che il clima continua a cambiare.

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