Copertina
Autore Graziano Pozzetto
Titolo Cucina di Romagna
EdizioneMuzzio, Roma, 2004, Cucine regionali 19 , pag. 572, cop.fle., dim. 140x210x35 mm , Isbn 978-88-7413-109-9
PrefazioneTonino Guerra
LettoreLuca Vita, 2005
Classe alimentazione , regioni: Emilia-Romagna
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Indice


Prefazione di Tonino Guerra 11

Un montanaro 11
La Romagna 12
I romagnoli 12
Il dialetto 13
L'identità 13
Osservazioni ai romagnoli 14
Quella riga lunga e blu — Il mare di Tonino Guerra 15

Dediche dell'autore 17

Introduzione 21

Capitolo 1
La Romagna della memoria
di Tonino Guerra e Tino Babini 27

Prima parte

Le ricordanze di Tonino Guerra: feste, osterie, Sangiovese,
piatti e mangiari di Santarcangelo di Romagna e di Pennabilli 27
    Le feste tradizionali di Santarcangelo di Romagna 27
    Le osterie di Santarcangelo di Romagna 28
    Il Sangiovese tipico di Santarcangelo di Romagna 28
    "Continuiamo a mangiare l'infanzia nei piatti della mamma" 31
    L'osteria di Pitrèt 35
    I mangiari dell'osteria 39
    I piatti di Pitrèt e Palmina 40
    Le altre ricette della tradizione santarcangiolese 43
    La trattoria Zaghini 44
    I piatti prediletti di Tonino Guerra 47
    I piatti dell'amicizia di Mafalda e Gianni Fucci 55
    Pennabilli: la cucina della Peppa, ma non solo 59

Seconda parte

Le ricordanze di Tino Babini:
viaggio nella memoria della gastronomia di Russi 68
    Il viaggio a casa di Giulio Ricci detto Juli 68
    Le ricette storiche della nonna Marietta
        raccolte e selezionate da Tino Babini 81
    Le altre ricette russiane raccontate da Tino Babini 98
    I racconti di Tino sulle specialità di Russi 103

Capitolo 2
La cucina storica codificata
e la cucina povera non codificata 115

Prima parte

La cucina storica codificata 115
    Le fonti storiche della cucina romagnola 115
    La cucina marinara (secondo lo storico Piero Meldini) 160

Seconda parte

Viaggio sentimentale tra i mangiari poveri,
non codificati, di un tempo 221

Capitolo 3
Miti e passioncelle gastronomiche dei romagnoli 245


Capitolo 4
I prodotti tipici 283

L'ultimo tegliaio di Romagna 287
La piadina romagnola 291
L'olio extravergine di oliva colline di Romagna Dop 310
Il miele in Romagna 316
L'apicoltura razionale in Romagna
    i fratelli Silvio e Pietro Gardini 325
Il sale artigianale "dolce" di Cervia 328
Raviggiolo o ravaggiolo romagnolo 331
Squacquerone di Romagna 334
I formaggi pecorini 343
Razza bovina romagnola  352
La razza suina mora romagnola 371
Il salame romagnolo 380
Il castrato (castre', castron) 381
Il puledro da carne 387
Il pesce dell'Adriatico settentrionale 388
Pesca e nettarina di Romagna Igp 389
Pesca romagnola Igp 391
Nettarina romagnola Igp 392
La pera dell'Emilia-Romagna Igp 395
Le ciliegie di Cesena 398
Cachi o loti di Romagna Igp 399
Le fragole  400
Lo scalogno di Romagna Igp 401
Casola Valsenio felix: erbe officinali e aromatiche
    e frutti dimenticati 405
Le erbe aromatiche 405
I frutti dimenticati 409
Il sedano gigante di Romagna 417
Il carciofo violetto delle colline romagnole 417
Il cardo gigante di Romagna 419
La melanzana violetta lunga di Romagna 421
La zucca gialla 422
Marroni e castagne delle colline romagnole 430
Il marrone del Mucello Igp 431
Prodotti vari 438
    Lischi selvatici 438
    Fungo prugnolo 438
    Tartufi di Romagna 440
    "Bizula" o "bizulai" 442
    Il bartolaccio ("bartlaz") di Tredozio 443
Le 4 "s" della tradizione: saba, sabadoni, savor, sugali 444
Il garagolo 453
Prodotti agroalimentari tradizionali dell'Emilia Romagna 454
I prodotti Dop e Igp della Romagna 455

Capitolo 5
I prodotti eccellenti 457

Il violino di castrato di Brisighella ("viulen 'd castre") 457
Il formaggio conciato di Brisighella 458
Il pecorino della fossa dell'abbondanza di Roncofreddo 460
Il formaggio alle foglie di noce dei Brancaleoni 464
Il formaggio al fieno di Roncofreddo 467
Il formaggio nero o alla cenere dei Brancaleoni 467
La coppa di maggio di Roncofreddo 468
L'aceto antico di vino Albana passito di Roncofreddo 469
Cinta senese e mora romagnola di fattoria medioevale 471
I prodotti ovini 479
I prodotti caprini 480
Il fenomeno "Burson" di Bagnacavallo 482
Liquori e rosoli di Angela e Leonardo Spadoni
    di Coccolia di Ravenna 489
Le farine del Molino Spadoni di Coccolia di Ravenna 489

Capitolo 6
I vini di Romagna 499

Un vino sempre più importante 499
Zone vitivinicole 503
Albana di Romagna Docg 504
Albana di Romagna Docg Secco 505
Albana di Romagna Docg Amabile e Dolce 506
Albana di Romagna Docg Passito 507
Il vitigno Sangiovese 512
Sangiovese di Romagna Doc 513
Sangiovese di Romagna Novello 515
Sangiovese di Romagna Superiore 516
Sangiovese di Romagna Riserva 516
Trebbiano di Romagna Doc 522
Pagadebit di Romagna Doc 524
Romagna Albana spumante Doc 527
Cagnina di Romagna Doc 529
I grandi vini rossi da tavola della Romagna 530
I grandi vini bianchi da tavola della Romagna 531
Colli d'Imola Doc 531
Colli di Faenza Doc 538
Colli Romagna centrale Doc 542
Colli di Rimini Doc 547
Colli di Rimini Rébola Amabile o Dolce 550
Colli di Rimini Rébola Passito  552

Bibliografia 555
Ringraziamenti  565
Indice delle ricette 567

 

 

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Pagina 316

Il miele in Romagna

Senza esagerazione la Romagna è la grande patria degli apicoltori, piccoli o grandi, tanto è vero che gli associati all'Ara vanno ben oltre il numero di 400.

La grande tradizione romagnola è legata a due storiche famiglie, la famiglia dei Gardini di S. Pietro in Campiano e la famiglia dei Carlini di S. Arcangelo di Romagna. Ogni famiglia ha espresso le proprie peculiarità attraverso la creazione di rispettive arnie.

La famiglia Gardini è stata la prima in Romagna e in Italia a realizzare il nomadismo delle api, a spostare cioè gli alveari dalla campagna alla collina.

La famiglia Carlini ha il vanto di avere iniziato un vero e proprio marketing sia del miele che degli altri prodotti dell'alveare.

Entrambe le famiglie hanno ideato i primi strumenti legati all'estrazione del miele e alla cura degli alveari, in una versione più razionale e moderna, superando una certa rusticità: tronchi cavi quali residenza temporanea delle api, che a ogni fine stagione venivano regolarmente uccise al fine di consentire l'estrazione del miele.

Alcuni importanti e qualificati apicoltori romagnoli (come per esempio la famiglia Brusi di S. Zaccaria)) sono stati per anni i fornitori delle più importanti industrie dolciarie nazionali per la produzione di panettoni, torroni e dolci vari. Ciò ha rappresentato in gran parte, lo sbocco delle produzioni.

Un tempo, per diffusa tradizione, le arnie erano presenti nelle aie contadine. Si è poi realizzata e consolidata un'attività di tipo nomade, che ha costituito maggiori produzioni e marcate selezioni produttive, fino ai giorni nostri. Solo negli ultimi tempi la produzione di miele è caratterizzata da molti mieli monoflora, ottenuti quasi esclusivamente da un solo fiore.


Le tipologie tradizionali di miele

L'agricoltura evoluta e specializzata, assai diffusa nelle campagne romagnole, legata alla coltivazione della erba medica, consentiva la produzione del classico miele di erba medica.

Mentre nelle zone collinari regionali, le cui coltivazioni erano legate a ritmi assai più lenti e statici, le produzioni tradizionali erano legate alla lupinella, alla sulla, al trifoglio. Menzione speciale merita il miele di acacia o robinia, fra i più diffusi, la cui produzione romagnola, negli ultimi decenni, si è incrementata a seguito del sistematico abbandono delle colline da parte di contadini e agricoltori. In passato rappresentava una peculiarità delle regioni settentrionali (zone prealpine e collinari). Un patrimonio comunque in estinzione.

Altra tipologia tradizionale campagnola è quella del miele di tiglio, abitualmente prodotto accanto alle ville antiche, caratterizzate da alberi secolari nei dintorni.

Il millefiori è miele prodotto sia in campagna che in collina, la sua denominazione deriva dal raccolto delle api di nettari di fiori diversi.


Le tipologie moderne del miele

Riguardano il miele di girasole prodotto in collina; le melate di pineta delle pinete ravennati; la melata di quercia, ovviamente collinare; la melata di abete, forse la più pregiata fra le melate di alta montagna, legata naturalmente alle abetaie storiche; la melata di bosco, collinare, che rappresenta il "millefiori" delle melate.

Le melate sono sempre prodotte dalle api, ma a differenza di altri mieli, sono ricavate non dal nettare, bensì dalla raccolta sulle foglie degli alberi, sui tronchi, dai residui zuccherini lasciati dagli afidi. Tali foglie infatti da opache divengono lucide per la presenza della melata prodotta dagli insetti, che si presenta appiccicosa. Le api si limitano a raccogliere la melata, assemblandola e impastandola con acqua, portandola nelle arnie trasformandola in un eccellente miele.

Altri mieli, più particolari, sono quelli di radicchio, colza, cipolla, ravanello, quasi introvabile quello di basilico.

Si tratta di colture agricole specifiche legate alle singole piante di origine.

Il quadro dei mieli regionali si perfeziona considerando i mieli di tarassaco e ciliegio.

Non mancano altri mieli, che vengono ottenuti da apicoltori romagnoli che portano i loro alveari in altre regioni italiane. Le operazioni di estrazione del miele e di relativo confezionamento avvengono in Romagna. Si tratta in particolare di mieli di agrumi come quello di arancio (ottenuto dal fiore di zagara) e di limone; ma anche di mieli di eucalipto, rosmarino, corbezzolo e altri.

Nella lontana tradizione l'attività era promiscua e secondaria o complementare rispetto ad altre attività (agricola in primis); col tempo sono via via emerse figure familiari, professionali, specializzate grazie a un gruppo di produttori che – negli ultimi decenni – sono divenuti storici protagonisti del settore. Un settore che non riguarda solamente il miele, ma l'importante e ragguardevole allevamento di api regine, campo nel quale la Romagna è leader internazionale; altresì la produzione di materiali apistici (in proposito i Lega di Faenza vanno ricordati quali leader mondiali) e la produzione di pappa reale, propoli, polline. Non va dimenticata la commercializzazione diretta in tanti affollati mercatini locali ma anche gli appuntamenti specializzati che hanno contribuito a trasformare la tradizionale figura dell'apicoltore.

I produttori romagnoli sono tanti, parecchie diecine per intenderci, e forniscono i prodotti dell'alveare in tutto il paese, considerando anche le industrie di trasformazione, confermando ancora oggi un ruolo assoluto di leadership italiana.

Tuttavia sono pochissimi coloro che producono mieli monoflora di pregio, che peraltro vengono commercializzati direttamente.

Tra tutti coloro che si distinguono per le attività di cui sopra merita di essere segnalata l'Apicoltura Brusi di Cervia.

L'attività dei Brusi è iniziata agli albori del 1900, grazie al nonno Albino, è proseguita nei decenni del XX secolo dal padre Ivan, dallo zio Giuseppe e dalla mamma Rosina. Sede storica quella di S. Zaccaria, sede operativa a Casemurate, sede commerciale a Cervia (via Dei Mille, 29 – tel. 0544/71679) con relativo punto vendita in piazza C. Pisacane sempre a Cervia.

Quella dei Brusi, di ieri e di oggi (Cesare, 3a generazione, ne è l'attuale titolare), è una esperienza artigianale rappresentativa ed esemplare di uno dei migliori e preparati apicoltori romagnoli.

Infatti accanto al lavoro di apicoltore colto ed evoluto, Brusi è impegnato (unitamente alla famiglia e al cugino Giovanni) in una intensa attività di divulgazione del mondo delle api (presentazioni, degustazioni, serate a tema, lezioni, manifestazioni varie). Ricordiamo la manifestazione a Cervia nel mese di agosto di ogni anno rivolta alle migliaia di turisti che affollano le spiagge cervesi, denominata "La smielatura - una dolce serata".

Con la collaborazione di altri colleghi Brusi porta in piazza il "laboratorio" del miele, nel quale si mostra, raccontandola, la fase conclusiva della estrazione del miele dal favo.

"La scena è suggestiva" come racconta Laura Vestrucci ne L'oro in tavola, "la sera sotto i riflettori spiccano le tute gialle degli apicoltori che spiegano proprio tutto quello che si vuole sapere sul miele e offrono assaggi e degustazioni del loro prodotto. Nella edizione agosto 1999 sono stati distribuiti ben cinquanta chili di miele appena estratto per la gioia di almeno seimila convenuti".

Nella tradizione cervese, ma non solo, il miele viene utilizzato nella preparazione della piada romagnola, per una più apprezzabile doratura e per esaltarne la morbidezza.

Una buona e salutare consuetudine è quella di iniziare la giornata con un cucchiaino di miele, corroborante ideale, immediatamente fruibile, grazie alla sua connaturata digeribilità e assimilabilità. Particolarmente indicato nei disturbi delle vie respiratorie, con il latte, prima di coricarsi.


Istruzioni per l'uso

Il miele si presenta in una composizione liquida o tendenzialmente fluida, ma anche cristallizzato; in questo caso basta tenere il vasetto in acqua calda o a bagnomaria (temperatura non superiore a 45°) quel tanto che basta al fine di ritrovarlo liquefatto. Un buon miele si presenta liquido, esprime profumi gradevoli, totalmente privo di acidità, si conserva a temperatura ambiente. È nutriente. digeribile, nutrizionalmente ricco e complesso, composto soprattutto da glucidi, nonché acqua e in minima parte di proteine, ma non solo. Esprime tradizionalmente proprietà medicinali.

Nelle preparazioni può essere utilizzato per raddolcire: valido nelle composizioni agrodolci, può sostituire lo zucchero in tanti casi nella medesima quantità, con l'avvertenza però di contenere del 30% circa altri ingredienti grassi come burro e latte. La cottura dei dolci al miele, se eseguita al forno, va perseguita a forno moderato, senza superare i 180°, altrimenti il miele si caramella e si scurisce. Nella preparazione di gelati e semifreddi il miele utilizzato va sciolto in acqua o latte a bagnomaria, prima di unirlo al resto.


Il croccante

Il bravo collega sarsinate Vittorio Tonelli, scrittore e ricercatore della Vallata del Savio, racconta nel suo A tavola con il contadino romagnolo che nella casa benestante si faceva spesso il croccante con mandorle, zucchero e miele (nel rispettivo ordine di un chilo, mezzo chilo, due etti).

Qualche volta però anche nelle famiglie meno abbienti si preparava una tale ghiottoneria, riducendo al minimo il consumo dello zucchero. Questo, con o senza miele, si caramellava in una casseruola e riceveva le mandorle tritate, per amalgamarsi in una pastella da schiacciare poi sul marmo (unto) della tavola, se c'era, o su un foglio di carta oleata, sopra il tagliere.


Bustrengo dolce (migliaccio con sangue di maiale)

Anche questa ricetta è raccontata da Vittorio Tonelli.

Prevede i seguenti ingredienti: 1 lt di sangue di maiale; 1 lt e mezzo di latte; 6 uova; 3 hg di zucchero; 3 hg di miele; 1 hg di cioccolata in polvere; 1 hg di mandorle dolci spellate (o noci, ma queste sono più difficili da predisporre); 3 bustine di vaniglia; due pizzichi di sale; 1 bicchiere di vino santo (o di una mistura, a piacere, di anice, rosolio, rum), una sfoglia matta.

Nei dintorni di Valbiano, luogo originario della ricetta, entravano in gioco delle varianti: l'assenza delle mandorle, il ricorso a noce moscata e cannella, il latte in precedenza bollito con scorza di agrumi; il dimezzamento del numero di uova impiegate da lavorare con lo zucchero; oppure s'accentuava la presenza di sangue, in una composizione senza mandorle.

Impastati e mescolati gli ingredienti prescelti, si procedeva a una cottura a bagnomaria con una pentola colata in un'altra più grande, per una durata di 2 ore circa, agitando in continuazione il composto con un mestolo.

A parte si preparava una piccola sfoglia con farina-acqua-sale, per poter "pavimentare" una teglia molto unta di strutto e capace di accogliere l'impasto, quando s'attaccava al cucchiaio. La teglia provvista di coperchio riceveva il fuoco sotto e sopra nell'arola, o sul pavimento, per una cottura di circa un'ora. Per verificarla ci si affidava alla prova del coltello infilzato; quando ritornava su pulito, il migliaccio si considerava cotto e si metteva a raffreddare, prima d'essere diviso in piccoli rombi spolverati di zucchero.

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La zucca gialla

Storicamente è pianta commestibile con alterne fortune storiche, da fasti rinascimentali delle Corti dei Gonzaga a Mantova e degli Estensi a Ferrara a un ruolo più popolare che negli ultimissimi secoli ha svolto nel Veneto, nel ferrarese e anche in Romagna, sino a una minore consuetudine gastronomica degli ultimi decenni. Tuttavia la zucca resta protagonista in splendidi piatti di radice tradizionale, proposti anche in termini più raffinati ed evoluti da chef italiani di valore.

Come racconta lo studioso Alberto Capatti, verso la metà del XVI secolo il naturalista e medico marchigiano Costanzo Felici, operante nel riminese, nel suo Del'insalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo all'homo, ricettario prevalentemente di verdure legato a consuetudini locali (ma anche esotiche e lontane), ricorda come la zucca rappresentasse un grande e consueto cibo, proposto in minestra, in torte, frittelle, con la carne, con l'olio, con il formaggio, con le uova e in altri modi e rileva testualmente: come possono ben considerare i buoni cuochi.

I codificatori del rinascimento ferrarese la riservavano al ripieno dei tortelli conditi con formaggio duro e marzolino, a mo' di farcitura a carne di cappone; nei contorni o a supporto a sapori importanti unitamente a carni pregiate, droghe, zucchero e zafferano, nell'ambito di un imperante gusto rinascimentale oggi compreso e apprezzato da pochi.

Per Bartolomeo Scappi (negli ultimi decenni del XVI secolo) la zucca diviene contenitore pieno, profumato, speziato per carni di pregio, ma non solo; è destinata a cotture in pentola e al forno.

Anche il bolognese Bartolomeo Stefani a metà del XVII secolo esprime grande stima nella zucca.

Con il secolo XIX la zucca diviene protagonista di un consumo plebeo congeniale alle mense ruspanti. Tanto che alla fine dell'Ottocento l'Artusi si limita a proporla nell'omonima zuppa (ricetta n. 34) prima cotta in brodo e poi passata al setaccio, indi proposta in minestra con una base di burro e farina, altro brodo e la zucca passata, versata su dadini di pane fritto con parmigiano grattugiato a parte. Una proposta che il forlimpopolese esige composta di brodo buono, valida per qualunque tavola, con il merito di essere rinfrescante.

L'Artusi propone la zucca gialla tra le torte e i dolci al cucchiaio, nell'omonima torta (ricetta n. 640), piatto autunno-invernale, nella migliore stagione della zucca, eliminandone inizialmente la componente acquosa riducendola a 1/3; messa poi a bollire e a cuocere nel latte per circa mezz'ora, poco meno o poco più. A parte si pestano finemente le mandorle sbucciate con lo zucchero in un mortaio.

La poltiglia ottenuta viene unita alla zucca cotta: ancora calda con altri ingredienti (burro, pangrattato, sale, cannella in polvere), una volta raffreddata si uniscono anche le uova; ricorrendo come di consueto nelle torte artusiane alla pasta matta.

Inevitabile una riflessione. Che l'Artusi racconti la zucca in appena due ricette rappresenta una conferma, anche nel nostro Paese, che la borghesia italiana, nuova classe dirigente di fine Ottocento, ha abbandonato la zucca negli usi di cucina, relegandola a consumo popolare delle classi subalterne, e lasciandola in eredità alle cucine regionali, in poche personalissime e deliziose ricette.

Per i gastronomi e per i correnti consumatori la zucca gialla (ma anche altre tipologie di zucca) è un ortaggio amato per la sua bontà gastronomica e il suo gusto "dolce" (di origine rinascimentale), per le sue peculiarità dietologiche, in quanto cibo poco calorico, saziante, di rapida cottura, ricco di vitamine e di sostanze antiossidanti.

Riconoscibile e caratteristica per la buccia variamente e vivacemente colorata, la polpa gialla o aranciata, farinosa, compatta e soda, auspicabilmente priva di filamenti, utilizzata perfettamente matura in modo da coglierne la migliore e ottimale dolcezza a seguito di cottura, votata a un stagionale e connaturato consumo autunno-invernale, di buona conservabilità, ovviamente a zucca intera, protetta dalle basse temperature, posta in alto rispetto al terreno; se tagliata necessita di un consumo entro alcuni giorni.

Le zucche meritano di essere simpaticamente ricordate anche per i loro semi, più o meno calibrati, che salati e abbrustoliti al forno divengono uno dei passatempi tradizionali dei romagnoli, che Libero Ercolani chiama "brustulen".

Grosso modo le varietà presenti si dividono in due gruppi, la "maxima", o Marina di Chioggia, zucca grossa, rugosa, massiccia, schiacciata ai poli, globosa, di buccia solitamente verdastra, di caratteristica polpa gialla o arancione, di notevole pregio culinario, matura a fine estate, del peso corrente dai 3 ai 5 kg (ma che può raggiungere grossi volumi e pesi da record molto consistenti), di buccia soda e integra (da rifiutare se presenta anche parziale mollezza o marciume incipiente, nonché negative venature verdognole). Dello stesso gruppo le zucche cosiddette piacentine e mantovane.

L'altro gruppo invece è quello delle zucche "moscate", di forma allungata, anche incurvata e cilindrica, tra le quali va ricordata la violina ferrarese e la piena di Napoli, anch'esse di buon pregio gastronomico, di pasta gialla e spessa o pastosa. Sul mercato non mancano altre varietà, seppure assai meno presenti.

Le zucche sono ortaggi che temono le gelate, piantate annualmente, dopo le gelate primaverili, sono di coltivazione semplice e rustica, in quanto non esigono terreni nobili e ricchi; fioriscono dopo 4 settimane; sono piante generose, anche nella produzione di fogliame, che tende ad arrampicarsi e ad ampliarsi divenendo invadenti.

Alcune varietà sono coltivate e lasciate crescere in qualità di piante ornamentali.

Va altresì ricordata una particolare tipologia di zucca, non commestibile, destinata peculiarmente a divenire zucca da vino ("zoca butaza"), zucca bottaccia, zucca del pellegrino, che divenuta matura e legnosetta veniva svuotata e utilizzata come recipiente portatile, che pur si manteneva fresco nel tempo, di acqua o aceto, come usavano un tempo i lavoratori nei campi più umili, ma anche vino o di mezzo vino o "torchiatura" (scarico di colore e aspro per eccesso di acidità e tannini), altresì come contenitore di aceto in casa, o per raccogliere, tutelandolo, il sale, addirittura di piccoli pesci da parte dei pescatori, altresì come un arrangiato galleggiante; l'uso maggiore restava comunque una sorta di primitivo "thermos" per bevande da utilizzare all'aperto da parte dei braccianti e degli scariolanti, ma anche dei viaggiatori e pellegrini.


La zucca al forno

Una cottura tradizionale perseguita ancora oggi per la sua validità, ma anche quale supporto (la polpa) di altre preparazioni (quali purè, torte, ripieni e compensi, creme ecc.), è quella al forno, con la zucca tagliata a pezzi o a fette con relativa buccia, proteggendola con fogli di alluminio in modo da evitare bruciature o eccessivo rinsecchimento della polpa, garantendo nel contempo una marcata asciuttezza della zucca che ne marca la dolcezza, ideale base per preparazioni interessanti.

Già così la zucca è buonissima, assai gratificante e dolce (qualche raffinato ricorre a burro, olio extravergine di oliva e poco sale, ma sorvolerei), caramellata, "biscottata" degustata ancora calda.


La zucca fritta

Anche se la consuetudine è più ferrarese che romagnola, è comunque tralasciata da tempo, si tratta pertanto di una proposta per amatori tradizionali, che andrebbe provata almeno una volta. Eliminata la scorza, la zucca gialla ripulita si taglia a fette grosse un dito, appena salate (o salate sul piatto), leggermente infarinate (un tempo anche in questo caso si ricorreva alla disponibile farina da polenta), poi fritte nello strutto bollente (ovviamente l'alternativa ottimale è offerta dall'olio extravergine di oliva). Poste infine sulla carta gialla o assorbente e subito servite. La zucca può essere fritta anche senza infarinature di sorta. Consigliabile mettere in anticipo sotto sale i pezzi per eliminare l'acqua di vegetazione. Può entrare nei fritti misti e nei contorni ad arrosti di carne.


Tortelli di zucca

È piatto montanaro presente qua e là nelle colline romagnole. Predisposta la sfoglia, solare, sottile, setosa, giustamente morbida, tagliata a quadrettoni con la rotellina dentata, su ognuno di essi viene posto una porzioncina di compenso e chiuso a tortello (piuttosto grandicello) secondo consuetudine.

Il ripieno è composto dalla zucca, cotta al forno o bollita (in questo caso occorre ben strizzarla dall'acqua, o comunque asciugare la polpa di zucca sulla bocca del forno), unita a patate bollite e schiacciate, lardo battuto (ma anche burro appena sciolto o 1 o 2 cucchiai di olio extravergine di oliva), formaggio grattugiato (pecorino o misto stagionati, oppure parmigiano reggiano), poco sale, eventualmente poco pepe macinato al momento, odore di noce moscata, eventualmente qualche erbetta odorosa sobriamente utilizzata come maggiorana, anche cipolla, uovo per legare, oppure un goccino di latte.

Parte degli ingredienti elencati nel compenso, e precisamente cipolla e lardo si mettono in precedenza a rosolare delicatamente, quasi a fondere assieme, indi vengono uniti e impastati con gli altri ingredienti.

I tortelli di zucca, dopo la giusta cottura in acqua salata, vengono proposti in vari modi, comunque rispettosi e in sintonia con i loro sapori e fragranze, come per esempio un sugo semplice e delicato a base di pomodoro e basilico spezzato a mano all'ultimo momento sul piatto fumante, oppure a base di funghi porcini di breve e lieve cottura, saltati in padella, verso fine cottura, con i tortelli scolati al dente.


Cappelletti di zucca

Vengono talvolta proposti nella piana ravennate, o Romagna estense di confine ferrarese, pertanto possono motivatamente apparire come "cugini" dei cappellacci di Ferrara, sicuramente meno opulenti e meno complessi di quelli, quindi più semplici e di minor blasone.

La zucca, tagliata a pezzetti, viene cucinata al forno, la polpa ottenuta viene impastata con ricotta fresca vaccina, parmigiano grattugiato, uova per legare, farina per equilibrare la consistenza dell'impasto, odore di noce moscata, poco sale.

Dalla tradizionale sfoglia fresca all'uovo si ricavano i quadretti da farcire dosatamente col ripieno e da richiudere a cappelletto secondo consuetudine.

Lessati e conditi i cappelletti di zucca possono essere delicatamente conditi con burro e salvia, evitando auspicabilmente di ricorrere alla sformaggiata di parmigiano reggiano.

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