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| << | < | > | >> |Indice3 Prologo Il virus del disumano 11 I. Humanitas/Dis-humanitas Le radici nel passato, le sfide del presente 21 II. Tra «non più» e «non ancora» Il mondo sconvolto di Hieronymus Bosch 33 III. Il tempo del Leviatano La restaurazione dell'umano mediante il disumano 45 IV. Il ritorno del Ballestero Ovvero la «morte del prossimo» 59 V. In virus veritas 72 VI. Necropolitica 86 VII. Sfondamenti Alle soglie del post-umano 98 VIII. Macchine che pensano? 111 IX. Ibridazioni: alla fine di un ordine 122 Epilogo Finis terrae |
| << | < | > | >> |Pagina 3Prologo
Il virus del disumano
Dai pannelli divelti si affaccia una ragazza, il capo coperto da un foulard fradicio di pioggia. Trema, di freddo e di paura. Quasi per proteggersi, tiene al seno una bambina di pochi mesi. Saluta una delle donne piú esagitate, una signora in carne, che indossa un giubbino di pelo grigio. La conosce. «Stanotte partiamo. Per favore, non fateci del male». La signora ascolta in silenzio. Poi muove un passo verso la rom, e sputa. Sbaglia bersaglio, colpisce la faccia della bambina. L'ispettore, che stava sulla traiettoria dello sputo, incenerisce con lo sguardo la donna. Tutti gli altri applaudono. «Brava, bravissima». Era il 14 maggio del 2008: l'ultimo atto del pogrom di Ponticelli, popoloso quartiere nella degradata periferia orientale di Napoli, il campo rom di via Malibran dato alle fiamme, le donne dei casermoni accanto, pregni di amianto, in prima fila, i ragazzotti - manovalanza del clan Sardo -, a portare le molotov con i motorini smarmittati... Ora chi passasse di lí potrebbe vedere a poche decine di metri da quella terra di nessuno in cui si svolsero i fatti, a fianco della grande arteria chiamata l'Argine, il gigantesco affresco di Jorit intitolato Ael. Tutt'egual song' e criature... e sembra un contrappasso. | << | < | > | >> |Pagina 9Nel lutto e nel dolore, confinati a noi stessi, abbiamo dovuto imparare che il virus - come è stato scritto - «nella sua radicale inumanità è l'altro, del tutto sconosciuto, che tuttavia non è diverso da noi».Di questi successivi spostamenti di campo e di scala del disumano nella sua marcia a ritroso nella decostruzione dell' humanitas classica, il libro offre una sia pur rapsodica mappa. Piú una ricognizione rabdomantica, attenta alla ricerca dei punti sommersi di irruzione del negativo, che non alle invarianti visibili della normalità. È vero, infatti, che umano e disumano hanno sempre convissuto, intrecciati nella quotidianità travagliata di una storia universale traboccante di umori feroci come di (più rare) sublimi generosità, all'insegna del furore e dell'amore spartiti con iniqua giustizia. Ma è anche vero che ci sono dei punti e dei luoghi, del tempo e dello spazio, in cui quell'equilibrio si spezza. In cui, per dirla con Bobbio , la dialettica tra «ideali e rozza materia» s'inceppa. E la seconda - la rozza materia - non trova piú limite né compassione nei primi. Sono i tempi sospesi. Le terre di nessuno. I contesti del «non piú» e «non ancora», quando un ordine - un paradigma, un sistema di valori, una consolidata visione del mondo - va in rovina. Si dissolve senza che un nuovo modello di Ordine e di Principi si profili a sostituirlo. | << | < | > | >> |Pagina 15Vorrei introdurre questo tema con la citazione di un breve testo. D'autore. Dice: «Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach o Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz». Sono parole di George Steiner , «un umanista strenuo che in ogni sua pagina denuncia la fine dell'umanesimo». Compaiono nella Prefazione al suo Linguaggio e silenzio, ed evocano il vero punto di rottura tra il prima e il (nostro) dopo («Noi veniamo dopo»): Auschwitz. Il luogo in cui la lunga vicenda del pensiero occidentale ha subito la propria catastrofica lacerazione con l'irruzione massificata del disumano nell'umano (irruzione nel pensiero, non solo nella storia, dove non sarebbe un novum). Il disumano teorizzato e programmato razionalmente (mediante quella stessa ratio che nella visione classica avrebbe dovuto fondare la philantropia).| << | < | > | >> |Pagina 18Che cos'altro ci mostra lo spettacolo atroce, protratto per anni, della morte di massa dei migranti nei nostri mari osservato prima con pena poi sempre piú con disattenzione, assuefazione, fastidio infine, e persino odio, se non l'immagine di questa riduzione dell'uomo a nulla per l'altro uomo? E la vicenda avara dell'accoglienza, prima subita a denti stretti, poi via via rifiutata, negata, osteggiata, in tutto il continente europeo mobilitato per ri-confinare, contrastare, ridurre e possibilmente estinguere i flussi anche se dietro quella estinzione c'è - lo sappiamo ma ci rifiutiamo di pensarlo - la morte di massa? Che cos'è se non la riproposizione in qualche modo omeopatica del medesimo paradigma della de-umanizzazione dell'Altro sperimentato allora sulla scala abnorme dell'eccezionalità e fattosi ora quotidianità, anche se in forma meno sconvolgente perché non guidato da un'esplicita ideologia del disumano e da una dichiarata intenzionalità della distruzione?Ricompare qui lo stesso silenzio della parola. La medesima insostenibilità dello sguardo. L'identica astensione del pensiero nella sua vocazione universale, spinta fino all'aberrante tentazione giudiziaria di configurare come delitto la pratica di chi salva - del salvataggio in mare a opera dei «volontari della vita» - e di inaugurare, come mai prima nella storia, una sorta di crimine di umanità dopo che a Norimberga si erano condannati i crimini contro l'umanità. È cronaca - e pratica - della «civilissima Europa» che, per lo meno dal vertice di Parigi del 27 agosto 2017, ha fatto del contrasto alle Organizzazioni non governative che operano nel Mediterraneo una propria politica condivisa, e che ha addirittura istituito e finanziato una missione dal nome esemplare nella sua allure militare, Frontex, per condurre la propria guerra contro i dannati della terra che si avventurano nel Mare Nostrum. È stato scritto (da Ezio Mauro) - e condivido pienamente - che quello a cui si è assistito è stata una vera e propria «inversione morale»: con la damnatio actionis delle Ong, con l'introduzione surrettizia del cosiddetto «reato umanitario» (che non è, appunto, un crimine contro l'umanità ma di «eccesso di umanità»), addirittura con lo sdoganamento dell'espressione «estremismo umanitario» rivolta a chi «per ideologia» pensa «solo» (sic) al salvataggio delle vite senza farsi carico della ragion di Stato o di partito..., con tutto ciò si è prodotto una sorta di rovesciamento di tutti i valori: quanto era considerato vizio diventa virtú (l'indifferenza per la vita altrui) e ciò che era virtú (l'altruismo, la solidarietà, la benevolenza) diventa colpa. Per Ia prima volta, su iniziativa dello Stato, l' Humanitas appare extra legem e in qualche caso contra legem. | << | < | > | >> |Pagina 51Zoja ci dice appunto che «col volgere del secolo XX in secolo XXI» si è superata ancora la seconda soglia dopo quella della morte di Dio, si è consumata una rinnovata morte del prossimo: l'«uomo metropolitano» - non l'uomo accecato da ideologie perverse, non l'uomo travolto da una qualche utopia negativa, ma l'uomo «normale» che abita lo spazio centrale dell'universo contemporaneo, quello in cui risiede egemone lo spirito del mondo - «si sente sempre piú circondato da estranei». Non porge piú lo sguardo all'altro - non lo «guarda» come fosse un uomo - e non è «visto» (come tale) dall'altro. È l'uomo che ha smarrito anche l'ultimo briciolo di empatia. Che ha rifatto dell'egoismo da vizio che era una virtú teologale.Difficile dire dove e quando abbia avuto inizio quella lunga marcia dell'estraneità egoistica ed egocentrica verso la sua attuale egemonia (intesa, per citare Luciano Gallino , come «potere esercitato con il consenso di coloro che vi sono sottoposti»). Forse già nel 1947 - subito dopo la fine della prima ondata di «peste nera» -, come scrive lo stesso Gallino, sulle pendici di «una montagnola svizzera», il Mont Pèlerin, dove un gruppetto di economisti allora relativamente controcorrente ( Friedrich von Hayek , Milton Friedman , Maurice Allais...) aveva fondato la Mont Pelerin Society (Mps), un think tank votato all'affermazione di un credo assoluto incentrato sulla minimizzazione dell'intervento dello Stato, sulla piena libertà di circolazione dei capitali e soprattutto su un individualismo atomistico e assoluto che riduce l'uomo a mero soggetto economico e ne cancella il legame sociale in nome della competitività per l'utile (tutte cose che sul piano storico, ma non necessariamente logico, si collocherebbero agli antipodi rispetto ai totalitarismi novecenteschi). O forse nel 1987 quando Margaret Thatcher, sintetizzando quel dogma, proclamò che la società non esiste, esistono solo individui («There is no such thing as society. There are individual men and women»), e disvelò ufficialmente e pubblicamente il nuovo statuto del mondo entrato ormai compiutamente nell'epoca della finanziarizzazione: di quella forma estrema e probabilmente terminale del capitalismo in cui - è ancora Gallino - domina la «ricerca ossessiva di sempre nuovi campi della vita sociale, dell'esistenza umana e della natura da trasformare il piú rapidamente possibile in denaro». | << | < | > | >> |Pagina 59Capitolo quinto
In virus veritas
Mentre gli occhi delle sentinelle dell'odio erano ancora tutti puntati sui barconi nel canale di Sicilia e sui porti da sigillare per fermare l'invasione, il «nemico» ha colpito a tradimento, prendendoci alle spalle - anzi, dal di dentro - e muovendo sul terreno, invisibile ai radar, dell'infinitamente piccolo. Un organismo piccolissimo - un virus, il più piccolo tra tutti gli esseri viventi, qualche milionesimo di millimetro, fino a 1000 volte piú piccolo di un batterio, tanto piccolo da essere invisibile al microscopio ottico e da passare attraverso la ceramica dei filtri - si è messo in viaggio lungo le rotte euro-asiatiche. Ha percorso in business class le filiere lunghe che marcano le linee di traffico del capitalismo delle reti e delle piattaforme di ultima generazione, piombando come un fulmine a ciel sereno nel mezzo nella nostra apparentemente normale quotidianità. E alla velocità della luce - spazzando via d'un colpo la superficie piatta di una civilizzazione super-dinamica - ci ha fatto regredire a un ground zero dell'esperienza umana: fermi, isolati, fragili e soli. Arrestando, come il lampo di un flash, il movimento, ci ha rivelati per quel che siamo. O meglio: per quel che siamo diventati. [...] Visto sotto questa luce, come una sorta di messaggio in codice - d'altra parte cos'è un virus se non un filamento di codice genetico avvolto in una minuscola capsula di proteine, destinato a essere «tradotto» e «trascritto» nei processi cellulari? -; considerato dunque come un frammento di linguaggio destinato a «parlarci» dall'intimo delle nostre cellule, Sars-CoV-2 potrebbe persino umanizzarsi. Non nel senso di diventare meno feroce. Ma di rivelare - parlandoci, a modo suo - quella specifica ferocia tipica di noi «ultimi uomini». Di offrirci davvero, come aveva intuito Susan Sontag , la malattia come metafora di una condizione umana e sociale che si considerava sana. In fondo, la sua logica selettivamente darwiniana in base alle chances di sopravvivenza - il suo lavorare sulle «vite di scarto», o meglio il suo ritracciare il confine tra «vite di scarto» e vite vivibili su base anagrafica -, non è la stessa che almeno un paio di decenni di egemonia neoliberista ci hanno inculcato con il principio di prestazione, dichiarando inutili gli improduttivi (i vecchi, in primis) e meritevoli i vincenti (i forti)? Non è casuale che la prima risposta che in perfetta consonanza di coppia i leader dei due paesi anglosassoni che hanno costituito il nucleo genetico del paradigma ultraliberista, Donald Trump e Boris Johnson, abbiano concepito, istintivamente, quasi per riflesso pavloviano, ai primi sintomi epidemici, sia stata la scellerata idea dell' herd immunity, dell'immunità di gregge: «moriranno in molti, i fragili, ma ne usciremo piú forti e soprattutto pronti per produrre». La quale riflette esattamente, in tempo di guerra, quello che avevano pensato, promosso e praticato in tempo di pace nel gioco della competizione sociale, in cui la morte - in quel caso economica, e ora anche biologica - non era solo messa in conto, ma considerata «produttiva». Francesco Guerrera, uno che di mercati se ne intende (è il direttore di Barron's Group in Europa) ha parlato, in quell'occasione, commentando questa prima risposta alla sfida del virus in Occidente, di «libero mercato della vita», rivelando come a Downing Street e tra i «burocrati britannici» si parli male «della "ricetta italiana" di chiudere tutto». E si preferisca ragionare in termini di «equilibrio tra infezione e ospedalizzazione» anche se «con questo "equilibrio" i morti nel Regno Unito potrebbero essere tra gli 80000 e il mezzo milione». [...] Lo schema che va per la maggiore in discussioni di questo tipo - quando cioè si tratta di bilanciare vite e denaro -, è identificato da un acronimo: Vsl, che sta per Value of a Statistical Life ovvero «Valore di una vita statistica». Espressione che porta il segno dell'ambito in cui è nata, cioè il campo delle assicurazioni, la forma di relazione per eccellenza in cui il valore di una vita non solo può ma deve essere espresso in denaro. Quello in cui l'essere o non essere si misura (e si compensa) con un prezzo. I massimi cultori di questa materia hanno definito quell'indicatore come «the local tradeoff rate between fatality risk and money»: il tasso di scambio locale tra rischio di morte e denaro, che nel suo ambiente naturale, cioè il mercato, serve come misura sia della «disponibilità di una popolazione a pagare per la riduzione del rischio» sia del «costo marginale per migliorare la sicurezza». Un po' piú brutalmente altri l'hanno indicato come «il modo per bilanciare il rischio per le vite (lives) e quello per i beni (livelihoods)». Come che sia, quello che importa ai fini del nostro discorso, è che il maggiore o minore ricorso a quello schema nella conversazione pubblica finisce anche per misurare, a sua volta, il grado piú o meno elevato di mercatizzazione (o mercificazione o, diciamolo pure, dis-umanizzazione) della vita e delle relazioni umane in un determinato contesto spazio-temporale e socio-culturale. E che nel corso dell'emergenza prodotta dal coronavirus - nel contesto in cui con maggior immediatezza l'uomo post-moderno è stato toccato «nell'osso e nella carne», per usare l'espressione che il satana rivolge a Jahweh nel Prologo del Libro di Giobbe -, quell'argomento è stato ampiamente evocato come regolatore razionale della discussione sulle scelte pubbliche, utilizzato - significativamente - sia dai fautori della linea dura ultra-liberista schierati per il business first che dai loro oppositori «umanitari». [...] Considerando dunque il fatto che il coronavirus è un nemico «selettivo», che colpisce in proporzione geometrica col crescere dell'età e predilige, come vittime, i piú anziani e i piú fragili, si può comprendere quanto bassa e competitiva finisca per essere la soglia di prezzo al di sopra della quale si considererebbe del tutto «insostenibile» - e dunque inaccettabile - il costo di una prolungata chiusura dell'economia, dilapidato per salvare in prevalenza vite «senza valore» o, per usare il linguaggio delle merci, «prodotti deteriorati». | << | < | > | >> |Pagina 72Capitolo sesto
Necropolitica
Cosí nel contesto alto e asettico della conversazione
accademica a uso dei
policymaker.
Ma se dai circuiti rarefatti del confronto teorico si scende in basso, sul
terreno, inseguendo il virus là dove alligna e «lavora», al livello dei corpi;
se si osserva quanto accade su quel confine feroce tra essere e nulla che sono i
pronto soccorso e le sale di
triage,
dove in gioco non sono «vite statistiche» ma «vite viventi» o «vite vissute»,
e dove chi materialmente opera è chiamato a decidere, in pochi minuti, chi vive
e chi muore; se si sposta lo sguardo su questo scenario «basso» allora il
quadro cambia. Allora si può percepire a fondo la dimensione
dell'attrito tra logica dell'umano e logica del vivente,
nel momento in cui in presenza di risorse scarse si è
chiamati ad affrontare «dilemmi mortali» e l'unicità
di ogni vita umana scolora nell'indifferenziato della
specie - del
bios -
dove vale, in ultima istanza, la forza darwinianamente competitiva del «vitale».
È stato questo il criterio - elementare, bio-sociale - con cui,
nei momenti esplosivi della pandemia, si è scelto, caso per caso, all'arrivo,
chi salvare attaccandolo alle macchine nei reparti di rianimazione, e per chi
lasciar correre la morte e la natura, accompagnandolo all'
exit:
la «speranza di vita», connessa in primo luogo all'età
anagrafica, alla «ragionevole» soglia di «possibilità
di farcela», al grado di fragilità. Prima i piú forti, e a
scalare via via i piú deboli. Le condizioni piú proprie
dello stato di natura hobbesiano, ritornanti nel punto
più alto di sviluppo della
civil society.
Cosi si è fatto in Italia, nei giorni terribili in cui lo tsunami Covid-19 travolgeva gli ospedali lombardi e i posti in rianimazione non bastavano per tutti («Ti abitui alle regole di un ospedale in guerra, ti abitui a vivere nel terremoto che non smette di tremarti intorno, a essere frastornata dalle emergenze, a prendere una decisione al minuto, compresa la piú terribile, chi puoi salvare e chi no. Io l'ho fatto e devo conviverci ogni notte», ha raccontato una dottoressa, dalla prima linea del Fatebenefratelli). Cosí si è fatto o ci si è preparati a fare in tutto il mondo. | << | < | > | >> |Pagina 86Capitolo settimoSfondamenti
Alle soglie del post-umano
Dunque è bastato poco, pochissimo - un «nonnulla» potremmo dire, neppure un soffio, una traccia impercettibile sulla mappa del cosmo - per fermare il mondo umano. Per immobilizzare il pianeta globalizzato costruito dall'uomo a propria immagine e somiglianza. È bastato, come si è visto, che un invisibile frammento di «vivente» non-umano varcasse il confine che lo separava dall'«umano» con uno spillover - un «salto di specie» - non cosí raro in questo universo globalizzato in cui sono sempre piú numerose le nicchie ecologiche violate. È bastato uno «sfondamento». Il quale non è il solo che ci tocca vedere, a noi «ultimi uomini». Da tempo la cittadella dell'uomo è assediata - nelle sue mura si sono aperte brecce - e l'immagine dell'Uomo nella sua assoluta unicità, come essere separato e diverso da tutto ciò che lo circonda, è messa in discussione lungo piú direttrici d'attacco. L'«eccezionalismo», ovvero il complesso indiscutibile di credenze e di concetti che costituivano il basamento ontologico dell' Humanitas - la rappresentazione dell' Homo sapiens come unicum irriducibile al «resto» - vacilla e tende a sgretolarsi. | << | < | > | >> |Pagina 91Oggi quel caposaldo non tiene piú. O quantomeno appare fortemente lesionato. Sia sul fronte che lo separa dal regno materiale delle cose sia su quello che lo distingue dal resto del vivente le linee di difesa dell'«eccezionalismo» umano cedono, i confini vengono violati da costanti incursioni. Mai come oggi risulta difficile tracciare, almeno in prospettiva, una netta linea di separazione tra uomini e macchine (tra l'umano e l'artificiale) da una parte, e dall'altra parte tra l'umano e l'animale (tra uomini e bestie, per dirla brutalmente). Gli strumenti d'assedio si chiamano biotecnologie, neuroscienze, machine learning (e deep learning), ingegneria genetica, cyborg, da una parte, che operano sulla direttrice d'attacco che punta a sfondare la frontiera che separa l'umano dall'artificiale, avendovi già aperto ampie brecce. E dall'altra parte etologia cognitiva o etologia filosofica, zoosemiotica, biosociologia, animal thinking, o - ancora - neurobiologia vegetale, nano-bionica, fito-ecologia, che a loro volta attaccano la linea di demarcazione tra Homo sapiens e resto del vivente.Michel Serres ha inventato un neologismo - «neologismo incoativo» è stato definito - per dare un nome a questo fenomeno: Hominescence. «Ominescenza», con quella desinenza chiamata a indicare quanto avviene quando il profilo (di qualcosa o di qualcuno) si fa evanescente. E una figura si «scontorna»: perde cioè la nettezza dei confini che la delimitano, i quali «sfumano» come nel caso della «luminiscenza» (quando si perde la linea di demarcazione tra luce e buio) o dell'«inflorescenza» (il ramo moltiplicando le biforcazioni si confonde col fiore). O, ancora, nell'«opalescenza» (definibile come «proprietà di certi corpi in cui siano compresenti due fasi diverse di rifrazione»). E, per tutte, l'Evanescenza - «una luce la cui intensità si nasconde e si mostra rabbrividendo per iniziare, sebbene costantemente pronta a spegnersi» -, tipica di qualcosa che sta mutando di stato. Con l'«Ominescenza» l'umano scolora e sconfina da tutte le parti: verso l'«alto» (farsi dio), il «basso» (farsi cosa o animale), i «lati» (rendersi tutt'uno con l'ambiente).Se l'uomo acquisisce la capacità di produrre un uomo (non nel senso, «naturale», di ri-prodursi, ma in quello «artificiale» di fabbricare esseri umani); se cioè diventa in grado di modificarsi (geneticamente o tecnologicamente, riscrivendo il genoma o ibridandosi con protesi) o, piú radicalmente, di «fare» un proprio simile - «a propria immagine e somiglianza», nel corpo e nell'anima - costruendo macchine intelligenti o algoritmi metacognitivi (capaci cioè di «pensare al proprio pensare»); se al discendente di Adamo - essendosi cibato all'albero della conoscenza - diventa possibile tutto ciò, allora esso al termine del lungo ciclo evolutivo plurimillenario iniziato col «peccato originale» compie (o può sembrare che compia) un doppio «salto di specie». Verso «l'alto», come creatore, andando a occupare, in qualche modo, il posto che spettava al Creatore divino: facendosi non «simile a dio» ma Dio egli stesso ovvero causa sui. E verso «il basso», come creatura, diventando egli stesso «come-un» manufatto: cosa costruita, oggetto tra gli oggetti. Comunque cancellando un confine, anzi due. | << | < | > | >> |Pagina 95È in questo orizzonte, culturale e tecnologico, che è maturato il passaggio dall'umanesimo classico e moderno a un «post» dal profilo ancora incerto, doppio - come doppia è la direzione verso cui muove l'«ultimo uomo» -, di elezione a un grado «superiore» di potenza, da una parte, e di declassamento (sarebbe meglio dire riallineamento) a un ruolo paritario col vivente, dall'altra. Transizione a un post-umano come condizione, e a un post-umanesimo come cultura, espressioni che incarnano, nella loro stessa struttura lessicale, l'ambivalenza dell' humana conditio oggi, incerta tra disumanizzazione tecnologica e riumanizzazione naturalistica. Si assiste infatti, per un verso, a un'enfatica autocelebrazione superomistica del potenziamento che le nuove frontiere della scienza e della tecnica attribuiscono al dominio umano sul mondo, come protesi di una volontà di potenza che non conosce piú limiti fisici o mentali: un «uomo oltre l'uomo» quale si esprime nel nuovo trans-umanismo e nella sua retorica neo-futurista dell' Homo deus, destinata a consumare nell'assolutizzazione della performance le residue tracce dei valori umanistici ridotti alla fine a uno solo, la poiesi: la capacità, cieca, di «fare il mondo» a propria immagine e somiglianza attraverso l'impiego di una razionalità totalmente strumentale (la weberiana Zweckrationalität). Un oltre-umano, in sostanza, in cui di «umano» sembra restare ben poco, e che assomiglia piuttosto a una sorta di universo an-umano per non dire dis-umano.Per l'altro verso viene invece avanti un Post-umano che all' Hybris sostituisce il suo opposto, l' Aidos - la modestia e il rispetto -, nella consapevolezza della non autosufficienza dell'umano nel mondo, della relazione paritaria della creatura col resto del creato, e di una necessaria «nuova responsabilità». Esso ha, come obiettivo, il progetto di «superare la pretesa umanistica dell'uomo come universo isolato, non solo come centro epistemologico ed etico, bensì come soggetto autoriferito e totalmente impermeabile alla contaminazione esterna». Il passaggio, cioè, «dall'identità dominatrice all'identità coniugata». È un pensiero che opera, senza dubbio, «una cesura netta rispetto alle coordinate tradizionali che hanno caratterizzato l'Umanesimo», nel senso che là dove quello vedeva, nello sviluppo, un accentuarsi dell'antropocentrismo «questo coglie, all'inverso, «un incremento di coniugazione-contaminazione, ovvero un antropo-decentramento». Prima però di misurare le opportunità di cui l'una o l'altra deriva dell'umano può godere, è utile provare ad aprire la doppia scatola nera delle macchine e del vivente, per coglierne il reciproco nucleo di verità. | << | < | > | >> |Pagina 122Epilogo
Finis terrae
Giunti qui, al termine di quel grande «tempo sospeso» che è il lungo Novecento - in cui nel cuore stesso dell'umanesimo si è assistito alla devastazione dell'umano -, in questa sorta di limbico «non ancora» che allude a un nuovo, inedito sfondamento di confine verso il post-umano, occorre ritornare, interrogandoci, a quel primo «superamento di soglia» che cancellò la distanza tra umano e disumano: al quesito che chiudeva il primo capitolo. E tornare a chiederci, appunto, se in quest'emergenza brutale dell'«inumano» nel territorio stesso dell' Humanitas, l'Umanesimo classico e Moderno sia per cosí dire «innocente» - se cioè l'inumano provenga da fuori e contro quel paradigma. O se al contrario non vi sia una qualche continuità genealogica, un frammento originario (come il peccato originale, appunto) di responsabilità incistato nel materiale genetico stesso dell' Humanitas. In fondo le ricorrenti irruzioni dell'inumano con cui ci siamo confrontati nelle pagine precedenti - quelle, per intenderci, corrispondenti alla crisi di un «ordine» e al passaggio a un diverso paradigma «di sistema» - sono avvenute tutte a ridosso di punti della storia del pensiero e della mentalità contrassegnati dal «trionfo» dell'umanesimo. Cosí è stato per l'infernale rappresentazione del mondo di Hieronymus Bosch, emersa dal crogiolo rinascimentale che nell'umanesimo trovava il proprio fulcro. E cosí per «quel laboratorio di ricerca per la distruzione del mondo» che è stata la Mitteleuropa entre deux guerres, con alle spalle íl secolo dei lumi, Goethe, Kant, gli utopisti e l'ottimismo antropologico della belle époque... A quella domanda - tanto piú imbarazzante per quelli che come me sono cresciuti nella scia di un pensiero illuministico e razionalistico con forti innesti di umanesimo socialista - temo di dover rispondere di sí. Che nell'edificio sublime e seducente di quell'umanesimo che faceva dell' Humanitas la propria cifra c'era, effettivamente, un grumo d'ombra. Una cellula malata, sbocciata come un fiore del male sui rami stessi dell'albero della conoscenza, o - fuor di metafora - annidata nel dispositivo genetico della metafisica occidentale, con l'essenzialismo socratico-platonico, la distinzione strutturale tra anima sensitiva e anima intellettiva, e l' hybris dell'impossessamento cognitivo: la pretesa cioè di sussumere il mondo nel proprio pensiero, e di sussumere tutto il pensiero nel proprio Sé in quanto Uomo, fondata sull'«immagine trionfante dell'uomo come inizio e centro della mediazione razionale». Un meccanismo in base al quale il mondo esterno (anzi, il cosmo) diventava disponibile in tutta la sua estensione al dominio dell'Uomo come Oggetto d'impossessamento prima mentale (con la sua comprensione nel pensiero) e poi pratico (con la sua trasformazione progettata razionalmente: «un insieme di valori per quel valore superiore che è l'Uomo»). È in base a quel meccanismo ferocemente antropocentrico che l'unico mondo rilevante - l'unico mondo di cui valga la pena prendersi cura ed entro il quale assumono senso i valori morali: in una parola l'«unico mondo possibile» su cui orientare i propri comportamenti e giudizi - si riduce al mondo umano. Il mondo creato dall'Uomo e disponibile per l'Uomo. Il mondo fabbricato e fabbricabile. Calcolato e calcolabile in base a un principio di razionalità strumentale in cui l'utilità è sintetizzata nel beneficio apportato a un solo e unico soggetto autoreferenziale. Ed è ancora in forza di quello stesso dispositivo che la soggettività cognitiva dell'Uomo, il pensiero pensante, il logos, il Cogito, una volta incarnatosi nel suo prodotto materiale e mezzo specifico, la Tecnica, si fa Nomos rovesciandosi in Oggettività dominante: struttura e ordine del mondo a cui con-formarsi, e in nome del quale comandare, spartire, sottomettere, assoggettare il non conforme, l'eteronomo, il fuori-posto, farsi in una parola «padrone dell'ente». Il processo, appunto, per cui al vertice della sua «soggettivazione» l'uomo non vive la sua liberazione ma il proprio «assoggettamento», come ben intuí Marx nelle pagine dedicate al «feticismo delle merci»: la metamorfosi per cui l'universo dei prodotti, transustanziati in merci, pretende il comando sui loro produttori, e le cose si personalizzano mentre le persone si reificano. [...] Paradossalmente il segno della svolta - del bisogno di una svolta, che sia anche cambio di paradigma - viene da dove non ce lo si sarebbe aspettato. Da quella stessa voce del sacro da cui era venuto il messaggio biblico che aveva inaugurato il corso «proprietario» dell'umanesimo. Nella sua rivoluzionaria enciclica Laudato si' papa Francesco, dopo aver citato il cantico del santo di Assisi dedicato alla nostra «casa comune», dice infatti: Questa sorella [Terra] protesta per il male che le provochiamo, a causa dell'uso irresponsabile e dell'abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c'è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell'acqua, nell'aria e negli esseri viventi. Per questo, fra i poveri piú abbandonati e maltrattati, c'è la nostra oppressa e devastata terra, che «geme e soffre le doglie del parto» (Rm 8,22). Dimentichiamo che noi stessi siamo terra (cfr. Gen 2,7). Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora. E aggiunge, come titolo del secondo paragrafo: «Niente di questo mondo ci risulta indifferente». È una rivoluzione. L'equivalente della rivoluzione copernicana, che come quella - inverando quella - scardina la residua concezione tolemaica che voleva l'Uomo centro del cosmo, suo perno focale intorno a cui ruota tutto e tutto ne opera al servizio, per ricollocare invece il tutto al proprio posto capitale. La relazione al tutto come potere costituente di un nuovo modo di abitare il creato, responsabilmente. E nel far questo - nel liquidare, quattro secoli dopo la sua fine astronomica, l'antropocentrismo tolemaico -, pone le basi per una possibile fondazione di un'idea di ordine finalmente «umana» perché capace di collocare l'Uomo nel suo giusto posto (periferico e paritario) in un mondo che è chiamato a co-abitare anziché a possedere.
È esattamente ciò di cui abbiamo bisogno. Di un
nucleo normativo capace di andare aldilà del paradigma largamente in crisi del
moderno, con un «di più» di Umanesimo (non un «di meno»). Un Post-umanesimo
adeguato alla nuova dimensione dello spazio
morale disegnato da quello che abbiamo chiamato
Post-umano, capace di dilatare il nucleo normativo dell'
Humanitas -
il suo riferimento alla
philantropía,
alla benevolenza e al riconoscimento - oltre i confini
ristretti dell'
anthropos,
della sua esclusiva ed escludente
auto-referenzialità, nella forma ibridante e connettiva
della nuova spazialità. Un'
Humanitas
capace di prendersi cura non solo dell'uomo nel senso limitato della
sua individualità di persona o di specie, ma dell'intera catena dell'essere nel
mondo: le altre specie viventi, animali e vegetali, le generazioni future,
l'habitat, l'oggettività che ci circonda ma che per questo nell'interazione si
soggettivizza, i luoghi e le cose appunto...
Un'
Humanitas
ibrida e ibridante, connettiva e ricombinante, aperta e plurale come ibrida,
ricombinante e plurale è la condizione post-umana in cui viviamo
le nostre vite. Si tratta insomma di sfondare l'ambito
angusto della responsabilità sartriana che dichiarava
ognuno di noi «responsabile di tutti gli uomini» per
estenderla all'intero vivente e all'habitat condiviso.
E di farlo rovesciandone l'assunto: quel «Siamo soli,
senza scuse» che ci condannava a un'angoscia genetica. Siamo in tanti, diversi,
in uno spazio affollato e condiviso.
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