Autore Ian Stewart
Titolo La matematica della vita
SottotitoloRisolvere i segreti dell'esistenza
EdizioneEinaudi, Torino, 2020, Piccola Biblioteca 742 , pag. 382, ill., cop.fle., dim. 13,5x20,8x2,4 cm , Isbn 978-88-06-21654-2
OriginaleMathematics of Life. Unlocking the Secrets of Existence
EdizioneProfile Book, London, 2011
TraduttoreGiorgio P. Panini, Antonio Casto
LettoreCorrado Leonardo, 2021
Classe biologia , evoluzione , matematica












 

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Indice


 IX  Prefazione


     La matematica della vita


  3  I.     Matematica e biologia

 19  II.    Esseri viventi piccoli e piccolissimi

 39  III.   Il lungo elenco dei viventi

 49  IV.    Fibonacci nei fiori

 71  V.     L'origine delle specie

 95  VI.    Nell'orto di un monastero

109  VII.   La molecola della vita

131  VIII.  Il Libro della Vita

145  IX.    Tassonomo, tassonomo, risparmia quell'albero!

161  X.     Virus dalla quarta dimensione

183  XI.    Il circuito nascosto

209  XII.   Nodi e piegamenti

227  XIII.  Macchie e strisce

243  XIV.   Giochi tra lucertole

279  XV.    I vantaggi delle reti

293  XVI.   Il paradosso del plancton

313  XVII.  Cos'è la vita?

329  XVIII. C'è qualcuno là fuori?

361  XIX.   La sesta rivoluzione


365  Indice analitico


 

 

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Pagina 3

Capitolo primo

Matematica e biologia


La biologia si è da sempre occupata di piante e animali (in particolare, tra questi, gli insetti), ma nella sua lunga storia cinque grandi rivoluzioni hanno cambiato il modo in cui gli studiosi hanno interpretato il fenomeno vita.

Una sesta rivoluzione è in corso.

Le prime cinque sono avvenute in relazione a fondamentali scoperte pratiche e teoriche: l'invenzione del microscopio, la classificazione sistematica degli esseri viventi del pianeta, la teoria dell'evoluzione, la scoperta dei geni e la scoperta della struttura del DNA. Passiamole in rassegna, una dopo l'altra, prima di dedicarci alla sesta caratterizzata, come vedremo, da una notevole quantità di controversie.


Il microscopio.

La prima rivoluzione nella storia delle scienze biologiche è databile a circa 300 anni fa, quando l'invenzione del microscopio ha rivelato ai nostri occhi la stupefacente complessità degli esseri viventi osservati a una scala estremamente piccola.

[...]


La classificazione.

La seconda rivoluzione è stata messa in moto da Carl von Linné, botanico, medico e zoologo svedese (noto in Italia come Linneo ). Nel 1735 è stata pubblicata la prima edizione della sua opera epica Systema Naturæ.

[...]


L'evoluzione.

La terza rivoluzione è rimasta a cuocere, a fuoco lento, per un certo tempo, ma è andata in ebollizione soltanto nel 1859, quando Charles Darwin ha pubblicato L'origine delle specie. Il libro ebbe sei ristampe e giustamente occupa un posto tra le grandi opere scientifiche di tutti i tempi, reggendo il confronto con i testi di Galilei , Copernico , Newton e Einstein nel campo della fisica.

[...]


La genetica.

La quarta rivoluzione si è avuta con la scoperta dei geni dovuta a Gregor Mendel , che la rese pubblica nel 1865 ma che venne valutata nella sua importanza soltanto una cinquantina di anni piú tardi.

[...]


La struttura del DNA.

La quinta rivoluzione è stata chiara e inequivocabile: come la prima, è stata innescata da un'invenzione, la messa a punto di una nuova tecnologia sperimentale. In questo caso la tecnologia innovativa è stata l'impiego della diffrazione a raggi X, che consente ai biochimici di decifrare la struttura di complesse molecole assai importanti sul piano biologico. Di fatto gli strumenti di questa tecnologia costituiscono una sorta di potentissimo «microscopio» che può rivelare la posizione di singoli atomi in una molecola.

Negli anni Cinquanta del secolo scorso Francis Crick e James Dewey Watson avevano incominciato a indagare sulla struttura di una complessa molecola presente quasi universalmente negli esseri viventi: l'acido desossiribonucleico (Deoxyribose Nucleic Acid), indicato ovunque con l'acronimo DNA.

[...]


Queste sono le mie cinque rivoluzioni.

Gli intervalli di tempo che le separano (tenendo conto del ritardo relativo al caso di Mendel) sono stati approssimativamente di 50, 100, 50 e 50 anni. La quinta si è avuta appena una cinquantina di anni fa. Il passo dei cambiamenti epocali nel mondo sta accelerando, tanto che una sesta rivoluzione in campo biologico sembra essere in ritardo. Io credo che essa sia già arrivata. La vera natura della vita non è soltanto una questione che riguarda la biochimica: molti altri importanti settori della ricerca scientifica sono essenziali per spiegare che cosa renda vivo un organismo. Ciò che unisce tra loro questi settori, presentandoci panorami del tutto nuovi, è la mia sesta rivoluzione: quella che ha come protagonista la matematica.


La matematica ha accompagnato la storia dell'uomo da migliaia di anni: i Babilonesi sapevano risolvere equazioni di secondo grado 4000 anni fa. I biologi utilizzano procedimenti matematici, in particolare statistici, da piú di un secolo. Può quindi sembrare irragionevole usare oggi il termine «rivoluzione». Ma ciò che ho in mente (e che sta accadendo mentre scrivo) è qualcosa che, in effetti, va ben oltre il consueto sviluppo del progresso scientifico. Il vasto insieme dei ragionamenti matematici sta diventando lo strumento comune presente nella cassetta degli attrezzi dei biologi: non si tratta soltanto di un mezzo utile per analizzare i dati disponibili su tutti gli organismi viventi, ma di un metodo per capire che cosa essi siano.

Ma anche che cosa sia effettivamente la matematica e quanto sia utile sono temi oggetto di molti fraintendimenti. Essa non ha soltanto a che fare con i numeri, con il «far di conto», come ci è stato insegnato a scuola: questa è l'aritmetica. Anche se vi si aggiungono l'algebra, la geometria, la trigonometria e alcune applicazioni come l'impiego delle matrici, ciò che si impara a scuola non è che una piccola parte di un vastissimo campo di lavoro e d'indagine. Dire che si tratta di un decimo dell'uno per cento sarebbe una generosa esagerazione. E la matematica che impariamo a scuola è, per parecchi aspetti, inadeguata a rappresentare il vasto complesso di questa disciplina, come fare le scale sulla tastiera d'un pianoforte non può far capire che cosa sia la vera musica e fornisce un'idea penosamente riduttiva della composizione. La gente spesso pensa che la matematica sia stata inventata (o scoperta) molto tempo fa, che sia qualcosa del passato, ma la nuova matematica sta sviluppandosi oggi, crescendo con impressionante rapidità. Un milione di pagine all'anno può essere la stima prudente delle pubblicazioni in questo campo, che equivalgono a un milione di nuove idee e non a semplici ripetizioni di calcoli sempre noiosamente uguali.

I numeri sono l'elemento fondamentale della matematica, proprio come le scale lo sono della musica, ma il campo dei soggetti ai quali si applicano le operazioni matematiche è ben piú ampio: forme e volumi, logica, procedure di produzione... qualunque insieme di dati che presenti una struttura o un ordinamento schematico. Dobbiamo includervi anche l'incertezza, che potrebbe apparire come l'assenza di schemi, ma i primi studiosi di statistica hanno scoperto che anche gli eventi casuali presentano i propri specifici schemi, rilevabili a medio e lungo termine. Una delle caratteristiche notevoli della matematica che si impiega in campo biologico è la sua grande varietà, un'altra è il suo carattere innovativo. Gran parte di questa nuova matematica ha meno di cinquant'anni e qualcuno dei suoi temi importanti potrebbe essere stato scoperto la settimana scorsa. Essa spazia dalla teoria dei nodi alla teoria dei giochi, dalle equazioni differenziali ai gruppi simmetrici dell'algebra astratta. Si tratta di concetti con cui la maggior parte di noi non ha mai avuto a che fare e che probabilmente, incontrandoli, non li identificherà come strumenti matematici. In effetti dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare la biologia e non soltanto di valutare i risultati che otteniamo.

[...]


Una decina o una ventina di anni fa, le affermazioni di chi sosteneva che la matematica avrebbe potuto assumere un ruolo significativo in biologia cadevano nel vuoto. Oggi questa particolare battaglia è quasi completamente vinta, come si può dedurre dal continuo aumento dei centri di ricerca in tale settore. Non è piú necessario cercare di convincere i biologi che la matematica potrebbe essere utile nel loro lavoro. Molti non sono ancora pronti a servirsene in prima persona, a meno che essa non sia già stata appropriatamente inscatolata nel software del computer, ma comunque non sollevano obiezioni se altri se ne occupano. Un matematico può costituire un'utile aggiunta in un gruppo di ricerca. Sono pochi i biologi che ancora si oppongono all'importanza della matematica nel loro oggetto di studio e che dunque potrebbero decisamente contestare la veridicità della maggior parte di quanto ho appena scritto, ma questo loro atteggiamento è una sorta di riflesso istintivo di autodifesa ormai quasi del tutto superato, la cui influenza sta diminuendo.

I matematici hanno capito che il solo modo efficace per applicare la loro attività alla biologia consiste nell'individuare ciò che i biologi vogliono scoprire e nell'adattare in modo opportuno le proprie tecniche d'indagine. La biomatematica non è semplicemente una nuova applicazione di metodi matematici già esistenti; non basta prendere dallo scaffale il tomo di una tecnica matematica già nota e metterne in pratica i procedimenti: essa deve essere adattata su misura al problema. La biologia richiede (nel vero senso della parola: ne ha bisogno) concetti e tecniche matematiche del tutto nuove, e fa nascere nuovi e affascinanti problemi per la ricerca matematica.

Se è vero che le esigenze della fisica sono state la forza responsabile degli sviluppi della matematica nel XX secolo, nel XXI la spinta è destinata a venire dalle scienze della vita. Come matematico, trovo questa prospettiva eccitante e allettante. I matematici amano, piú di qualsiasi cosa, una ricca fonte di nuove domande. I biologi, giustamente, potranno essere davvero impressionati soltanto dalle risposte.

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Pagina 71

Capitolo quinto

L'origine delle specie


La terza rivoluzione non cominciò nel migliore dei modi.

L'anno è il 1858, primo giorno di luglio. La Linnaean Society di Londra esisteva da settant'anni, allora come oggi la piú antica società di storia naturale e tassonomia del mondo. Si era alla riunione finale, e i membri avevano già la mente rivolta alle vacanze estive e alle attività all'aperto. Il presidente Thomas Bell teneva il suo resoconto annuale sui punti salienti dell'attività scientifica della Society. Non era stato un anno molto fruttuoso, pensava, e anzi punti salienti non ce n'erano. «L'anno appena trascorso, - disse, - in verità non è stato segnato da alcuna di quelle straordinarie scoperte che d'un tratto rivoluzionano, per cosí dire, il settore della scienza su cui poi influiscono».

Sul momento nessuno ebbe nulla da obiettare. Anche i due articoli scientifici aggiunti all'ultimo minuto nel programma non avevano lasciato tracce: quando i membri si separarono a fine sessione, nessuno sembrava esserne rimasto particolarmente colpito. Come si usava all'epoca, gli articoli erano stati letti alla Society a nome dei loro autori. Trattavano di argomenti molto simili, e i titoli erano On the tendency of species to form varieties e On the perpetuation of varieties and species by natural means of selection. Gli autori erano, rispettivamente, Charles Darwin e Alfred Russel Wallace.

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Pagina 85

La teoria della selezione naturale di Wallace-Darwin è semplice (apparentemente, come vedremo). I punti principali sono:

1. gli esseri viventi differiscono tra loro, anche all'interno di una data specie;

2. molte di queste differenze possono essere trasmesse alla prole;

3. l'ambiente non può sostenere tutta la prole prodotta, per cui esiste una competizione per la sopravvivenza;

4. i sopravvissuti tendono a essere «migliori» nella sopravvivenza rispetto alla generazione precedente.

Se ne deduce che le specie possono cambiare in modo graduale e, con un lasso di tempo adeguato, cambiamenti piccoli possono combinarsi a formarne di piú grandi.

Questo, secondo Darwin, era il modo in cui da specie già esistenti hanno origine specie nuove.

[...]


Le prove dell'evoluzione derivano da molte fonti diverse. La varietà di queste fonti, e la loro reciproca indipendenza, rafforzano moltissimo la teoria, perché ognuna produce un gran numero di modi potenziali per confutarla. Finora il principio di base ha resistito intatto, mentre i dettagli del processo evolutivo sono stati precisati, e in qualche caso modificati, man mano che si aggiungevano nuove testimonianze. Le prove disponibili oggi sono assai piú estese di quelle a disposizione al tempo di Darwin, e sono inoltre meglio quantificate e piú precise. Ecco le principali:

- la flessibilità di forma e comportamento degli organismi, evidente nei programmi di allevamento indotti dall'uomo su cani, piccioni, cavalli e altri animali addomesticati;

- le analogie tra le specie esistenti, che suggeriscono un'origine comune;

- la presenza degli stessi componenti e sistemi biochimici in molti organismi diversi;

- i reperti fossili, che rivelano sequenze coerenti di cambiamenti nel corso del tempo;

- le prove geologiche, che confermano le datazioni delle specie fossili;

- le caratteristiche genetiche degli organismi, in particolare delle sequenze di DNA, che confermano sia le linee di successione che la tempistica dei cambiamenti;

- i rapporti fra la distribuzione delle specie e le caratteristiche geografiche attuali o passate;

- la selezione naturale osservata in laboratorio e nel mondo reale;

- gli studi matematici dell'effetto dei principi selettivi sui cambiamenti dei sistemi complessi.

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Pagina 161

Capitolo decimo

Virus dalla quarta dimensione


La geometria divenne una branca potente e ben sviluppata della matematica grazie al lavoro dei filosofi e dei matematici dell'antica Grecia. Il piú famoso dei geometri greci, seppure non il piú talentuoso, fu Euclide di Alessandria. Nei suoi Elementi, una trattazione logica della geometria scritta attorno al 300 a.C., si occupò di fornire una base sistematica alla disciplina. Divenne il manuale di maggior successo che sia mai stato scritto, con migliaia di edizioni dopo la sua prima versione a stampa del 1482, a Venezia.

Il punto culminante degli Elementi è la classificazione e costruzione dei cinque solidi regolari: tetraedro, cubo, ottaedro, dodecaedro e icosaedro. Cubo escluso, i nomi si riferiscono al numero di facce, rispettivamente 4, 6, 8, 12 e 20. Le facce del cubo sono dei quadrati, quelle del dodecaedro pentagoni, e quelle degli altri tre sono triangoli equilateri (fig. 1).

Nella maggior parte delle discipline scientifiche, una scoperta che risalga a 2300 anni fa non è piú molto rilevante - anche se il principio di Archimede sui corpi fluttuanti e la sua legge della leva vengono ancora applicate, e risalgono grossomodo allo stesso periodo'. Ma la matematica sviluppa le nuove sco- perte sulla base delle precedenti, e quando qualcosa si dimostra vera, resta tale - e tende a ripresentarsi. Si possono stabilire nuovi livelli di precisione, creare definizioni piú solide, intro- durre nuove interpretazioni, e argomenti un tempo sulla bocca di tutti possono sprofondare nell'oblio, ma in sostanza le idee matematiche fondamentali restano permanenti.

L'icosaedro ne è un esempio perfetto. Ha sempre avuto un suo ruolo nella matematica pura: nel 1908 il matematico francese Charles Hermite trovò il modo di adoperare la geometria dell'icosaedro per risolvere equazioni algebriche di quinto grado. Tuttavia fino al XX secolo non ci furono applicazioni significative per l'icosaedro nel mondo reale, perché non sembrava presentarsi in natura. Finché nel 1923 fece la sua comparsa come modello di progettazione: l'ingegnere Walther Bauersfeld lo utilizzò come forma base del primo proiettore da planetario, e l'architetto Buckminster Fuller rielaborò l'idea e la sfruttò nella costruzione di cupole geodetiche. L'icosaedro è sotteso anche alla geometria del moderno pallone da calcio, che è una sua rielaborazione, troncata per renderla piú tondeggiante (gli si tagliano gli spigoli). Con la stessa rielaborazione si descrive la struttura del buckminsterfullerene, una molecola scoperta da poco e composta soltanto da 60 atomi di carbonio che formano una gabbia approssimativamente sferica (fig. 2).

Con la diffusione della microscopia elettronica e della diffrazione a raggi X, il solido euclideo a 20 facce diventò una presenza regolare nel campo della biologia. Il contesto era quello dei virus - strutture minuscole, troppo piccole per essere visibili a un microscopio ottico, ma distinguibili con uno elettronico, piú potente. I virus sono una delle cause principali di malattie in uomini, animali e piante; la parola viene dal latino e significa «veleno». I virus sono poco piú grandi della maggior parte delle molecole biologiche, pur avendo dimensioni che sono in media un centesimo circa di quelle di un batterio tipo. Poiché il volume varia con il cubo della lunghezza, potremmo quindi ammassarne un milione (100 x 100 x 100) all'interno di un solo batterio senza lasciare spazi. Esistono piú o meno 5 x 10^30 batteri sulla Terra, mentre il numero di virus è circa dieci volte piú grande. Nessuna di queste cifre è particolarmente accurata, ed entrambe potrebbero essere delle sottostime, ma danno un'idea generale delle proporzioni. I virus ci superano numericamente in un rapporto che è di 10^22 virus per ogni uomo.

È evidente che i batteri rispettano la definizione di vita, perché possono riprodursi utilizzando i loro processi genetici. Nei virus la situazione non è altrettanto chiara: possiedono geni propri (sequenze di DNA o di RNA), ma non sono in grado di utilizzarli per riprodursi. Possono farlo, e in modo esplosivo, solo sovvertendo l'apparato riproduttivo biochimico di un'altra cellula, un po' come si riproduce un documento usando una fotocopiatrice come intermediario (ci sono in realtà virus in grado di replicarsi senza supporti, ma si tratta di eccezioni). Certi biologi sostengono che la definizione di vita andrebbe estesa a includere i virus.

Sono stati individuati piú di 5000 diversi tipi di virus da quando Martinus Beijerinck ne classificò uno per la prima volta (il virus del mosaico del tabacco, nel 1898), e abbiamo prove indirette dell'esistenza di milioni di altri. La maggior parte ha due componenti principali: i geni, formati da DNA o RNA, racchiusi in un rivestimento proteico, detto capside. Solitamente il capside è formato da unità proteiche identiche, dette capsomeri. Alcuni virus possiedono anche un ulteriore strato di lipidi (grassi) che funge da protezione quando il virus è all'esterno della cellula.

Fin dal 1956 si era osservato che i virus sono perlopiú icosaedrici o elicoidali: a forma di pallone da calcio o di scala a chiocciola. Esistono virus dalla struttura piú complessa: per esempio, l'enterobatteriofago T4 ha una testa a icosaedro, un gambo elicoidale e una base esagonale da cui si dipartono delle fibre (assomiglia a una molecola pronta per un atterraggio lunare, si veda la figura 3).

Ma la forma che si riscontra piú spesso resta l'elegante icosaedro euclideo, che, privo di applicazioni pratiche per piú di due millenni, si scopriva perfettamente adatto a descrivere la forma di un virus (fig. 4).

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Pagina 177

La propensione dei virus a subire mutazioni genetiche per un nonnulla è ben descritta da questi spazi multidimensionali, che formalizzano l'uso di somiglianze nelle sequenze del DNA per dedurre cambiamenti evolutivi passati, e permettono di classificare i virus in «ceppi» (o «stipiti»): varianti diverse sorte per mutazione o scambio di materiale genetico. Questi cambiamenti sono molto importanti in medicina, perché i vaccini che funzionano su un ceppo potrebbero essere inefficaci su un altro.

Probabilmente ricorderete la pandemia di influenza suina del 2009, quando una raffica di morti in Messico annunciò l'arrivo di un nuovo ceppo di virus dell'influenza. Il sequenziamento ha rivelato che questo ceppo, detto H1N1, si era evoluto combinando materiale genetico da quattro precedenti ceppi di influenza: qualche tempo prima, un ceppo che colpiva i maiali si era combinato con uno specifico degli uccelli e un terzo dell'uomo, per poi passare quasi inosservato fino a quando non si era combinato ancora con un altro virus dell'influenza del maiale. A questo punto l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha preso il controllo e ha dichiarato una pandemia a livello globale. I governi di tutto il mondo si sono precipitati a ordinare riserve di vaccini specifici, creati appositamente per il nuovo ceppo. Alla fine, H1N1 si è dimostrato meno pericoloso del previsto: ad agosto del 2010 solo 15000 persone erano morte a causa del virus - assai meno dei milioni strombazzati dalla stampa scandalistica, e meno del numero abituale di morti dovuti alle tipiche influenze stagionali. Da allora la reazione è stata criticata in quanto eccessiva, ma H1N1 era un virus insolito: l'effetto era peggiore sui giovani che sugli anziani già esposti a un ceppo correlato e che avevano sviluppato un'immunità. Non è chiaro se le autorità abbiano davvero esagerato, o se piú che altro siamo stati fortunati.

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Pagina 209

Capitolo dodicesimo

Nodi e piegamenti


La scoperta del codice genetico, che descrive gli amminoacidi delle proteine con triplette di basi del DNA, è stata la prima di una serie di svolte fondamentali che hanno portato a considerare il DNA alla stregua di un vero e proprio codice, una lista di simboli. Altrettanto importante però è la forma che assume la molecola del DNA, e quella delle molecole da essa codificate.

Lo stesso vale per le proteine. Non basta una lista di proteine per creare un organismo: bisogna avere le proteine giuste nel posto giusto e al momento giusto. Proprio come non si può fare una torta gettando tutti gli ingredienti in una ciotola e ficcandola nel forno, non è possibile ottenere un organismo producendo 100 000 proteine e sperando che in qualche modo queste si disporranno a formare un'ameba o un essere umano.

Solo una piccola percentuale del genoma è fatto di geni - codici per le proteine: per lungo tempo il rimanente è stato stigmatizzato come «DNA spazzatura», vestigia evolutive senza alcuna funzione attuale, che si accompagnano al resto perché evolutivamente non valeva la pena estirparle. Oggi sappiamo che almeno una parte di quel DNA spazzatura contribuisce a sorvegliare l'assemblaggio dell'organismo. Il resto potrebbe pur sempre essere spazzatura - ma, visti i precedenti, non ci conterei.

Come funziona il sistema di controllo del DNA? Può darsi che la risposta richieda niente piú che la decifrazione di un altro pezzo di codice, quello che riguarda le istruzioni invece che gli ingredienti. Ma, di nuovo, non è cosí semplice. Uno dei sistemi di controllo dello sviluppo di un organismo utilizza geni (piú correttamente, le relative proteine codificate) per attivare e disattivare altri geni. Ciò che conta qui è la dinamica della rete di attivazione genetica, e questo è un problema matematico: non lo si può semplicemente leggere nei codici del DNA. Potremmo capire quali sono i geni che agiscono su altri geni - ma quest'informazione non ci dirà come agisce la combinazione di questi elementi quando tutti i processi avvengono in contemporanea, cosí come sapere l'influenza reciproca fra temperatura e umidità dell'atmosfera terrestre non ci fornisce il meteo della prossima settimana.

A quanto pare la forma delle molecole è importante almeno quanto le sequenze che la determinano: la forma a doppia elica del DNA è alla base di molte delle sue proprietà essenziali. In particolare, il suo sistema di replicazione, utilizzato dalle cellule e dall'organismo per riprodursi, deve superare un enorme ostacolo topologico: i due filamenti sono attorcigliati l'uno attorno all'altro come filamenti di una corda. Se provate a disfare una corda tirando i filamenti che la compongono, tutto ciò che ottenete è un groviglio senza speranza.

La forma delle proteine è anche piú importante. Molte svolgono la loro funzione legandosi ad altre proteine, incollandosi, di solito temporaneamente ma in modo regolabile: l'emoglobina cambia forma quando prende o rilascia una molecola di ossigeno. Una proteina è una lunga catena di amminoacidi, e acquista la sua forma ripiegandosi in un groviglio compatto. In teoria questo groviglio è determinato dalla sequenza degli amminoacidi, ma nella pratica è virtualmente impossibile calcolarne la forma a partire dalla sequenza: una stessa sequenza può ripiegarsi in un numero immenso di modi diversi, e in genere si pensa che la forma scelta sia quella che possiede l'energia minore. Trovare questa forma a energia minima, nell'elenco davvero smisurato delle possibilità, è un po' come cercare di riordinare una lista di migliaia di lettere dell'alfabeto nella speranza di ottenere un paragrafo di Shakespeare. Scorrere tutte le possibilità una alla volta è assolutamente impossibile: non basterebbe la durata dell'universo.


Una delle chiavi di accesso ai misteri della forma del DNA è una branca della matematica nota come topologia. La topologia è attiva da poco piú di un secolo come disciplina ben sviluppata, anche se con il senno di poi si potrebbe risalire a qualche precursore. Raggiunse la notorietà negli anni Cinquanta, diventando uno dei pilastri centrali della matematica pura, ma il suo ruolo applicato restava comunque relativamente marginale. Per esempio, chiariva una serie di problemi teorici sulla dinamica del sistema solare. Si tratta di un settore importante della matematica pura perché fornisce un apparato concettuale in grado di affrontare qualsiasi questione di continuità (trasformare forme e strutture senza strapparle o dividerle in pezzi distinti), tema comune a molte aree diverse della matematica, cosí come ad applicazioni pratiche: la maggior parte dei processi fisici è continua. Dedurre qualcosa di utile da questa proprietà non è immediato, e bisognò aspettare molto piú tempo prima che la topologia trovasse il suo posto nelle scienze applicate.

A scuola non si include la topologia nelle lezioni di matematica, eccetto che per qualche trucco simpatico ma inconcludente. Un esempio tipico è il nastro di Möbius, inventato in maniera indipendente da August Möbius e da Johann Listing nel 1858: prendete una lunga striscia di carta, piegatela fino ad avvicinare le due estremità come fosse un collare per cani, ruotate una sola estremità di mezzo giro e incollatela all'altra. La superficie che si ottiene ha diverse proprietà controintuitive: ha una sola faccia e un solo bordo, e se la si taglia nel mezzo nel senso della lunghezza non si divide in due pezzi separati. Esistono un paio di applicazioni pratiche del nastro di Möbius: nastri trasportatori che durano il doppio prima di usurarsi, e un metodo per collegare un circuito elettrico a un oggetto in rotazione. Ma nessuno di questi è particolarmente sbalorditivo.

La topologia può offrire molto di più, ma i concetti troppo astratti ostacolano una spiegazione facile o accurata senza prima una solida formazione tecnica. Comunque, il sesto senso dei matematici puri per le idee importanti è stato infine riscattato, e una gamma sempre più vasta di problemi concreti, dalla biologia alla teoria quantistica dei campi, adotta oggi i metodi della topologia. L'applicazione che descriverò in questo capitolo ha portato a intuizioni cruciali sul funzionamento del DNA, sfruttando un apparato topologico meno tecnico rispetto a molte altre aree della matematica applicata - qualcosa in cui ci imbattiamo quasi ogni giorno.

I nodi.

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Pagina 220

Un problema matematico che sembra simile a quello dei nodi, ma è tecnicamente molto diverso, viene da un'area affine della biologia molecolare: il ripiegamento proteico. Pur essendo una catena di amminoacidi, nella realtà le proteine si piegano in modo complesso sotto l'influsso di forze molecolari. Il concetto base qui è che il DNA tradotto in amminoacidi non «contiene l'informazione» che ci dice come si piegherà la proteina, perché la proteina si flette in modo automatico, reagendo alle sostanze chimiche del mezzo in cui si trova, frutto dell'attività di molecole speciali dette chaperonine, che la spingono ad assumere determinate configurazioni, temperature e altri fattori.

Spesso i biologi credono che tutto ciò che obbedisce in modo passivo alle leggi della fisica o della chimica faccia semplicemente parte dello sfondo su cui lavora la biologia. In questo senso l'unica cosa che conta è che la fisica faccia ciò che le compete; la si può dare per scontata, anche ignorarla: un elefante spinto giú da un dirupo cadrà - ma si tratta di gravità, non di biologia. Tuttavia non è possibile attribuire il ripiegamento proteico a una operazione di fondo di una legge fisica, perché le proteine possono ripiegarsi in un'enorme varietà di modi diversi: anche se nella realtà la configurazione è una sola, dobbiamo pur sempre sapere che forma è stata scelta, perché è una delle caratteristiche principali che determinano la funzione biologica (o le funzioni) della molecola proteica. Pensate all'emoglobina, che agisce come una pinza molecolare raccogliendo e poi posando molecole di ossigeno: non potrebbe svolgere questo compito se non avesse la forma adatta. La figura 7 mostra il ripiegamento dell'emoglobina e le sue due configurazioni leggermente diverse.

Per inciso, non intendo dire che l'emoglobina sia l' unica molecola capace di trasportare ossigeno: una pinza può avere manici con forme diverse senza che ciò comprometta la sua funzione. Analogamente, molte altre proteine potrebbero in linea di principio trasportare ossigeno. Qualsiasi molecola idonea dovrà tuttavia avere una forma che le permetta di comportarsi come una pinza per l'ossigeno. Accenno a questo fatto perché c'è chi sostiene che l'emoglobina sia troppo complessa per essersi evoluta - come se l'evoluzione puntasse nello specifico a questa molecola. Al contrario: l'evoluzione è opportunistica, e si adegua a tutto ciò che funziona.

Questo ruolo della forma non ha solo un'importanza teorica: molte malattie, tra cui quella di Creutzfeldt-Jakob, della «mucca pazza» (BSE) e probabilmente l'Alzheimer, potrebbero essere provocate da proteine mal ripiegate. La capacità di dedurre la forma di una proteina dalla sua sequenza di amminoacidi sarebbe un enorme passo avanti per la biologia, perché sequenziare il DNA è ormai facile ed economico (se si hanno i mezzi, piuttosto costosi, e le competenze richieste), mentre risolvere la forma di una proteina complicata è molto piú difficile.

Il processo ha costituito un grosso rompicapo fino al 1990 circa, quando Joseph Bryngelson e Peter Wolynes dell'Università dell'Illinois hanno escogitato una formulazione matematica del problema in termini di «paesaggio energetico» (energy landscape). Le forze che agiscono in una molecola tra atomi ed elettroni comportano una precisa quantità di energia per ogni configurazione della catena di amminoacidi (o di qualsiasi altra molecola). Secondo la matematica e la fisica dei sistemi dinamici, la molecola si comporterà in modo da ridurre il piú possibile la sua energia. Prendete un elastico e lasciatelo sulla scrivania: tenderà ad assumere una certa forma a riposo. Potete allungarlo in tutte le configurazioni possibili tirando in punti diversi con le dita, ma sentirete un certo grado di resistenza man mano che lo allungate: piú allungate, maggiore è la forza che vi serve per tirare. Ciò che succede è che, per tendere l'elastico, dovete aumentare la sua energia elastica: qualsiasi forma in tensione ha più energia della forma naturale a riposo, e bisogna applicare un lavoro per fornire l'energia aggiuntiva. La forma a riposo quindi è la forma con energia minore.

Per la molecola di una proteina vale piú o meno lo stesso, con la differenza che i diversi amminoacidi la rendono un elastico pieno di bozzi e protuberanze. La forma completamente allungata possiede comunque parecchia energia, e la molecola preferisce contrarsi in una configurazione che ne abbia meno. Cosí la natura può produrre una forma specifica di molecola cucendo assieme gli amminoacidi uno per volta in base a determinate istruzioni genetiche, e poi lasciare semplicemente che la catena si ripieghi su se stessa nella forma richiesta: la minimizzazione dell'energia fa tutto il lavoro sporco, e non tocca ai geni dire alla proteina come ripiegarsi.

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Pagina 313

Capitolo diciassettesimo

Cos'è la vita?


La biologia è lo studio della vita, in tutte le sue forme - su questo pianeta.

Al momento non conosciamo con certezza altri luoghi dell'universo dove la vita esiste o è esistita, perciò «su questo pianeta» potrebbe apparire un'aggiunta superflua. Ma serve a evidenziare una lacuna nelle conoscenze biologiche attuali, che resterebbe tale anche se non ci fosse vita nel resto dell'universo.

Nella sua forma piú cruda, questa lacuna consiste nella domanda generale: «cos'è la vita?» È indispensabile che tutte le forme di vita debbano somigliare per principio alle creature viventi di questo pianeta - nate dalla chimica del carbonio, controllate dal DNA, composte di cellule... in breve, come noi? Non esiste un'alternativa, neanche ipotetica? O può darsi che creature in grado di riprodursi, sufficientemente complesse e organizzate da potersi dire «viventi», siano fatte di altri materiali e strutturate in modi diversi? Meglio ancora: esistono entità simili da qualche parte, nella nostra galassia o in un'altra?

Per dirla senza mezzi termini: gli alieni potrebbero esistere? - Esistono?

La prima parte di questa domanda è molto piú semplice della seconda: possiamo esaminare la possibilità dell'esistenza di forme di vita esotiche senza dover esplorare pianeti che ruotano attorno a stelle lontane. Anche in questo caso però incappiamo in problemi non da poco: abbiamo visto che i biologi non concordano sull'idea che i virus siano organismi viventi, perciò in una certa misura la «vita» è una questione di definizione. Per rispondere alla seconda parte, dovremmo entrare in contatto con una forma di vita extraterrestre - qualsiasi essa sia, secondo la definizione scelta. Potremmo farlo visitando un altro pianeta, osservando tracce chimiche di processi viventi con telescopi potenti, ricevendo messaggi da una civiltà aliena, o aspettando che gli alieni ci facciano visita.

Nel prossimo capitolo dimostrerò che le segnalazioni di UFO e le dichiarazioni di rapimenti alieni non sono prove sufficientemente convincenti per concludere che la quarta opzione si sia già avverata. Il progetto SETI sta portando avanti la terza dal 1961, finora senza successo, ma se davvero esiste una civiltà aliena avanzata, potrebbe dare i suoi frutti in qualsiasi momento. Stiamo appena cominciando a trattare la seconda. La prima per ora dipende da robot esploratori e attualmente è confinata al nostro sistema solare. L'uomo è andato sulla Luna per l'ultima volta nel 1970 e il progetto presentato per farlo arrivare su Marte è stato cancellato.


Secondo alcuni biologi la vita va definita proprio come quella terrestre: basata su carbonio, acqua, chimica organica, DNA, proteine, insomma il pacchetto completo. È una definizione che funziona per noi; tuttavia, stabilendo a priori un'ipotesi cosí limitante per la quale non abbiamo prove, di certo non coglie il punto essenziale. Come se non bastasse, questo concetto di vita va continuamente ritoccato man mano che facciamo nuove scoperte sugli abitanti piú esotici del nostro pianeta: molte forme di vita terrestri sono decisamente lontane da ciò che consideravamo «normale» cinquant'anni fa.

Non posso fare a meno di pensare a due cavernicoli che discutono la definizione di «strumento» e che convengono subito su due punti fondamentali: uno strumento dev'essere fatto di selce e deve poter stare in una mano - altrimenti non ci sarebbe modo di costruirlo né di utilizzarlo. Immaginate le loro facce quando un viaggiatore del tempo si presenta con un bulldozer.

Se vogliamo discutere forme di vita potenziali (simili o diverse dalla nostra), il primo passo è concordare una definizione operativa di «vita», questione a cui dedicherò il resto del capitolo, per ritornare sugli alieni nel prossimo. La vita è uno di quei concetti fastidiosi, solitamente facile da riconoscere quando l'abbiamo davanti ma difficile da fissare con precisione. Personalmente non credo che questo sia una sorpresa o un ostacolo: nella mia esperienza, gli unici concetti scientifici determinabili con precisione assoluta fanno parte di aree già esplorate molto tempo fa. Pensate alla diatriba su Plutone come «pianeta». Anche nella matematica, dove le definizioni precise sono la norma, succede spesso che queste evolvano se la ricerca ne rivela aspetti nuovi. L'abbiamo già visto con termini basilari come «spazio» e «dimensione».

I biologi non possiedono una definizione di «vita» accettata universalmente; hanno invece diverse definizioni rivali, nessuna delle quali è del tutto soddisfacente. Da una parte si può includere esplicitamente nella definizione la chimica del carbonio e il DNA: in questo caso si accetta come forma di vita tutto ciò che utilizza chimica del carbonio e DNA - fine della storia. Cosí però si esclude la maggior parte delle domande interessanti. Da un punto di vista matematico e fisico, la vita sulla Terra sembra un esempio (o meglio un numero enorme di esempi strettamente correlati) di ciò che dovrebbe essere un processo molto piú generale. Molti biologi la pensano cosí, e preferiscono non definire la vita in termini di ciò che la compone, ma di cosa fa e di come funziona, scelta che sembra piú appropriata e meno limitante. È un po' come avere una matematica che si ferma ai numeri da 1 a 100, e chiedersi se un concetto piú generale di numero potrebbe preservare molte delle interessanti caratteristiche osservate in quell'intervallo.

Il risultato è che le attuali definizioni operative di vita si concentrano su ciò che la vita fa, e non su ciò che è. I suoi aspetti principali sono:

- avere una struttura organizzata;

- regolare il comportamento interno in risposta a cambiamenti a breve termine dell'ambiente;

- attuare i due punti precedenti estraendo energia dall'ambiente;

- reagire agli stimoli esterni, ad esempio spostandosi verso una fonte di cibo;

- crescere (non accumulando semplicemente materia senza usarla);

- riprodursi;

- adattarsi a cambiamenti a lungo termine dell'ambiente.


Una creatura vivente non si limita a questo, e i punti non sono mutualmente esclusivi; alcuni sono piú importanti di altri e di alcuni si potrebbe perfino fare a meno. Ma in termini schematici, se un qualche sistema in natura presenta piú di un punto da quest'elenco allora potremmo considerarlo una forma di vita.

[...]


Senz'altro è affascinante scoprire che la vita sulla Terra dipende in gran parte dalla capacità del DNA di contenere informazioni, e solo uno scienziato senza cervello non vorrebbe conoscerne il funzionamento. Ma questo non vuol dire che, alla domanda «vita?», la risposta sia «DNA». Se la domanda fosse «torta», pochi scienziati si accontenterebbero della risposta «bicarbonato»: vorrebbero sapere quale sia esattamente il contributo di questa sostanza e se qualcosa di simile potrebbe condurre allo stesso risultato. Insomma, è impossibile che i dettagli della biochimica terrestre siano la vera spiegazione della vita: dev'esserci un processo astratto, che quella biochimica mette in pratica.

La vita sulla Terra è un esempio, l'unico che conosciamo. La domanda è: un esempio di cosa?

È indispensabile che la vita si basi sul DNA? Se pensate che il DNA sia la chiave della vita, allora dovete rispondere si. Ma anche in questo caso emergono parecchie domande interessanti: il «codice genetico» che trasforma le triplette di DNA in proteine deve essere lo stesso utilizzato sulla Terra? Il codice è tradotto da RNA di trasporto, e gli esperimenti mostrano che questo RNA potrebbe tradurre un codice diverso con lo stesso meccanismo, adoperando lo stesso procedimento chimico. Si può anche sintetizzare un RNA di trasporto non naturale, e l'intero sistema continua a funzionare perfettamente. Dobbiamo quindi accettare come teoria operativa che, almeno in linea di principio, il sistema utilizzato dalla vita sulla Terra non è l'unico possibile.

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Molti hanno adottato le idee di Von Neumann. Tra loro c'è stato John Horton Conway (che abbiamo incontrato nella teoria dei nodi), inventore di un automa cellulare con una dinamica talmente flessibile e «imprevedibile» da avergli assegnato il nome Game of Life: il Gioco della Vita.

Life, come lo si indica di solito, si gioca con delle pedine su una griglia quadrata: si comincia stabilendo una configurazione finita di pedine (lo stato iniziale dell'automa). Per ottenere la configurazione successiva si applica un piccolo insieme di semplici regole, legate al numero di confinanti per ogni pedina. Queste regole decidono la sopravvivenza, la nascita o la morte delle pedine. Le pedine morte vengono rimosse dalla griglia, quelle nuove vengono aggiunte, e le altre restano al loro posto.

Le regole sono:

- una pedina con 0 o 1 pedina adiacente muore;

- una pedina con piú di 3 pedine adiacenti muore;

- una pedina con 2 o 3 pedine adiacenti sopravvive;

- uno spazio vuoto con 3 pedine adiacenti fa nascere una nuova pedina.

Sul web si trova una grande quantità di informazioni su Life, e anche qualche software gratuito per giocarci. Life segue regole rigide, per cui il futuro di ogni configurazione iniziale scelta è completamente determinato: se si riavvia il gioco partendo dallo stesso schema, gli sviluppi successivi si ripetono identici. Eppure il risultato è imprevedibile, nel senso che non esistono scorciatoie, per sapere cosa succederà: l'unica possibilità è avviare il gioco e assistere alla sua evoluzione. Questo è uno dei molti esempi in cui «deterministico» e «prevedibile» differiscono nella pratica, pur essendo essenzialmente la stessa cosa nella teoria.

Nonostante la semplicità delle sue regole, il comportamento di Life può essere sorprendentemente ricco. Tanto ricco, anzi, che a volte la sua imprevedibilità diventa molto spiccata, anche se lo stato iniziale determina senza eccezioni tutto ciò che avviene negli stati successivi. Nel 1936 Alan Turing forni una soluzione al problema della terminazione, dimostrando che in assoluto è impossibile prevedere se un programma informatico terminerà con una risposta o andrà avanti all'infinito - ad esempio restando bloccato in un loop e ripetendosi per sempre. Conway e altri dimostrarono che esiste una configurazione di Life che produce una macchina di Turing universale, una rappresentazione matematica di un computer programmabile. Quindi non esiste un modo per prevedere se una certa configurazione di Life andrà avanti per sempre o si interromperà.

[...]


Negli ultimi trent'anni, un flusso apparentemente infinito di sistemi di vita artificiale, definiti in molti modi diversi, ha chiarito a sufficienza tre concetti - tutti e tre contrari alla maggior parte delle intuizioni passate:

1) Quasi ogni sistema basato su regole, che abbia comportamenti più complessi dei semplici stati stazionari e cicli periodici, può produrre comportamenti molto complessi; nei sistemi basati su regole, il comportamento complesso è la norma.

2) Non c'è nessun rapporto significativo tra la complessità o semplicità delle regole, e la complessità o semplicità del comportamento che ne risulta: regole complesse possono produrre comportamenti semplici o complessi; regole semplici possono produrre comportamenti semplici o complessi. Non esiste «conservazione della complessità» tra regole e comportamento.

3) L'evoluzione è un mezzo straordinariamente potente per produrre strutture e processi molto complessi senza dover progettare in modo esplicito le caratteristiche desiderate nelle entità in evoluzione.

[...]

La linea filosofica conosciuta come weak alife (vita artificiale debole) sostiene che l'unica possibilità di creare un processo vivente sia attraverso la chimica. Poiché abbiamo già visto che il sistema standard presente sulla Terra, e basato sul DNA, continua a funzionare anche se lo modifichiamo, non si può arretrare oltre questa soglia e insistere che l'unica forma di vita possibile sia quella che conosciamo. Nondimeno, non avendo prove concrete di vita non-chimica, si può ragionevolmente sostenere che tutta la vita debba essere chimica.

Il messaggio principale della vita artificiale però è piú fantasioso e speculativo. Risale ancora una volta a Von Neumann, e prende il nome di strong alife (vita artificiale forte): chi sostiene questa posizione crede che la vita non sia un processo chimico specifico ma una forma generale di processo, che non dipende dal mezzo usato per metterla in atto.

Se quest'ultima teoria è corretta, allora conta ciò che la vita può fare, e non cosa la compone.

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Capitolo diciottesimo

C'è qualcuno là fuori?


Armati dei diversi significati attribuibili alla parola «vita», torniamo ora alla domanda sollevata all'inizio del capitolo precedente: esiste la vita al di fuori del nostro pianeta?

Gli studiosi non hanno mai osservato una forma di vita aliena, eccetto per quelli che potrebbero essere minuscoli fossili all'interno di un meteorite scoperto in Antartide e denominato ALH 84001, che secondo alcuni sarebbe una testimonianza di vita passata su Marte (fig. 1): nel 1996 scienziati della NASA hanno annunciato che il meteorite, considerato proveniente da Marte, conteneva batteri fossili microscopici.

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Se proprio insistete... Ci sono valide ragioni per supporre che il DNA potrebbe non essere l'unica scelta possibile. Nel capitolo precedente abbiamo visto come quasi ogni elemento principale della biochimica terrestre possa essere modificato e continuare comunque a funzionare: si può cambiare la struttura molecolare del DNA; usare un codice genetico diverso per trasformare le sequenze di basi in amminoacidi (i mattoni delle proteine); si può perfino cambiare il numero di basi che codificano per un amminoacido, da tre (le solite triplette) a quattro; si può cambiare l'elenco di amminoacidi; si possono adoperare altre proteine per funzioni specifiche; la vita può esistere senza ossigeno, senza luce del Sole, e - secondo una conferenza tenuta qualche anno fa alla Royal Society - senz'acqua.

Forme di vita che facciano a meno della chimica del carbonio-ossigeno come fonte di energia dovranno adoperare qualcos'altro, e una possibilità è sfruttare zolfo e ferro: Günter Wächtershäuser, chimico e avvocato di brevetti, ha ipotizzato che la vita sulla Terra sia sorta inizialmente in un condotto idrotermale del fondale oceanico, sfruttando la chimica tipica di quell'ambiente, in particolare i composti di zolfo e ferro. Con l'aggiunta di piccole quantità di catalizzatori, ad esempio nichel e cobalto, un flusso di acqua calda su un composto di zolfo e ferro può produrre molecole organiche ragionevolmente complesse, note come metallopeptidi. Esiste qualche prova sperimentale al riguardo, ma non è ben chiaro quali livelli di complessità possa raggiungere questo tipo di chimica. È comunque un'alternativa plausibile alla chimica del carbonio e potrebbe aver dato origine a forme di vita primitive.

In via meno ipotetica, esiste un lago sul fondale del mar Mediterraneo a 3,5 chilometri dalla superficie, a ovest di Creta. Parlo di «lago» perché in quel punto si è raccolto un denso strato di acqua particolarmente salata, accumulatasi sul fondo. È quasi priva di ossigeno disciolto, ma è ricca di acido solfidrico, che risale da uno spesso strato di melma. Le uniche forme di vita che ci aspettiamo di trovare dovrebbero essere batteri anaerobici (che fanno a meno dell'ossigeno). Invece ci vivono piccoli animali complessi, con un metabolismo a idrogeno-zolfo. Per Bill Martin, un biologo evolutivo, la presenza di questi animali modifica la nostra idea dell'origine degli eucarioti.

Secondo la teoria classica, l'evoluzione degli eucarioti è avvenuta grazie a un massiccio accumulo di ossigeno negli oceani e nell'atmosfera, prodotto di scarto di batteri e alghe fotosintetiche. L'ossigeno è una potenziale fonte di energia, perciò gli organismi potrebbero evolvere la capacità di sfruttarlo: è proprio ciò che fanno i mitocondri, che sono vitali per gli eucarioti e proteggono la cellula dagli effetti tossici dell'ossigeno (nell'ossigeno, le cose bruciano). Seconda Martin, il problema è aggravato dal fatto che l'ossigeno è reattivo solo quando è in forma di radicali liberi, e i mitocondri producono radicali liberi. Il processo per ricavare energia dall'ossigeno è talmente complesso che la sua evoluzione deve aver richiesto parecchio tempo. Per miliardi di anni quindi gli oceani sarebbero stati stracolmi di acido solfidrico, senza che l'ossigeno intossicasse gli anaerobi, e perciò gli eucarioti sarebbero il prodotto non dell'ossigeno ma di idrogeno e zolfo. Gli animali del lago sommerso potrebbero essere la prova di questo processo, naturalmente modificata da un miliardo di anni di evoluzione. Se la tesi di Martin è corretta, l'inizio della vita terrestre è stato tutt'altro che terrestre - e se l'ossigeno non serviva sulla Terra, è sciocco credere che sia indispensabile per gli alieni.

Esiste un altro argomento contro l'unicità del DNA e della chimica a esso associata: d'accordo, ci sono milioni di specie diverse sul pianeta Terra, e tutte usano la stessa biochimica; ma ciò non implica che altre opzioni siano impossibili, perché in fondo tutte queste specie si sono evolute dalle stesse forme primitive ancestrali. La vita si riproduce: non appena qualcosa funziona, la ritroviamo dappertutto. In un certo senso, questi milioni di specie non costituiscono una dimostrazione maggiore della necessità di un particolare schema biochimico, non più che se fossero un'unica specie.

Non solo: perfino su questo pianeta troviamo specie in habitat completamente diversi, cosí diversi che fino a poco tempo fa i biologi negavano la possibilità che potessero ospitare forme di vita. Si tratta di forme primitive, al livello di batteri, e sono note nel complesso come estremofili: organismi in grado di sopravvivere in condizioni estreme. Alcune abitano tranquillamente in acque bollenti, altre in acque fredde al di sotto del punto di congelamento. Sono stati scoperti estremofili a tre chilometri nel sottosuolo, nella stratosfera, e ce ne sono alcuni in grado di sopravvivere a livelli di radiazioni che sarebbero fatali per qualsiasi altra forma di vita.

[...]


Fino a poco tempo fa molti, scienziati inclusi, erano convinti con buone ragioni (o cosí credevano) che la Terra fosse unica, il solo pianeta in grado di supportare la vita. Ecco come procedeva il loro ragionamento: «sapevano» che la Terra è il solo pianeta di questo tipo nel sistema solare, perché il sistema solare è l'unico luogo nell'universo che ha dei pianeti. A supporto di questa certezza c'era una constatazione evidente: non erano mai stati osservati pianeti attorno ad altre stelle, perciò la loro stessa esistenza non era che un'ipotesi. Nella scienza solida non c'è posto per le considerazioni ipotetiche: l'unico motivo per credere all'esistenza di altri pianeti era la pura speculazione, basata su conoscenze limitate della formazione del nostro sistema solare.

Queste conoscenze comunque suggerivano l'esatto opposto: che il Sole non ha niente di speciale, per cui è probabile che altrove siano avvenuti processi simili - tra cui la nascita di altri pianeti. Era plausibile ma non c'erano prove, dunque non era scienza.

Questo specifico modo di pensare ha fatto la fine del dodo: oggi conosciamo 518 pianeti che ruotano attorno ad altre stelle. Il termine tecnico è «esopianeti». Ogni settimana se ne aggiungono di nuovi: sta diventando evidente che una percentuale significativa delle stelle nell'universo, forse la maggioranza, possiede pianeti. Può darsi che non riusciremo mai a osservare direttamente la gran parte di questi mondi, ma un campione casuale di solito è indizio di una verità piú ampia. I pianeti non sono piú un problema: l'unico motivo per cui non li avevamo avvistati prima era che ci mancava la tecnologia per individuarli. La frontiera del dibattito a questo punto si è spostata sull'esistenza di pianeti ù.cor come la Terra: quasi tutti gli esopianeti sono enormi, piú grandi di qualsiasi pianeta del sistema solare, tali che perfino Giove sembra minuscolo al confronto. I critici irriducibili si sono ritirati su una posizione già pronta, e ora insistono a sottolineare che le prove mostrano solo l'esistenza di pianeti giganteschi, che non si potrebbero immaginare piú diversi di cosí dalla Terra - il che per loro equivale a dire che su questi pianeti la vita è impossibile. Di nuovo, c'è un motivo se la maggior parte degli esopianeti noti non assomiglia alla Terra: i metodi utilizzati per individuarli funzionano meglio quando i pianeti sono molto grandi.

Tecniche migliori di osservazione hanno superato anche questa frontiera: oggi sappiamo di esopianeti molto piú piccoli e possiamo già identificare i gas principali delle loro atmosfere. Nel 2008 il gruppo di Mark Swain al Jet Propulsion Laboratory in California ha scoperto la prima molecola organica su un esopianeta, il metano. La scoperta è avvenuta su HD 189733b, un «Giove caldo» a circa 63 anni luce dalla Terra. Su GJ 1214b invece è stato ritrovato vapore acqueo, e gli stessi metodi dovrebbero riuscire e rivelare la presenza di ossigeno.

Tutto ciò indica che non è saggio liquidare una possibilità ragionevole sulla scorta della mancanza di osservazioni che la supportano: occorre dimostrare in maniera indipendente che quella possibilità è intrinsecamente improbabile. In qualsiasi momento una mancanza di osservazioni può smettere di essere tale grazie all'invenzione di una nuova tecnica: l'attuale assenza di forme di vita aliena, diverse da quelle terrestri, potrebbe essere dovuta semplicemente all'assenza di prove, proprio come l'assenza di pianeti simili alla Terra dipendeva, fino a poco tempo fa, da una mancanza di prove dell'esistenza di pianeti - il che non costituisce una dimostrazione di quest'assenza.

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Vale la pena dare uno sguardo ravvicinato alla matematica delle zone abitabili, per capire da dove derivano le difficoltà. Le stime partono da un concetto centrale della termodinamica: i corpi neri. Un oggetto verde appare verde al nostro sistema visivo perché riflette la luce del Sole in un intervallo di lunghezze d'onda che il nostro cervello interpreta come «verde». Un oggetto nero invece non riflette alcuna lunghezza d'onda nell'intervallo della luce visibile: il nero è un po' l'impostazione predefinita del cervello per questi oggetti. Il corpo nero in fisica ne è una versione astratta ed estrema: non riflette alcuna radiazione elettromagnetica.

La riflessione però non è l'unico modo possibile di emettere radiazioni. Un corpo nero non emette radiazioni di nessun tipo a zero gradi kelvin (lo «zero assoluto»: la minore temperatura possibile), ma a qualsiasi altra temperatura sí: semplicemente non attraverso la riflessione, ma risplendendo incandescente, come una barra di ferro rovente. L'intensità della radiazione emessa dipende dalla sua temperatura e lunghezza d'onda. Secondo la fisica classica un corpo nero dovrebbe emettere una quantità di energia infinita, il che non ha senso. Nel 1901, Max Planck ottenne una nuova formula che si accordava alle osservazioni, e che piú avanti divenne una delle prime prove a sostegno della fisica quantistica.

Con la legge di Planck possiamo ricavare una formula per la temperatura di un pianeta in orbita attorno a una stella, che a sua volta ci permette di calcolare dove cade il confine interno ed esterno della sua zona abitabile. Ne esistono due versioni. Quella piú semplice tratta il pianeta come un corpo nero. Un pianeta reale però rifletterà una parte della radiazione che lo colpisce: il secondo modello ne tiene conto incorporando nella formula un'altra quantità, detta albedo del pianeta (la frazione di radiazione in arrivo che viene riflessa).

La prima versione porta a una zona abitabile che dipende esclusivamente dalle caratteristiche della stella. Se si aggiunge l'albedo, la zona abitabile dipenderà anche dalle caratteristiche del pianeta considerato - reale o ipotetico. La seconda versione è piú generale della prima: se infatti poniamo l'albedo uguale a zero (il valore di albedo di un corpo nero), riotteniamo il primo modello. Questa formula collega la temperatura del pianeta alle dimensioni della stella, alla distanza della stella dal pianeta, alla sua temperatura di superficie e all'albedo del pianeta.

[...]

Le distanze medie dei quattro pianeti piú vicini al Sole, in chilometri, sono 58 milioni per Mercurio, 108 milioni per Venere, 150 milioni per la Terra e 228 milioni per Marte. Dunque, per albedo 0 la Terra è all'interno della zona abitabile solo per un pelo... ma lo stesso vale per Venere. Per albedo 0,3, solo Venere è nella zona abitabile: la Terra e Marte sono troppo fredde, Mercurio troppo caldo.

Perché, allora, la Terra è abitabile? Perché la sua atmosfera contiene gas serra, soprattutto anidride carbonica e vapore acqueo, che intrappolano la radiazione in arrivo e rendono la Terra piú calda che se non avesse atmosfera. Il calcolo standard di una zona abitabile però non prende in considerazione l'atmosfera del pianeta: l'idea che una stella abbia una zona abitabile, indipendente dalle proprietà del pianeta considerato, è una semplificazione eccessiva. Naturalmente, in un senso qualitativo molto generale, è vero che se un pianeta è troppo vicino alla sua stella tutta l'acqua presente sulla sua superficie evaporerà, e se è troppo lontano ghiaccerà. Ma l'espressione «zona abitabile» lascia intendere un'idea di precisione che è fuorviante.

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In opposizione alla tesi di Rare Earth, descriverò alcune simulazioni e modelli matematici elaborati da Dimitar Sasselov , Diana Valencia e Richard J. O'Connell, astrofisici di Harvard, secondo i quali i pianeti in grado di supportare forme di vita simili a quelle terrestri potrebbero essere molto piú diffusi di quanto non si creda. I loro risultati mettono anche in discussione l'opinione comune che la Terra sia il tipo di pianeta ideale per queste forme di vita.

Il punto di partenza del loro lavoro è la constatazione che, per avere forme di vita di tipo terrestre, le condizioni non richiedono necessariamente che i pianeti interessati siano di dimensioni simili al nostro. Ciò che conta è che assomiglino alla Terra in un aspetto fondamentale: la presenza di una tettonica delle placche. Sempre piú infatti si sospetta che il movimento dinamico dei continenti contribuisca alla stabilizzazione del clima terrestre. In particolare, l'anidride carbonica viene riciclata dall'atmosfera ai fondali oceanici, dove è assorbita da microrganismi marini e trasformata in carbonati che, soggetti a subduzione, saranno poi ritrasformati in anidride carbonica dai vulcani. Un clima stabile contribuisce all'esistenza di acqua liquida per periodi di tempo geologicamente lunghi, e l'acqua è imprescindibile per il nostro tipo di vita - anche se altre forme potrebbero farne a meno. Questo a sua volta permette l'evoluzione di forme di vita complesse dipendenti dall'acqua.

Si riteneva che la tettonica delle placche fosse qualcosa di raro, e che richiedesse un pianeta di dimensioni paragonabili al nostro: la crosta di un pianeta molto piú piccolo non potrebbe frantumarsi in placche adeguate, mentre un pianeta molto piú grande sarebbe un gigante gassoso e non avrebbe una vera e propria superficie. Sasselov e colleghi hanno dimostrato che entrambe queste premesse sono false: la tettonica delle placche potrebbe anzi essere molto diffusa e presentarsi in pianeti molto piú grandi della Terra. Il motivo è l'esistenza di «super Terre»: mondi rocciosi con una composizione simile alla nostra, ma con massa molto maggiore. Nessuno prima di loro aveva mai investigato i processi geologici interni di corpi simili, forse perché non si conoscevano esopianeti di questo tipo. Tutti gli esopianeti noti infatti erano troppo grandi, e non potevano che essere giganti di gas. Questa era la situazione quando il gruppo ha cominciato a elaborare il suo modello e ha pubblicato il suo primo articolo.

Nel 2005 però, il quadro era già cambiato con la scoperta dell'esopianeta GJ 876 d, in orbita attorno alla stella Gliese 876.

[...]

Ora abbiamo pianeti concreti che supportano l'analisi teorica di Sasselov e colleghi, rendendo piú interessanti le loro previsioni. Per prima cosa, il gruppo ha indicato l'esistenza di due tipi di super Terra: con molta e con poca acqua. Il primo tipo si formerebbe molto lontano dalla sua stella madre, producendo grandi quantità di ghiaccio. Il secondo deve formarsi piú vicino, e sarebbe relativamente asciutto. Entrambi dovrebbero acquisire un grande nucleo ferroso, man mano che le parti piú dense dei materiali fusi sprofondano verso il centro, e un mantello di silicati, man mano che i materiali piú leggeri risalgono in superficie. Le super Terre ricche di acqua avrebbero oceani molto profondi al di sopra del mantello; quelle piú asciutte avrebbero oceani piú sottili, o non ne avrebbero affatto.

[...]

In breve: è probabile che la tettonica delle placche sia piú diffusa su grandi super Terre che su pianeti simili al nostro e con dimensioni paragonabili. E dovrebbe avvenire anche con maggiore velocità, perciò il ciclo di subduzione e l'attività vulcanica, responsabili di mantenere stabile la concentrazione di anidride carbonica, semmai sono anche piú efficienti. Insomma è probabile che, su una scala temporale geologica, una super Terra molto piú grande del nostro pianeta abbia un clima piú stabile del nostro, facilitando l'evoluzione di forme di vita complesse.

Quest'analisi sovverte completamente il quadro della «Terra rara». I pianeti come la Terra (con dimensioni piú o meno paragonabili) dovrebbero essere abbastanza frequenti ma, relativamente parlando, piuttosto rari. Il numero possibile di super Terre nella galassia invece è assai maggiore, perciò le prospettive per la vita sono molto piú alte che se ci concentrassimo solo sui pianeti terrestri. Lo studio solleva anche seri dubbi sulla tesi Riccioli d'oro, perché scopriamo che la Terra, lungi dall'essere «perfetta», è in realtà all'estremo inferiore dell'intervallo di dimensioni accettabili per lo sviluppo di una tettonica delle placche: se fosse appena piú piccola non avrebbe placche, e può darsi che la vita complessa non si sarebbe sviluppata.

Secondo quest'analisi, il pianeta terrestre ideale è molto più grande della Terra, e noi rientriamo nell'intervallo accettabile solo per un pelo.

Questo lavoro contiene un messaggio generale che merita maggiore considerazione: il modo corretto di studiare la probabilità di vita aliena non è concentrarsi su condizioni praticamente identiche a quelle del nostro pianeta, per poi argomentare (confondendo, come spesso accade, sufficienza e necessità) che siano le uniche adatte alla vita. Ciò che davvero conta è proprio quanto un pianeta possa essere diverso dal nostro e supportare comunque forme di vita, adattate dall'evoluzione alle sue condizioni predominanti.

Quanto possono essere diversi da noi gli esseri viventi e i loro mondi? Se partiamo dall'assunto che debbano tutti somigliarci, non lo sapremo mai.


Ma forse la vita aliena è già stata scoperta.

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Pagina 361

Capitolo diciannovesimo

La sesta rivoluzione


Da molti secoli la matematica ha un ruolo centrale nelle scienze fisiche. Nel 1623 Galilei scriveva:

La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.


Le sue parole sono state profetiche: a partire dal XVII secolo la matematica è diventata una forza motrice essenziale per il progresso delle scienze fisiche, e oggi matematica e fisica (assieme ad astronomia, chimica, ingegneria e altre discipline correlate) sono diventate inseparabili.

Eppure, fino a poco tempo fa la matematica aveva un ruolo assai piú ridotto nel loro sviluppo. Uno dei motivi lo si trova in quella vecchia storiella dell'allevatore che assume dei matematici per aiutarlo a migliorare la resa del latte. Quando gli presentano il loro rapporto, lui lo apre e gli basta leggere la frase iniziale: «Consideriamo una mucca sferica...» Il linguaggio di triangoli e cerchi descritto da Galilei sembra assai distante dalle forme organiche del mondo vivente: difficilmente troverete una mucca in Euclide.

Questa storiella è divertente, e nasconde una lezione per gli aspiranti biomatematici. Ma rivela anche un fraintendimento sui modelli della matematica, che per essere utili non devono costituire per forza una rappresentazione esatta della realtà. Anzi, di solito meno sono realistici piú si rivelano fruttuosi, a patto di fornire comunque indicazioni importanti: un modello con la stessa complessità del processo o dell'oggetto che rappresenta, probabilmente sarà troppo complesso per essere utile. Lavorare con un modello semplice è piú facile. Una mucca sferica insomma sarà inutile se volete che partorisca un vitello, ma potrebbe essere un'approssimazione preziosa se vi state interrogando sulla diffusione di certe malattie della pelle nei bovini.

Naturalmente un buon modello deve essere abbastanza realistico da non escludere nessun fattore di importanza vitale: se modellizzate una popolazione di conigli ipotizzando conigli immortali, osserverete un'esplosione di popolazione che ha poco a che vedere con la realtà. Eppure, anche in questo caso, il vostro modello potrebbe cogliere il senso della velocità con cui cresce una piccola popolazione prima di raggiungere i suoi limiti ambientali - perciò non scartatela troppo presto. Ciò che conta è cosa il modello prevede, non cosa esclude.

Una parte dell'arte della biomatematica consiste nella scelta di modelli utili; un'altra nel prendere sul serio la biologia senza escludere nulla di essenziale; una terza nel prestare attenzione ai problemi che i biologi vogliono risolvere. A volte però è altrettanto importante fare un passo indietro, testare una nuova idea matematica in un contesto semplice ma irrealistico e vedere dove ci porta.

C'è un'altra vecchia storiella, su un ubriaco che cerca le sue chiavi sotto un lampione: «Ti sono cadute qui?», «No, ma questo è l'unico posto dove c'è abbastanza luce per cercarle». Non si apprezza mai abbastanza il fatto che, nel suo contesto originale (Il potere del computer e la ragione umana, di Joseph Weizenbaum ), questa battuta era un'analogia con la scienza: il punto era che nella scienza dobbiamo cercare sotto al lampione, o non troveremo mai nulla. Forse, e dico forse, troveremo una torcia, anche se le chiavi sono da qualche altra parte lungo la strada, nel canale di scolo. Molti dei temi trattati in questo libro sono sorti da semplificazioni folli ed eccessive, il meglio che si potesse fare all'epoca, ma si sono poi rivelate incredibilmente istruttive in ambito biologico. È importante non sopprimere sul nascere una buona idea.

Se ripensiamo a come la biologia ha cominciato a adottare la matematica, salta subito all'occhio una cosa: questo connubio esisteva già da molto tempo, prima che chiunque se ne fosse accorto. Le scoperte di Mendel si basavano su semplici schemi matematici relativi al numero di piante con certe caratteristiche. Anche se lo sviluppo iniziale del microscopio è stato empirico, l'ottica entrò presto a far parte del quadro, perché senza ottica è impossibile sviluppare un microscopio davvero ottimale. Uno degli indizi che hanno portato alla scoperta della struttura del DNA è stato la prima regola di Chargaff, una relazione numerica eclatante ma inspiegabile, che non poteva essere una coincidenza. La legge di Bragg sulla diffrazione dei raggi X si è rivelata altrettanto cruciale, e da essa dipende molto di ciò che sappiamo sulla struttura delle molecole biologicamente significative. E, anche se l'evoluzione non ha acquisito espressioni di tipo matematico se non di recente, Darwin si trovava sul Beagle perché, fra le altre attività, la nave stava conducendo un'indagine cronometrica - una tecnica matematica per calcolare la longitudine.

La sesta rivoluzione di cui parlo, quindi, non è rivoluzionaria nel senso che nessuno prima d'ora aveva mai usato la matematica per risolvere un problema biologico: ciò che è rivoluzionario è l'estensione dei metodi adoperati, e fino a che punto cominciano a definire i programmi di certe branche della biologia. Dubito che la matematica arriverà mai a dominare il pensiero biologico come è avvenuto per la fisica, tuttavia il suo ruolo sta diventando vitale. Nel XXI secolo la biologia sfrutta la matematica in un modo che sarebbe stato inconcepibile all'inizio del XX. Prima che questo secolo sia finito, matematica e biologia si saranno modificate a vicenda fino a rendersi irriconoscibili, proprio come è successo tra matematica e fisica negli ultimi duecento anni.

Al tempo di Darwin fu la geologia, e non la matematica, a rivelarsi cruciale per la nascente teoria dell'evoluzione. Negli anni Sessanta la chimica è diventata la base essenziale per la biologia della cellula. Si è poi aggiunta l'informatica, con l'avvento della bioinformatica. Ora fisica e matematica stanno facendo il loro ingresso. E la biologia non è l'unica a subire questo cambiamento: lo stesso vale per tutte le altre branche della scienza. I confini convenzionali cadono: non è piú possibile studiare la biologia come se il resto della scienza non esistesse.

Invece di insiemi isolati di scienziati, ciascuno ossessionato dalla propria ristretta specialità, le frontiere scientifiche di oggi richiedono sempre piú squadre di individui con interessi variegati e complementari: la scienza sta passando da un agglomerato di villaggi a una comunità globale. E se la storia della biologia matematica ci insegna qualcosa, è che comunità interconnesse possono ottenere risultati impossibili per i singoli membri.

Benvenuti nell'ecosistema globale della scienza di domani.

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