Copertina
Autore Achille C. Varzi
Titolo Il mondo messo a fuoco
SottotitoloStorie di allucinazioni e miopie filosofiche
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2010, i Robinson Letture , pag. 208, cop.fle., dim. 14x21x1,6 cm , Isbn 978-88-420-9205-6
LettoreGiorgia Pezzali, 2010
Classe filosofia , logica
PrimaPagina


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Indice


Prologo. Che cosa c'è e che cos'è

con Maurizio Ferraris                                5

Prosieguo                                           29


Prima missiva. Il mondo messo a fuoco               31

- Fra la terra e il cielo, p. 31
- Né in cielo né in terra, p. 35
- Sui tavoli non ci piove, p. 38
- Tra miopia e allucinazioni, p. 41
- Destra o sinistra?, p. 50

Seconda missiva. Esperienze di confine              55

- Naturale e artificiale, p. 56
- I confini delle cose, p. 61
- Oltre la geografia, p. 64
- Il cattivo macellaio, p. 69
- Un estremismo modesto, p. 73

Terza missiva. Problemi d'identità                  83

- Le cose cambiano, p. 83
- Storie di tavoli, p. 86
- La quarta dimensione, p. 90
- Non bastano le particelle?, p. 95
- Misteri e pregiudizi, p. 100
- Questioni di scelta, p. 105

Quarta missiva. Gli occhiali del senso comune      109

- Un mondo spaccato in due, p. 110
- Vedere e sapere, p. 116
- I modi del riferimento, p. 119
- Dove sta l'errore?, p. 123
- Errori utili, bugie vere, p. 127
- Un po' di buon senso, p. 132

Quinta missiva. «An sit» e «quid sit»              135

- A ciascuno il suo, p. 135
- Un catalogo o due?, p. 137
- La metafisica viene dopo, p. 139
- Esercizio facoltativo, p. 143
- Neutralità e indeterminatezza, p. 147
- Complicazioni, p. 149
- Essere e non essere, p. 153

Epilogo. Il piano di un Quadrato                   159


Annotazioni                                        169
Fonti e ringraziamenti                             191
Indice analitico                                   197

 

 

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Pagina 3

All'inizio c'è il mondo. Non è tutto uguale: qui è caldo, lì è madre, là è rumore. Ben presto cominciamo a distinguere e a riconoscere: di nuovo caldo, ancora madre, altro rumore! Ciononostante, tutte queste cose appaiono inizialmente del medesimo conio. Esse sono, nelle parole di Willard Quine , mere manifestazioni del nostro sporadico incontro col mondo, porzioni di quel tutto che è. Solo col trascorrere del tempo questo tutto si veste di forme: gli oggetti si staccano dallo sfondo e acquistano una loro individualità, cadono, si rompono, si muovono, scompaiono e ricompaiono; le sensazioni acquisiscono contorni definiti, si ripresentano, si assomigliano nel ricordo; i rumori cambiano a seconda delle cose che ci sono. Cominciamo a fare e a prevedere. Cominciamo a dare nomi, a usare verbi, a dipingere aggettivi. Questo nostro meraviglioso evolverci è materia di studio per gli psicologi e i biologi, ed eventualmente per i sociologi. Ma per il filosofo esso è soprattutto fonte di un'ambiguità profonda e ancora più misteriosa, diciamo pure un dilemma: stiamo imparando a riconoscere la struttura del mondo o stiamo imponendo al mondo una certa struttura? È la realtà che poco per volta ci rivela i meccanismi secondo cui è organizzata, o siamo noi a organizzare il flusso informe e continuo della nostra esperienza?

Non è un'esagerazione affermare che la storia della filosofia è in buona misura la storia di questo dilemma. È la storia di due visioni opposte i cui alfieri oscillano, nei modi e nelle strategie argomentative se non proprio nelle convinzioni più estreme, tra l'Hylas e il Philonous dei Tre dialoghi di George Berkeley. Hylas è il filosofo realista: la visione di cui assume le difese riflette una metafisica robusta, vicina al senso comune, fondata sulla duplice persuasione che il mondo sia strutturato in entità di vario genere e a vari livelli e che sia compito della filosofia, se non della scienza tutta, «portare alla luce» tale struttura. Philonous, per contro, è il filosofo antirealista (ma non per questo idealista): la sua è una metafisica scarna, asciutta, e nasce dal convincimento che buona parte della struttura che siamo soliti attribuire alla realtà esterna risieda a ben vedere nella nostra testa, nelle nostre «pratiche organizzatrici», nel complesso sistema di concetti e categorie che sottendono alla nostra rappresentazione dell'esperienza e al nostro bisogno di rappresentarla in quel modo.

Il dialogo con cui si apre questo libro, scritto a quattro mani con Maurizio Ferraris, esemplifica i motivi e le ramificazioni di questo confronto nei termini in cui ci piace pensare che continui a richiedere una presa di posizione. Non posso dire fino a che punto Maurizio si immedesimi nella parte di Hylas, benché il merito di aver trovato le parole con cui il filosofo realista esprime il proprio credo sia tutto suo. Per parte mia posso comunque dire di provare più simpatia per le tesi opposte, quelle di Philonous, o almeno per il modo di mettere a fuoco il mondo che in quelle tesi trova espressione. Nei sei saggi che fanno seguito al dialogo, ciascuno in forma epistolare, cerco di spiegare le ragioni di questa mia simpatia.

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Pagina 5

Prologo
Che cosa c'è e che cos'è
con Maurizio Ferraris



PRIMO GIORNO


Hylas. «Veramente, la distruzion de' frulloni e delle madie, la devastazion de' forni, e lo scompiglio de' fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva.» Confesso che il fastidio di Manzoni verso le metafisiche inconcludenti mi sembra sacrosanto. Ma soprattutto mi pare sacrosanto il suo richiamo al buon senso, quando aggiunge che «senza essere un gran metafisico, un uomo ci arriva talvolta alla prima, finch'è nuovo nella questione...

Philonous. ...e solo a forza di parlarne, e di sentirne parlare, diventerà inabile anche a intenderle.» Conosco il testo. Ma devo dire che non capisco bene il motivo di questo sarcasmo. Chissà a quali filosofi si riferiva.

Hylas. O a quali sottigliezze metafisiche. Non credi comunque che ci sia del vero nelle sue parole? A volte la metafisica tende effettivamente a complicare le cose, piuttosto che a chiarirle.

Philonous. Per esempio?

Hylas. Per esempio la questione ontologica. Alla domanda «Che cosa esiste?» i filosofi hanno dato le risposte più disparate, mentre sarebbe naturale aspettarsi che almeno su questo ci si debba trovare d'accordo. In fondo viviamo tutti nello stesso mondo e ci nutriamo tutti dello stesso cibo.

Philonous. Vorrei ben sperare. Ma perché dici che sulla questione ontologica i filosofi non si trovano d'accordo?

Hylas. Non è forse così?

Philonous. Non lo so. A me è stato insegnato che la domanda «Che cosa esiste?» può ammettere un'unica risposta: esiste tutto.

Hylas. Tutto?

Philonous. Tutto. Né potrebbe essere altrimenti, Hylas. Non mi dirai che ci sono delle cose che non esistono? Sarebbe una contraddizione in termini.

Hylas. Ma come la mettiamo con le chimere, i fantasmi, e altre invenzioni del genere? Non voglio nemmeno ritrovarmi a dire che queste cose esistono.

Philonous. Certamente no. Ma dire che non esistono le chimere non significa dire che le chimere sono cose che non esistono. Significa semplicemente che tra le cose che esistono non c'è nessuna chimera. Tutto esiste, ma nulla chimereggia.

Hylas. E nulla fantasmeggia. Bene, allora sono d'accordo. Esiste tutto, ma questo tutto include solo cose come i tavoli, le sedie, gli alberi, gli animali in carne e ossa.

Philonous. Mettiamola pure così.

Hylas. Come vorrei che ci sentisse Manzoni! Abbiamo appena dato prova di come si possa disquisire di metafisica tenendo i piedi per terra. Sono contento che sulla questione ontologica la si pensi allo stesso modo.

Philonous. Dipende.

Hylas. Ma non hai appena affermato di essere d'accordo, e che non potrebbe essere altrimenti?

Philonous. Sono ovviamente d'accordo che esiste tutto, e sono d'accordo che questo tutto include delle cose che tavoleggiano, per esempio. Ma mi viene il dubbio che tu possa pensare che in aggiunta a queste cose ci siano anche i tavoli.

Hylas. E come no? Sui tavoli non ci piove. O meglio: ci piove, ed è per questo che non possiamo dubitare della loro esistenza. Altrimenti la nostra filosofia ci costringerebbe a cenare in piedi.

Philonous. Ci sono delle particelle che tavoleggiano, e in questo senso i tavoli esistono (a differenza delle chimere). Ma tant'è. Dovendo fare un catalogo delle cose che si trovano in questa stanza mi accontenterei di elencare le particelle.

Hylas. Ma non si tratta solo di dire che i tavoli esistono. Vogliamo anche poter dire che questo tavolo, per esempio, si trova in cucina...

Philonous. Ci basta dire che queste particelle tavoleggiano in cucina.

Hylas. ...o che il tavolo è quadrato, che è robusto, e che ha un sacco di altre proprietà.

Philonous. D'accordo. Le particelle non tavoleggiano in maniera generica. Tavoleggiano così e cosà. Siccome non è facile trovare l'avverbio giusto, a volte ci vien comodo introdurre degli aggettivi per descrivere la situazione. Ma ciò non deve trarci in inganno: attribuire una proprietà a questo tavolo significa solo precisare meglio in che modo queste particelle tavoleggino.

Hylas. Non so fino a che punto tu possa spingerti per questa strada. Come la metti col fatto che il tavolo è sporco di marmellata? Immagino che le tue particelle non siano cose che si sporcano tanto facilmente. Ci sono particelle di legno e particelle di marmellata, ma a modo loro sono entrambe pulite. Il solo modo per dire che il tavolo è sporco è assumere che ci siano davvero cose come i tavoli, in aggiunta alle particelle di cui sono fatti.

Philonous. Ci sono particelle che tavoleggiano e altre che marmellateggiano, e quando dobbiamo descrivere una situazione in cui particelle del secondo tipo si accostano a particelle del primo tipo ce la caviamo dicendo che il tavolo è sporco. Una comoda pratica linguistica.

Hylas. E perché diciamo che è il tavolo a essere sporco, e non la marmellata?

Philonous. Questo dovremmo chiederlo agli psicologi. È un fatto che riguarda le nostre pratiche linguistiche, appunto, e questo non è il mestiere dell'ontologo.

Hylas. Hai appena convocato un bel deus ex machina, anzi due: lo psicologo e la pratica linguistica.

Philonous. Sono modi di dire...

Hylas. Ma restando nell'ontologia, come suggerisci tu, dovresti almeno dirmi che cosa significa «tavoleggiare».

Philonous. Questa me l'aspettavo. Ma la risposta è semplice: delle particelle tavoleggiano se e solo se sono disposte-a-tavolo.

Hylas. Ma così ragioni in circolo: hai tirato in ballo proprio il tavolo.

Philonous. Nessun circolo. Sostenere che delle particelle sono disposte-a-tavolo significa dire né più né meno che sono disposte secondo una certa configurazione, come quando diciamo che certe persone sono «disposte in fila indiana» senza con ciò implicare che nei dintorni ci siano degli indiani. Detta diversamente, affermare che delle particelle sono disposte-a-tavolo significa solo specificare lo schema geometrico secondo cui sono organizzate. Nemmeno tu ti impegni all'esistenza dei quadrati quando dici che il tavolo è quadrato.

Hylas. Non c'è più religione. Adesso vuoi anche negare l'esistenza dei quadrati?

Philonous. Credevo tu la pensassi allo stesso modo. Sui quadrati non piove affatto: piove solo sui tavoli quadrati, cioè sulle particelle...

Hylas. ...che tavoleggiano quadratamente. Ho capito. Immagino che per te valga un discorso analogo anche per le sedie e per gli alberi.

Philonous. Sedie, alberi, fiori, animali, persone: solo sciami di particelle freneticamente indaffarate a collaborare più o meno a lungo per dare un po' di spettacolo. Ringraziamo il cielo se le cose stanno così. Il mondo sarebbe una noia tremenda se ogni particella se ne stesse sulle sue.

Hylas. Non ho ben capito chi si deve prendere cura di ringraziare il cielo.

Philonous. Le particelle che personeggiano.

Hylas. Comincio a pensare che il sarcasmo di Manzoni avrebbe pane per i suoi denti.

Philonous. Guarda che non sto farneticando. Come dicevo, si tratta solo di dare il giusto peso alle nostre pratiche linguistiche. In fondo siamo d'accordo su tutto: che non ci sono chimere, che in cucina c'è un tavolo, che il tavolo è quadrato e anche sporco, che il mondo è variegato, che le persone devono ringraziare il cielo per questa varietà, e così via.

Hylas. Siamo d'accordo su tutto, ma non sul tutto. Mi sembra una bella differenza. A un filosofo non basta sapere che una certa affermazione è vera: interessa sapere che cosa la renda vera.

Philonous. A me sembra una differenza trascurabile, tant'è vero che tendiamo a trascurarla. Ma se proprio insisti, ti concedo che su questo punto resta ancora del lavoro da fare.

Hylas. La questione ontologica non è poi così banale come la facevi sembrare.

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Pagina 25

Hylas. Ci risiamo. Ma per te tutti i problemi ontologici e metafisici si dissolvono in quesiti concernenti le nostre pratiche linguistiche? Guarda che su questa strada finisci dritto dritto nel barcone dei postmoderni, secondo cui anche la fisica che tanto ti piace è frutto di pratiche più o meno arbitrarie.

Philonous. Non tutti i problemi sono linguistici. Ma molti sì. E non mi sembra uno svantaggio rispetto ai grossi dubbi che invece affliggono il tuo modo di vedere le cose.

Hylas. Ammetto tutti i miei dubbi. Non sarò granché come filosofo, ma cerco almeno di essere un filosofo onesto, e riconosco di avere un bel problema a distinguere tra proprietà essenziali e proprietà accidentali. Ma nemmeno mi sembra facile distinguere tra questioni puramente linguistiche (o pragmatiche, cognitive, sociologiche: chiamale come vuoi) e questioni ontologiche vere e proprie, come cerchi di fare tu.

Philonous. Touché...

Hylas. Se non vuoi spingerti fino al punto di dire che l'ontologia è determinata dalle nostre pratiche sociolinguistiche, devi ammettere che ci sono delle caratteristiche ontologiche di cui non è tanto facile liberarsi anche se mossi da uno spirito di sobrietà. E queste caratteristiche non dipendono dal modo in cui parliamo, ma anzi sono proprio quelle che il linguaggio cerca di catturare. Questo è il senso della mia enfasi sulla ecologia e sul realismo ingenuo, che è per l'appunto quello che anche tu presupponi quando parli di particelle tavoleggianti.


QUINTO GIORNO


Hylas. Immagino che tu voglia sostenere che non solo le navi e i tavoli, ma anche gli alberi, le persone, eccetera sono entità quadridimensionali, o sciami di particelle quadridimensionali.

Philonous. Non vedo grosse differenze: sono tutte cose che vivono nello spaziotempo. Comunque a dire il vero non vorrei sostenere un bel nulla. Avevo sollevato il problema solo per illustrare un punto che altrimenti potrebbe passare inosservato: che un accordo ontologico (i tavoli esistono) non comporta necessariamente un corrispondente accordo metafisico (i tavoli sono entità di un certo tipo). Che la metafisica giusta sia tridimensionalista o quadridimensionalista per me resta una questione aperta, anche se non nascondo una certa simpatia per la seconda opzione.

Hylas. Capisco. Per te dunque questa è la distinzione tra ontologia e metafisica: la prima si occuperebbe di stabilire che cosa c'è, la seconda di stabilire che cos'è quel che c'è. È un po' la vecchia distinzione di Tommaso d'Aquino, se non sbaglio: quella tra an sit e quid sit.

Philonous. Esattamente.

Hylas. Non sono del tutto convinto che sia così lineare come sembra, anche perché ho la sensazione che in certi casi la natura specifica di quello che c'è possa condizionare la prospettiva ontologica. Ma a questo punto direi che non è il caso di spingerci oltre con queste speculazioni generali. Cominciamo piuttosto a vedere se riusciamo davvero a trovare una via d'accordo sull'ontologia, come continuo a sperare. E cerchiamo di farlo attraverso un'attenta analisi caso per caso, come suggerivi tu. Mettendo da parte i tavoli e le altre entità spaziotemporali di cui tanto abbiamo parlato, proviamo a vedere se siamo d'accordo sul resto. A parte le differenze d'altezza, che cosa ne pensi, dunque, del sapore di questo vino?

Philonous. È la terza volta che me lo chiedi, caro Hylas. E visto che ci tieni tanto, comincio col dirti che a me sembra ottimo, comunque lo si voglia concepire e comunque si vogliano chiarire i dettagli di questa mia affermazione. Su questo siamo d'accordo?

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Pagina 42

[...] Ciononostante, caro Hylas, non penso che il quadro sia soltanto negativo. Sono convinto che vi sia anche un senso importante in cui si sono fatti progressi notevoli, anzi due sensi importanti.

Il primo è semplicemente che in alcuni casi, sebbene non in tutti, siamo effettivamente stati capaci di dissipare la cappa di dubbio che avvolge certe entità fornendo risposte più precise alla domanda: che cosa sono queste entità? Ci siamo cioè resi conto che certe entità sembrano strane, per non dire mitologiche, ma a ben vedere possono vantare un pedigree di tutto rispetto. Le emozioni, per esempio. Le avevi elencate nella lunga lista di entità dubbie, sul piano strettamente ontologico se non su quello del senso comune, ma oggi possiamo ben dire che le neuroscienze ci danno un quadro piuttosto chiaro della loro realtà. Dal punto di vista scientifico, quelle che chiamiamo emozioni non sono altro che fenomeni cerebrali, eventi fisici che hanno luogo in determinate aree del cervello, scariche elettriche che possiamo descrivere, studiare e misurare con buona approssimazione. Non sei d'accordo? Idem per i sentimenti, i ricordi, gli eventi mentali in senso lato: ogni evento «mentale» in realtà non è altro che un evento fisico ben preciso, sebbene possa risultare difficile identificare delle leggi che consentano di associare a ogni tipo di evento mentale un tipo di evento fisico corrispondente. So bene che a molte persone non piace sentirsi dire queste cose. Ridurre sentimenti ed emozioni a banali scariche elettriche è come sentirsi dire che Babbo Natale in realtà è il giornalaio di via Mazzini: è cinico, volgare, destabilizzante, e ci costringe a rivedere tutta la nostra vita in una luce completamente diversa. Ma tant'è, in un modo o nell'altro bisogna farci i conti. In fondo non è che con le entità meno dubbie le cose siano andate diversamente. Quando ci hanno detto che noi in realtà siamo delle scimmie non è stato bello. E sono il primo a dire che sostituire i comuni oggetti materiali con gli sciami di particelle microscopiche di cui parla Philonous, e su cui insiste la fisica, ci costringe a rinunciare a buona parte delle nostre credenze per accettarne altre storcendo il naso. Ma questo è il prezzo del progresso scientifico, caro Hylas. Può essere caro, ma per un razionalista convinto, come me, è comunque un affare e costituisce un importante passo in avanti almeno nella cura contro quella che tu e Philonous avete chiamato «allucinazione ontologica».

Il secondo senso in cui credo si siano fatti passi importanti, anzi enormi, riguarda il metodo prima ancora che i contenuti, e concerne quei casi in cui la procedura che ho appena descritto non funziona. Prendiamo l'esempio su cui vi siete soffermati il terzo giorno. Quando dico «C'è una differenza d'altezza tra Hylas e Philonous», non sto asserendo l'esistenza di una strana entità che chiamiamo «differenza d'altezza» e che un'accurata indagine scientifica potrebbe identificare con un'entità di ordinaria amministrazione (un evento chimico-fisico, uno sciame di particelle, ecc.). Nessuna scienza ci dirà mai che cosa sono le differenze di altezza per il semplice motivo che le differenze di altezza non ci sono. Nessuna scienza ci dirà mai che cosa sono la famiglia media, le probabilità, la sfortuna, e via dicendo per il semplice fatto che non esistono cose di questo genere, così come a mio avviso non esistono le idee platoniche, i significati, o i numeri. E allora?

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Pagina 50

Destra o sinistra?

Ecco, questi sono i due sensi in cui mi sembra di poter dire che ci siano stati dei salti di qualità rispetto ai rischi di miopia e di allucinazione a cui da sempre siamo esposti. Li ripeto: innanzitutto l'analisi concettuale, o se preferisci il riduzionismo «scientifico», cioè la capacità di instaurare nessi sempre più sofisticati tra i diversi ambiti di indagine, in modo da trovare un posto per molte cose che ci sembrano tanto importanti quanto misteriose (come le emozioni e gli stati mentali); in secondo luogo, la messa a punto di un metodo – l'analisi logica – con il quale spiegare in modo rigoroso e sistematico perché a volte parliamo come se ci fossero certe cose quando in realtà non ci sono (come nel caso dei numeri o delle differenze di altezza), oppure crediamo di parlare soltanto di certe cose quando in realtà, a ben vedere, ciò che diciamo non sarebbe vero se non ci fossero anche altre cose (non solo il formaggio, ma anche i suoi buchi).

Resta da chiarire un punto importante, ed è proprio il punto su cui tu metti il dito quando parlate dell'analisi logica di un enunciato come «C'è una differenza d'altezza tra Hylas e Philonous».

[...]

Detta diversamente, l'ermeneuta dà per scontato che ci sia un'unica direzione dell'analisi quando invece ce ne sono due. Così facendo si illude di capire come è fatto il mondo a partire da un'analisi del linguaggio. In realtà sta imponendo al linguaggio – e quindi a tutti i parlanti competenti – la sua concezione del mondo, e di conseguenza le miopie e le allucinazioni di cui lui (o lei) è vittima: proprio ciò di cui stiamo cercando di liberarci. La concezione esplicativa dell'analisi, invece, è perfettamente modesta, pur attribuendo all'analisi quel valore normativo che la rende filosoficamente importante. Purtroppo bisogna riconoscere che buona parte della filosofia analitica (a partire dallo stesso Russell) ha operato all'insegna dell'illusione ermeneutica, ed è per questo che non esiterei a parlare della presunzione come di un rischio reale da cui la strategia analitica deve stare all'erta. È un rischio a cui, mutatis mutandis, si sono sistematicamente esposte anche le strategie riduzioniste delle scienze empiriche. Quando diciamo, per esempio, che le emozioni sono eventi cerebrali, stiamo tirando le somme dei risultati delle nostre ricerche. Siamo liberi di pensare che il nostro lavoro sia così ben fatto che ogni alternativa sarebbe ipso facto errata, ma la storia ci ha insegnato che questa presunzione può giocare brutti scherzi e mi sembra che di quest'insegnamento la scienza contemporanea abbia saputo far tesoro. Ebbene, facciamone tesoro anche in logica, sei d'accordo?

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Pagina 69

Il cattivo macellaio

Eccoci così giunti alla questione di fondo, mio caro Hylas. Nel Fedro Platone si raccomandava di smembrare l'essere seguendone le nervature naturali, «guardandosi dal lacerarne alcuna parte come un cattivo macellaio», e possiamo ben dire che tanto le scienze naturali quanto le scienze sociali e il senso comune abbiano preso questa ricetta molto sul serio. Se tutti i confini fossero il prodotto di un fiat convenzionale o intenzionale, se le linee lungo le quali «smembriamo» la realtà dipendessero interamente dai limiti del nostro apparato cognitivo e dalle categorie classificatorie che abbiamo in testa, allora la nostra conoscenza del mondo si ridurrebbe in ultima analisi a una conoscenza delle mappe che noi stessi abbiamo disegnato. La tesi per cui esistono soltanto confini de dicto – quindi soltanto entità che emergono dalla nostra azione organizzatrice – sembrerebbe davvero portare dritto dritto a una forma estrema di convenzionalismo, o a quell'estremismo ermeneutico di cui parlavo all'inizio. D'altro canto, postulare l'esistenza di veri e propri confini de re – ritenere cioè che il mondo si presenti alla nostra esperienza già «preconfezionato» in oggetti, eventi e proprietà naturali – riflette una forma di realismo metafisico che non sembra reggere al vaglio dell'analisi. Quindi?

Sappiamo qual è la soluzione di compromesso. Magari tutti i confini che emergono nell'immagine scientifica del mondo, così come quelli che emergono nell'immagine manifesta propria del senso comune, sono a ben vedere dei confini de dicto. Ma – si potrebbe dire – questo non significa che debbano essere completamente arbitrari, che non abbiano cioè alcun fondamento reale. Tornando al macellaio del Fedro, Umberto Eco ha buon gioco a osservare che sebbene in civiltà diverse il vitello venga tagliato in modi differenti (sicché il nome di certi piatti non è sempre traducibile da una lingua all'altra), sarebbe molto difficile concepire un taglio che offrisse nello stesso momento l'estremità del muso e della coda. Come a dire che quand'anche non ci fossero dei sensi obbligati, ci sarebbero nondimeno dei sensi vietati, delle «linee di resistenza», delle nervature che rendono più difficile tagliare in una direzione piuttosto che in un'altra. Fuor di metafora, esisterebbero cioè dei limiti oggettivi alla nostra possibilità di «smembrare» e organizzare il contenuto dell'esperienza. Ed è in questo spirito che si potrebbe pensare di risolvere la scomoda dicotomia tra realismo e convenzionalismo. Se è presuntuoso pensare che i confini tracciati nelle mappe geofisiche seguano esattamente tutte le venature del territorio, è altresì implausibile pensare che le sponde del Lago Maggiore possano risiedere da tutt'altra parte. Se è presuntuoso pensare che i biologi possano individuare con precisione l'attimo in cui comincia la vita di un essere umano, è altresì ridicolo pensare che cominci prima della fertilizzazione, o solo al termine del terzo giorno dopo il parto. La stessa nozione di genere naturale a cui si appellano le scienze rifletterebbe non già un realismo metafisico ma un realismo scientifico che ha soprattutto valore pragmatico. Proprio come le mappe dei cartografi sono sempre più precise e meticolose, così pure le mappe del mondo disegnate dalle scienze; e proprio come a volte i cartografi si trovano costretti a ridisegnare le loro mappe al variare inatteso di certi confini geopolitici – ivi inclusi confini apparentemente de re come la frontiera di cresta alpina tra l'Italia e la Svizzera, che il progressivo scioglimento dei ghiacciai rende instabile –, così i biologi e la ricerca scientifica in senso lato non rifuggono, se necessario, dall'aggiornare le loro mappe della natura nella speranza che quelle nuove risultino più precise e attendibili. (Le disavventure tassonomiche dell'ornitorinco, a cui alludevo all'inizio della mia prima missiva, testimonierebbero proprio questo fatto. Un UCCELLO? Un RETTILE? Un MAMMIFERO? Per oltre ottant'anni i naturalisti di mezzo mondo navigarono nel buio ed Eco ci ricorda la dichiarazione di René-Primevère Lesson: quella dannatissima bestia sembrava essersi messa di traverso sul sentiero del metodo tassonomico per provarne la fallacia. Ma la bestia era là, c'è poco da fare, e alla fine si dovette decidere di introdurre ex novo la categoria MONOTREMI.)

Perché dico che si tratta di una soluzione di compromesso? Perché la distinzione tra sensi obbligati e sensi vietati fa tutta la differenza, al punto da rendere l'istanza realista conciliabile con il relativismo che sottende invece l'istanza convenzionalista. Alla mancanza di obblighi corrisponderebbe una pluralità di schemi di coordinate ammissibili, e quindi di ontologie e metafisiche diverse. Ma la presenza di divieti ancorerebbe questi schemi al mondo restringendo il novero delle teorie ammissibili e proteggendole dal collasso di un convenzionalismo a tutto campo. In fondo è ciò che diceva Orazio (quello vero, non quello di Amleto): «C'è una misura in tutte le cose. Ci sono confini precisi al di qua o al di là dei quali non può esistere il giusto». Ora, personalmente non ho motivi per negare la ragionevolezza pragmatica di questo modo di vedere. Però sul piano metafisico non mi convince proprio. E non credo che convinca nemmeno te, sebbene alcune delle cose che dici a Philonous quando parli di trascendentali e di «canoni da rispettare» possano andare in questa direzione. Per quanto mi riguarda, il motivo della mia insoddisfazione è semplicemente che l'ipotesi cruciale da cui dipende il compromesso, ovvero che i «sensi vietati» siano effettivamente segno di uno zoccolo duro dell'essere, è tutta da dimostrare.

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Pagina 159

Epilogo
Il piano di un Quadrato



Caro Hylas,

Ti ricordi che, nella prima lettera, parlando del rischio di miopia ontologica alla quale la nostra filosofia è costantemente esposta, citavo il caso del Quadrato di Flatlandia? Flatlandia è un testo che risale a oltre un secolo fa ma secondo me mantiene intatta la sua freschezza anche ai nostri giorni. Vi si narrava, appunto, l'avventura di un Quadrato, un essere perfettamente bidimensionale, senza spessore, cittadino di un mondo a sua volta perfettamente bidimensionale e senza spessore, che un giorno ebbe la fortuna di ricevere la visita di una Sfera: l'essere tridimensionale per eccellenza. Non solo ebbe quella fortuna: successivamente il Quadrato ebbe la fortuna ancor più grande di poter visitare per un breve periodo il bel mondo a tre dimensioni da cui proveniva il suo ospite. Il nostro mondo a tre dimensioni. Lo visitò e ne ebbe esperienza – una esperienza mistica, per lui – prima di ripiombare per sempre nel totale appiattimento di Flatlandia: il mondo piano, appunto, privo di spessore; il mondo senza alcun sopra e alcun sotto; il mondo in cui le macchine e gli aeroplani, per così dire, appartengono alla medesima categoria e tutto, ma proprio tutto, si riduce a tenui ombre su un pavimento enorme ed eternamente illuminato. (Il che non significa che Flatlandia fosse un mondo perfettamente democratico. Il potere era comunque in mano alla casta dei Cerchi, non certo agli infimi Poligoni Irregolari.)

Ho detto che l'esperienza del Quadrato fu per certi versi un'esperienza mistica, e non è difficile immaginare perché. È un po' come se noi avessimo l'opportunità di visitare un mondo a quattro dimensioni: un mondo di cui non conosciamo l'esistenza e di cui non riusciamo a immaginare le forme e le bellezze, né i pericoli in cui potremmo imbatterci. E non alludo qui alle quattro dimensioni dello spaziotempo che tanto piace a Philonous. Quelle le conosciamo sin troppo bene. Sto pensando proprio a una quarta dimensione spaziale, che non saprei nemmeno come chiamare, proprio come il Quadrato non sapeva che cosa fosse la «profondità» tanto decantata dalla Sfera. Roba da fantascienza, dirai; un semplice divertissement matematico. Può darsi. Ma io parlerei piuttosto di orizzonti mentali. E la capacità di estendere il nostro orizzonte mentale non è questione di fantascienza. E lì che si misura il nostro provincialismo. E lì che si vede se siamo davvero capaci di pensare liberamente, di spingerci al di là dell'ovvio. E lì che si gioca il nostro «senso della possibilità», come lo chiamava Musil: quel senso della possibilità di cui tanto abbiamo parlato e che comincia proprio col monito di Amleto a non limitarci alle cose di cui si sognano le nostre filosofie.

Non intendo tuttavia riprendere a parlare di questi temi. Ti scrivo, caro Hylas, perché credo di aver fatto una scoperta davvero fortunata e vorrei condividerla con te. Frugando in soffitta ho trovato un vecchio manoscritto, e ho motivo di ritenere che il suo autore sia nientemeno che il Quadrato del reverendo Abbott, anzi, ne sono convinto. La data dell'appunto non è leggibile, ma è evidente che dev'essere successiva a quella della visita della Sfera. Nel racconto di Abbott non se ne fa menzione, ma a me sembra un testo bellissimo, che calza a pennello con i discorsi che abbiamo fatto e che meglio delle nostre stesse parole riesce a riassumere ciò che, al di là delle differenze, ci unisce. Ho pensato quindi di trascrivertelo – con l'aggiunta di alcune mie osservazioni – in modo che anche tu possa godere di questa piccola scoperta. Eccolo.

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