Autore Ermanno Vitale
Titolo Contro i beni comuni
SottotitoloUna critica illumimistica
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2013, Saggi Tascabili 385 , pag. 126, cop.fle., dim. 11x18x1,3 cm , Isbn 978-88-581-0667-9
LettoreRiccardo Terzi, 2014
Classe beni comuni , politica












 

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Indice


Premessa. Alla "meglio gioventù"                             V

    1. Ragioni di un titolo "contro", p. V
    2. Il sognatore e la "lezione dei cinici", p. XIII


Parte prima - Tu chiamale, se vuoi, emozioni...

I.  La fiaba senza tempo dei beni comuni                     5

    1. Hardin e Ostrom: l'orco e la fata, p. 5
    2. Enclosure, la parola magica, p. 14

II. La fiaba stinge in vaudeville                           27

    1. Quattro domande, p. 27
    2. Vicoli ciechi, si esce a colpi di scena, p. 36
    3. La Pacha Mama presidenzialista, p. 49

III. "Nuova umanità" o "costituzionalismo dei bisogni"?     55

    1. Hardt e Negri: il "comune" e la rivoluzione
       degli incontri lieti, p. 55
    2. Rodotà: beni comuni e diritti fondamentali, p. 65
    3. Stroncature d'autore, p. 70


Parte seconda - Sporco illuminismo

IV. Bene comune, beni comuni                                79

    1. Elementi per un confronto, p. 79
    2. Una storia millenaria, p. 81
    3. Una prudente argomentazione a favore del
       bene comune, p. 90
    4. Distinzioni analitiche, p. 94

V.  Per quale mondo lottare?                               101

    1. Trent'anni ingloriosi, p. 101
    2. Dieci questioni cruciali, p. 105
    3. Indignazione e spirito critico, p. 122


 

 

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Pagina V

Premessa
ALLA "MEGLIO GIOVENTΩ"



1. Ragioni di un titolo "contro"

In questa temperie culturale e politica, un libro intitolato Contro i beni comuni – titolo che non rinnego, sia ben chiaro – probabilmente apparirà come il frutto di un pensiero in ultima analisi conservatore, che non sa cogliere la "novità" rivoluzionaria di una società fondata sui beni comuni, o, con enfasi ancora maggiore, sul "comune". Un pensiero che si muove ancora nelle pastoie della politica tradizionale, all'interno della logica delle due destre, secondo la fortunata formula di Revelli , e del pensiero unico che le rende intercambiabili: la destra-destra e la ormai pseudo-sinistra, divenuta una seconda destra per aver sostanzialmente fatto proprio – sia pure con qualche timida correzione in senso redistributivo – il darwinismo sociale e il credo economico neoliberista delle destre conservatrici che hanno stravinto la partita per l'egemonia culturale nell'ultimo trentennio.

Non credo sia così. La molla che mi ha spinto a scrivere è stata la lettura – in fondo casuale, nel senso di non collocata all'interno di un percorso di ricerca strutturato – di un piccolo saggio di buon successo editoriale, Beni comuni. Un manifesto di Ugo Mattei. Siccome la riflessione sui beni comuni, pur essendo ancora un tema di nicchia, incominciava a circolare soprattutto a seguito dei due referendum vittoriosi contro la privatizzazione dell'acqua, avevo pensato di "saperne qualcosa di più" attraverso la lettura di un testo che si autodefiniva un "manifesto". Nei manifesti, per definizione, si dovrebbero trovare esposte in modo quanto più possibile semplice ed efficace le tesi essenziali e le linee d'azione grosso modo condivise di un movimento politico e/o culturale. Si pensi, tanto per fare un esempio arcinoto, al Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels.

Rispetto a queste ragionevoli attese, la prima reazione alla lettura del "Manifesto dei beni comuni" (e a poco vale l'espediente retorico dell'articolo indeterminativo: un manifesto) è stata il riaffiorare prepotente alla memoria di una frase di Bobbio: "detesto i fanatici con tutta l'anima". Sono seguiti incredulità, sconforto e infine il desiderio di provare a fornire – nonostante tutto – argomenti per una discussione critica intorno al tema dei beni comuni, e soprattutto intorno alle sue premesse "filosofiche". Debbo dire che ho pensato anzitutto a coloro che a mio avviso costituiscono la "meglio gioventù" di questo povero paese e di questa povera Europa, quella gioventù che resiste e che rifiuta la "servitù volontaria" impostale dalle cosiddette "leggi del mercato" – che sta tentando, con un coraggio che assomiglia molto alla disperazione, di vivere una vita degna di essere vissuta, di trovare forme di socialità alternative al mors tua vita mea. Penso, insomma, più ai giovani vicini ai centri sociali e alle forme serie di volontariato che non a quelli che inseguono il mito dell'imprenditore di se stesso o prendono una tessera di questo o quel partito, anche se mi piacerebbe illudermi che lo facciano per mettere dall'interno la parola fine a questa grottesca classe imprenditoriale e politica.

Cosa offre dunque il manifesto dei beni comuni alla "meglio gioventù" che ricerca il nobile ideale di un modello di società radicalmente alternativo a quello proposto dalla privatizzazione e finanziarizzazione del pianeta? Lo dico senza mezzi termini: nella migliore delle ipotesi, un viaggio verso il nulla che presto si rivelerà tale salvo che per qualche leader e/o ideologo che, al momento opportuno, saprà riciclarsi in fretta; nella peggiore, nel caso cioè che la "teoria" dovesse diventare "pratica", consolidarsi in istituzioni sociali, una vita comunitaria che ci riporterebbe a esperienze politiche consegnate alla storia. Che poi tra coloro che si sono messi ad usare questa parola d'ordine tanto accattivante – "beni comuni" – vi siano anche studiosi che non si riconoscono in questo manifesto, conta fino a un certo punto. Se non ci si dissocia apertamente, un manifesto è un manifesto, e in qualche modo detta la linea e definisce una posizione.

Personalmente esprimo un radicale dissenso non perché non condivida le intenzioni di fondo del manifesto – ripensare la deriva che fa del mercato l'unico dio cui erigere templi e fare sacrifici –, ma perché ritengo generica, infondata e mistificatrice la proposta che in tale manifesto si avanza. Infatti, sotto l'aspetto di una proposta rivoluzionaria – una comunità politica fondata sulla primazia dei "beni comuni" – si nasconde, o meglio riaffiora, una visione del mondo premoderna, una regressione romantica al medioevo, visto letteralmente come luogo di una vita comunitaria felice ed ecologicamente equilibrata. Per contro, l'Illuminismo, come negli autori conservatori e reazionari dalla metà del Settecento in avanti (ma Vico può ben considerarsi un anti-illuminista ante litteram), è visto come la matrice ideologica non dei diritti dell'uomo e del cittadino, non del pensiero critico contro la superstizione, ma, al contrario, del mero individualismo possessivo, e in particolare di quel processo di accumulazione originaria del capitale che continua a riproporsi in forme sempre più distruttive per la comunità umana e per la "madre terra".

Per non parlare della nozione giuridica, e ancor prima analitico-descrittiva, di "beni comuni", vero e proprio caso paradigmatico di "notte in cui tutte le vacche sono nere". Nella prospettiva olistica, vale a dire comunitaria (ma di quale comunità, verrebbe da chiedersi en passant: di vicinato, cittadina, nazionale, sovranazionale, planetaria?), tutto è "bene comune", perché ciò che definisce il bene comune non è un ambito o una tipologia di enti, ma la prospettiva, per l'appunto totalizzante, dalla quale si guarda questa o quella risorsa, situazione o prestazione. Non si rivendica, se non forse come fase di passaggio, la pubblicità di alcuni beni fondamentali: se ne rivendica la gestione come "comune", sul modello di una presunta auto-organizzazione che avrebbe gestito – all'interno di una comunità di pari – prati, boschi e foreste di un medioevo immaginario.


Immaginario e distorto, il medioevo "benecomunista" – mi si passi per comodità l'orrido neologismo – è popolato non da servi della gleba che cercavano di sfuggire alla loro condizione nascondendosi nelle città, ma da allegre brigate di liberi lavoratori che in spirito di solidarietà utilizzavano in maniera ecologicamente perfetta le risorse naturali, guidati dall'"intelletto generale", che più prosaicamente possiamo definire quelle consuetudini e tradizioni che li condannavano ad una vita misera, breve e brutale. L'ideologia benecomunista sembra non sapere o non voler riconoscere quanto dolore si annidasse con tutta probabilità in quelle vite, quanta fame e quante carestie, quanta sottomissione a pratiche comunitarie orribili e discriminatorie nei confronti dei soggetti più deboli e indifesi, o a forme di quella religiosità superstiziosa che ancora oggi produce morte e sopraffazione dell'uomo sull'uomo, pur non venendo da forme di dominio capitalistico (la violenza e la brutalità purtroppo precedono il capitalismo, ma Mattei pare aver dimenticato la dura lezione di Hegel sulla storia come bancone da macellaio).

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Pagina XVI

Ma torniamo subito alle questioni teoriche. Se avessi trovato convincente "un manifesto", probabilmente mi sarei accontentato di sapere che cosa si intende nella teoria politica e giuridica contemporanea per "comune" e "beni comuni", e quale cambio di paradigma comporti, se lo comporta. Invece, non essendo sicuro di aver capito bene e detestando ogni forma di fanatismo, ho continuato a leggere per ampliare un poco la mia conoscenza del tema, cercando di chiarirmi le idee e di comprendere se quel "manifesto" poteva dirsi tutto sommato espressione del movimento dei "beni comuni" oppure no. Ho così potuto apprezzare un mondo più articolato che riflette sull'argomento, certo pieno di sfumature, come rivela il volume collettaneo curato da Maria Rosaria Marella , ma in buona sostanza attraversato da una dicotomia. Da una parte, l'interpretazione di Mattei che pare essere filosoficamente debitrice sia alla fenomenologia sia alla prospettiva rivoluzionaria della nuova società e dell'uomo nuovo esposta nella trilogia di Hardt e Negri , e in particolare nell'ultimo volume della medesima, Comune. Oltre il privato e il pubblico; dall'altra, la posizione di chi, come Rodotà , tenta di definire i "beni comuni" nei termini di una categoria giuridica che prenda posto negli ordinamenti vigenti e che li definisca come quei beni atti a soddisfare i diritti fondamentali della persona.

Alla fine è nato questo volumetto, diviso in due sezioni, secondo il classico schema della pars destruens cui seguirà una (più problematica) pars construens. La prima parte muove dalla critica al manifesto di Mattei ma tenta di andare oltre, affrontando criticamente sia la proposta "rivoluzionaria" di Hardt e Negri sia quella che potremmo definire di "riformismo radicale" riconducibile alle posizioni di Rodotà. Sul primo versante, occorrerà innanzitutto verificare se alcuni autori utilizzati come ossessivi riferimenti (Garrett Hardin, "l'orco", Elinor Ostrom, la "fata", o comunque colei che apre il cammino) non siano stati forzati o travisati, così come se alcuni temi storiografici ( in primis le enclosures, o "recinzioni") non siano stati attualizzati con eccessiva disinvoltura; successivamente, che cosa siano i commons e se esistano, quali siano e quanto consistenti siano le istituzioni del mondo nuovo, della società dei beni comuni.

Sull'altro versante, quello dei riformisti, la questione che si pone è se — fosse anche solo per evitare equivoci e ristabilire la chiarezza analitica — non sia il caso di approntare strumenti di garanzia dei diritti fondamentali facendo riferimento al concetto di beni pubblici, o se si vuole ad una loro specifica categoria, riprendendo la riflessione iniziata con Invertire la rotta anziché correre dietro alla parola d'ordine dei "beni comuni". Insomma, se non sia il caso di applicare un po' di sano rasoio di Ochkam. E, magari, di misurarsi sul serio con le forme radicali dell'Illuminismo contemporaneo — per esempio con la teoria del diritto e della democrazia di Luigi Ferrajoli , teoria che esclude chiaramente il diritto reale di proprietà dal novero dei diritti fondamentali.

La seconda parte tenterà, in primo luogo, di suggerire, alla luce anche del realismo politico, quale relazione ci potrebbe (dovrebbe?) essere tra la tradizionale nozione di "bene comune" e quella di "beni comuni"; in secondo luogo, proverà ad affrontare, sulla scorta soprattutto della riflessione di Luciano Gallino , il grande dibattito del "che fare?" di fronte al dilagare della pura lex mercatoria e della privatizzazione del mondo. Le proposte che vengono avanzate, sia pure per cenni e in forma consapevolmente embrionale, credo raggiungeranno almeno l'obiettivo di mostrare che si può pensare ad una radicale trasformazione dell'esistente senza ricorrere necessariamente al paradigma del comune o dei beni comuni.

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Pagina 5

Capitolo primo
LA FIABA SENZA TEMPO DEI BENI COMUNI



1. Hardin e Ostrom: l'orco e la fata

Chiunque sfogli anche distrattamente la letteratura italiana sui beni comuni non potrà non accorgersi che due autori sono citati pressoché obbligatoriamente: Hardin e Ostrom. Come nell'interpretazione delle fiabe proposta da Propp, nel ruolo dell'antagonista, del campione dell'individualismo proprietario, i "benecomunisti" indicano non tanto il solito MacPherson quanto Garrett Hardin, che nel 1968 scrisse un saggio intitolato La tragedia dei beni comuni; nel ruolo invece dell'aiutante che suggerisce una via di salvezza al protagonista viene segnalata Elinor Ostrom, autrice di Governare i beni collettivi (Governing the Commons) e premio Nobel per l'economia nel 2009. Ad onor del vero, mentre sull'antagonista c'è grande accordo, sulla capacità di aiutare dell'aiutante già si nota minore compattezza nel campo benecomunista: Mattei la segnala fin da subito (correttamente) come un'esponente del neoistituzionalismo, una critica moderata del mainstream neoliberista, in fondo interna all'ortodossia della scienza economica, come il conferimento del premio Nobel dimostrerebbe. Pertanto insufficiente a cogliere "la profonda rivoluzione culturale" (M, x) – detto così, un brivido corre lungo la schiena – implicita nell'autentico pensiero dei beni comuni.

Però le citazioni d'obbligo non paiono per lo più comportare il dovere, o perlomeno l'esigenza, di una paziente e attenta analisi delle argomentazioni sia di Hardin sia di Ostrom. Eppure Platone impiega gran parte dei dieci libri della Repubblica a confutare Trasimaco, l'Hardin della situazione. E Marx ed Engels nell' Ideologia tedesca arrivano al materialismo storico mediante il confronto critico con Feuerbach, Bauer, Stirner e il cosiddetto socialismo utopico (gli Ostrom della situazione?).

Di conseguenza, a proposito di Hardin e Ostrom affiora il dubbio che – come diceva Hegel – spesso ciò che è noto non è conosciuto. Certo può darsi che siano autori tanto noti quanto conosciuti, al punto da ritenere superfluo presentarli al più vasto pubblico dei lettori interessati al tema dei beni comuni. Si danno per scontati e si passa oltre. Io che invece li ho letti recentemente per la prima volta, li ho trovati assai interessanti ma poco opportuni nei loro rispettivi ruoli di antagonista e aiutante, per il semplice motivo che forse non dicono esattamente ciò che i "benecomunisti" nostrani paiono presumere.

Ma che cosa dicono testualmente Hardin e Ostrom? Vale la pena "scendere a rimirarli da più in basso", analizzando, a mo' di recensione, i lavori per i quali vengono continuamente citati. Chi davvero sa già tutto, non perda tempo e passi al paragrafo successivo.

Iniziamo ovviamente dal cattivo, dall'antagonista. Il brillante saggio del biologo Hardin porta un titolo altrettanto brillante ma in parte ingannevole. Non è infatti dedicato principalmente a delineare e poi confutare una teoria generale (economico-politico-filosofica) dei beni comuni, bensì ad affrontare un problema enorme ma specifico nell'ambito ecologico-demografico: il problema della sovrappopolazione del pianeta, o meglio, del "livello ottimale di popolazione". Al riguardo, la tesi fondamentale è che il problema della popolazione non sia suscettibile di "soluzioni tecniche", quali "coltivare i mari o sviluppare un nuovo tipo di frumento", perché ognuna di queste soluzioni sarà temporanea, generando le condizioni per lo sfondamento dei nuovi limiti e aggravando così la situazione nel lungo periodo. Dopo aver passato in rassegna e criticato le ipotesi di responsabilizzazione della procreazione, poiché è assai probabile che nel lungo termine il risultato sia che proprio i soggetti irresponsabili prevalgano, Hardin afferma crudamente che quanto occorre è la coercizione: "oggi 'coercizione' è una parola sporca per la maggior parte dei liberali, ma non è detto che debba esserlo per sempre". Ancor più duramente Hardin conclude il suo saggio affermando che "l'aspetto più importante della necessità che oggi noi dobbiamo riconoscere è l'esigenza di abbandonare l'idea del comune nel campo della riproduzione. Nessuna soluzione tecnica può salvarci dalla miseria della sovrappopolazione. La libertà di riprodursi porterà rovina a tutti".

[...]


Visto così, nella fiaba del "benecomunismo" Hardin pare più un aiutante che un antagonista. Viceversa, la presunta aiutante – la fata Ostrom – potrebbe essere la vera antagonista. Pur affermando la praticabilità della gestione partecipata – che non vuol dire necessariamente né democratica né egualitaria – di alcune forme di commons, con grande onestà intellettuale Ostrom riconosce che tutte le esperienze di cui ha potuto apprezzare reali meccanismi di efficace gestione partecipata sono in scala relativamente ridotta: "Mio intento – scrive – è quello di concentrarmi interamente su sistemi di risorse collettive di piccole dimensioni, laddove la risorsa collettiva è situata in un solo paese e il numero degli interessati, che dipendono in grande misura da essa per trarre guadagni economici, varia da 50 a 15.000 persone. Questi sistemi di risorse collettive coincidono soprattutto con zone di pesca costiere, piccole zone di pascolo, bacini di acque sotterranee, sistemi di irrigazione e foreste di proprietà comune. Se si superano tali dimensioni e non ci sono determinate condizioni socio-culturali, ammette Ostrom, non solo è difficile praticare una gestione cooperativa ma vengono a mancare i requisiti metodologici basilari per fare di tali esperienze un coerente e significativo oggetto di studio.

E, come emerge chiaramente dalla descrizione e dall'analisi di tali esperienze, si tratta spesso di rapporti fra consociati piuttosto asimmetrici e gerarchici, la cui sempre problematica fiducia reciproca nasce su base di appartenenza tradizionale e con tendenza all'esclusione dei "forestieri", ossia di new entry che facciano lievitare il numero dei consoci e magari tentino di imporre una diversa redistribuzione della torta. Ma rimiriamo ancora da più in basso, e prendiamo il caso di Torbel, un villaggio di 600 abitanti in Svizzera, nel cantone dell'alto Vallese.

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Pagina 13

In fondo la critica di Ostrom a Hardin si riduce a ricordare che il "comune" non è necessariamente senza regole o insufficientemente normato. Accanto alla proprietà privata in senso stretto e alle istituzioni pubbliche possono in alcuni casi e dentro limiti precisi contribuire ad un' efficace regolazione delle risorse del pianeta anche istituzioni intermedie, che esprimono una sorta di governance di coordinamento delle istanze proprietarie capace di integrare le norme dell'ordinamento giuridico statale. Che le cose stiano plausibilmente così lo segnala nelle conclusioni la stessa Ostrom, indicando gli autori di riferimento della sua ricerca in "Hobbes, Montesquieu, Hume, Smith, Madison, Hamilton, Tocqueville". Non proprio il parterre della rivoluzione, o almeno delle preoccupazioni di giustizia sociale. Si tratta, anzi, di alcuni degli autori più significativi che secondo gran parte della recente letteratura "benecomunista" hanno pensato questo mondo, il mondo che ha fatto quasi completamente sparire l'idea e lo spazio materiale dei commons. Insomma, forse Ostrom non dovrebbe essere un cavallo di battaglia del benecomunismo nostrano, che invece manifesta anche un chiaro impegno verso la giustizia sociale e tende all'egualitarismo. A ben vedere, persino lo schema di Hardin, in questo senso, potrebbe funzionare meglio. Tuttavia, in ultima analisi, sarebbe consigliabile — sotto il profilo dell'opportunità e della coerenza — farli scendere entrambi da un palcoscenico che non appartiene loro.


2. Enclosure, la parola magica

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Pagina 55

Capitolo terzo
"NUOVA UMANITΐ" O "COSTITUZIONALISMO DEI BISOGNI"?



1. Hardt e Negri: il "comune" e la rivoluzione degli incontri lieti

Dal punto di vista filosofico, l'elaborazione del nuovo mondo organizzato sotto le insegne del "comune" trova il suo apice nel già citato volume di Hardt e Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico. Sotto il profilo squisitamente filosofico, c'è, pour cause, un salto qualitativo significativo rispetto a "un manifesto". La dotta narrazione – o forse meglio la commedia – filosofica che imbastiscono gli autori è rutilante e ricchissima: entrano ed escono di continuo una miriade di nomi maggiori e minori, anche se un posto d'onore pare riservato a Spinoza, Marx e Foucault. I riferimenti alla storia contemporanea e alle scienze sociali impressionano per la loro vastità ed eterogeneità, al punto che è difficile anche per il lettore che ha ricevuto una formazione filosofica – o forse proprio per questo motivo – vedere una chiara linea di sviluppo dell'argomentazione che viene proposta, insomma andare al sodo. Sembra quasi che gli autori si divertano a giocare a rimpiattino – ma è il bello della dialettica! – col lettore: tutte le volte che gli pare di aver faticosamente afferrato un concetto, ecco che esso viene corretto, ribaltato o dissolto qualche pagina dopo. Questo è anche un modo, senz'altro involontario, per aver sempre ragione, per poter dire: "guarda che non hai capito bene".

Per esempio, l'Illuminismo, vituperato tout court da Mattei, sta sì alla base della esecranda "repubblica della proprietà", ma poco oltre è descritto come invito al "sapere aude!" – osa pensare – che fa saltare le fondamenta di tale repubblica. E alla fine del libro i due autori si scoprono eredi dell'Illuminismo, il cui "nucleo vivente" è "la scoperta che nel corso della storia gli uomini si possono educare"".

Forse anche a causa di questa eccitante ambiguità Negri e Hardt non sanno bene se sono rivoluzionari o riformisti radicali, e propongono piani di salvataggio per il capitalismo dicendo al tempo stesso che tali proposte non saranno neppure ascoltate, anche perché il capitale (questa entità ipostatizzata), se le accettasse, genererebbe i suoi becchini. Ma alla fine si capisce che – suvvia! – sono rivoluzionari col pedigree, anzi teorici della rivoluzione permanente. Violenti o non-violenti? Anche qui non si sa bene, da un lato non bisogna avere paura della violenza, dall'altro, la rivoluzione dovrà essere soprattutto culturale e trasformatrice, creatrice di una "nuova umanità". Generatrice dell'uomo nuovo che pensa dalla prospettiva del "comune" – sinonimo di città, si legge in un passo, ma anche di natura, in un altro passo, ergo, per la proprietà transitiva, città è sinonimo di natura – e sarà capace di produrre la metropoli della felicità collettiva e individuale, di "trasformare gli incontri più conflittuali in incontri produttivi e lieti".

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Pagina 63

Infine, parallelamente alla ricerca del mondo nuovo, scorre un progetto che potremmo definire di riformismo radicale. Almeno in un'occasione affiora chiaramente nel percorso proposto dai due autori, nitido e per me largamente condivisibile, e l'impressione è che la sua proponibilità e difendibilità prescinda del tutto dalla complessa e macchinosa teoria del "comune". Θ il programma di salvataggio del capitalismo cui si è già accennato, un "salvataggio" che — nel lessico che mi è più familiare — ne comporta la sconfitta nell'attuale formula neoliberista e una profonda ridefinizione che lo riconduca all'interno del quadro di regole previsto dallo Stato di diritto democratico, e più specificamente del costituzionalismo dei diritti fondamentali della persona e del cittadino. Hardt e Negri indicano sei punti programmatici: 1) "assicurare le infrastrutture materiali di cui è priva la maggior parte delle popolazioni del mondo" (cibo, acqua potabile, elettricità ecc.); 2) "un'educazione obbligatoria per tutti, che parta dall'alfabetizzazione e che prosegua con livelli formativi più avanzati"; 3) "una piattaforma fisica (che permetta l'accesso alle reti comunicative in connessione cablata e senza fili), una piattaforma logica (protocolli e codici sorgenti aperti) e una piattaforma aperta ricca di contenuti"; 4) "la libertà di movimento con cui intendiamo sia la libertà di migrare all'interno e oltre i confini nazionali sia la libertà di risiedere in un determinato luogo"; 5) "un reddito minimo garantito su scala nazionale o globale a ognuno indipendentemente dal lavoro che fa"; 6) "la costruzione di forme e regole di partecipazione democratica a tutti i livelli della governamentalità per permettere alla moltitudine di apprendere ad autogovernarsi attraverso la cooperazione".

Molto interessante. Ma sappiano i lettori che queste idee sono cavalli di battaglia dell'Illuminismo e del neoilluminismo, che alcune circolano da secoli, altre da decenni e altre ancora da diversi anni. Certo Diderot e D'Alembert non potevano sapere nulla del web, ma l'idea della maggiore diffusione possibile delle conoscenze tanto umanistiche quanto tecnico-scientifiche e del pensiero critico stava alla base dell' Enciclopedia delle scienze, delle arti e dei mestieri, il cui primo volume fu pubblicato nel 1751. E che dire del diritto a migrare e della cittadinanza di residenza, idee che si trovano già in Francisco de Vitoria (1539) e su cui Kant riflette nella Pace perpetua (1795)? Potrei continuare. Per venire ai nostri giorni, idee e proposte assai simili – derivanti in fondo dalla desacralizzazione della proprietà, del mercato e dello Stato-nazione – le incontro da oltre vent'anni nella riflessione di Luigi Ferrajoli, solo per fare un esempio, argomentate in modo chiaro, senza ricorrere al "velame delli versi strani", al lessico oscuro e ambiguo della cosiddetta biopolitica.


2. Rodotà: beni comuni e diritti fondamentali

Nell'alveo di quel costituzionalismo dei diritti fondamentali che si potrebbe definire una forma di "Illuminismo perenne", una proposta che punta a trovare una collocazione giuridica ai "beni comuni" – che non sono "tutti i beni", e non debbono essere pensati come un catalogo senza fine e senza coerenza interna, una categoria sempre più onnicomprensiva che via via svuota le altre due, i beni privati e quelli pubblici, anche se punta a romperne il dualismo – è avanzata da Stefano Rodotà. Il saggio che ancora una volta per comodità e ragioni di spazio assumo come riferimento privilegiato si intitola Beni comuni: una strategia globale contro lo human divide, e funge da Postfazione al recentissimo volume collettaneo cura- to da Maria Rosaria Marella.

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Pagina 70

3. Stroncature d'autore

Alla fine di questo percorso critico può essere interessante riprendere il dibattito che si è sviluppato intorno al "benecomunismo" sui quotidiani, e in particolare su "il manifesto". Beninteso, senza alcuna pretesa di essere esaustivo, né quanto al dibattito sui media né quanto agli esempi concreti e alle varie situazioni di lotta che hanno fatto propria questa bandiera.

Farò anzi riferimento a pochi autorevoli commenti severamente critici del "benecomunismo", con l'auspicio che i giovani militanti – la meglio gioventù che cerca nel benecomunismo la via per costruire una società e un'umanità radicalmente nuove – se li vadano poi a (ri)leggere integralmente. Tali commenti dovrebbero invitarli a elaborare migliori argomenti a difesa della loro dottrina, o a cambiare idea. In entrambi i casi risultano molto utili, perlomeno a chi detesta i fanatici con tutta l'anima.

Non mi riferisco al commento di Eugenio Scalfari, non perché non sia autorevole, ma perché intendo bene che un sostenitore a qualunque costo del governo Monti e di tutta l'operazione che ne ha prodotto la nascita non possa far breccia fra i "benecomunisti". Inoltre, in effetti, quell'editoriale su "Repubblica" del 18 marzo 2012 metteva insieme alla rinfusa – come spesso accade a Scalfari, e in questo è metodologicamente vicino ai benecomunisti – molte cose diverse, un po' tutte quelle che sono avversarie della "ragione" di cui il governo Monti sarebbe la migliore tra le incarnazioni recenti. E non senza qualche caduta di stile.

Θ stato dunque gioco facile per i benecomunisti replicare sul "manifesto" del 20 marzo che "si può dissentire: ma quando il dissenso assume le forme della caricatura e dell'aperto dileggio, vuol dire che quelle parole d'ordine cominciano a suscitare inquietudine in quel grande partito trasversale, a cui 'Repubblica' dà voce, per il quale viceversa la parola d'ordine è: non disturbate il manovratore". Come si vede i toni sono quasi esultanti: il grande Scalfari ci dileggia perché un po' ci teme, stiamo diventando importanti. Al punto che – "imbossito" – si avvale "dell'elegante metafora del dito medio" per dimostrarci la sua ostilità, commentano compiaciuti.

Meno facile è replicare a Rossanda, Asor Rosa e Viale, tre che il manovratore mi pare lo abbiano sempre disturbato senza fare sconti. Sul "manifesto" del 5 aprile 2012 compare un articolo intitolato "Benecomunisti, che passione" a firma Rossana Rossanda. Commentando il "manifesto per un soggetto politico nuovo", osserva innanzitutto: "Θ un soggetto senza progetto. La sua idea di società, alquanto mal ridotta dai traffici di Berlusconi e dalla contabilità di Monti, non va oltre la vasta quanto vaga esigenza di far esprimere in forme dirette la società civile, la quale è fatta di tutto fuorché dallo Stato, dalle istituzioni e dagli attori della politica. [...] Questo modello non è quello della Costituzione del 1948, che punta sui partiti come corpi intermedi, mediatori fra cittadini e Stato, luoghi di elaborazione degli interessi diversi di una società complessa. I partiti – è la premessa del documento – non godono più di alcuna fiducia degli italiani, chiusi come sono in se stessi e nelle loro diatribe [...] Per il 'nuovo soggetto' questo – trasparenza e apertura ai cittadini – è il vero problema del paese. Il nuovo soggetto promette di essere l'opposto [dei partiti], tutto un'iniziativa di apertura delle barriere e di messa a confronto degli uni con gli altri, insomma un partito-nonpartito ma sostitutivo dei partiti".

E prosegue individuando nell'ideologia "benecomunista" l'inconsistente elaborazione teorica del "nuovo soggetto": "Per fare cosa, oltre a questa operazione di schiarimento delle acque? Non è detto. Certo ci sono in Italia gigantesche ineguaglianze di condizioni materiali, di cultura e di status ma l'esprimersi di tutti sui 'beni comuni' le abolirà o ridurrà attraverso la presa di parola dei più deboli. [...] Il 'nuovo soggetto politico' non si perde sull'analisi dello Stato e dei poteri forti, politici ed economici. Né nelle teorie sociali del movimento operaio o, all'opposto, del liberismo: le prime neppure le nomina, al secondo i beni comuni, terreno di convinzione generale, tagliano le unghie. In questo senso il documento di Firenze presenta una tranquilla riedizione della spontaneità, l'universalmente umano bastante a se stesso, che il '68 aveva portato avanti polemicamente ma che adesso, rifiutando assalti al cielo troppo pericolosi, sarebbe in condizioni di attuarsi attraverso una saggia rete di relazioni e consultazione popolare permanente. Di avversari il 'nuovo soggetto' non ha che la privatizzazione dei beni comuni, contro la quale si batte ma non meno che contro la statalizzazione o il loro 'restar pubblico' nelle forme attuali".

Rossanda prosegue con la demolizione meticolosa del documento, concludendo che non è proprio in questo modo che si disturba il manovratore. Benecomunisti, con questa forma di spontaneismo non si va da nessuna parte. L'ironia (giustamente) feroce, lucidissima, di Rossanda – mi verrebbe da dire illuministica – toglie quelle illusioni che il dileggio di Scalfari, suo malgrado, potrebbe alimentare.

Qualche giorno dopo, anche Alberto Asor Rosa pubblica un ampio articolo a proposito del "manifesto per un soggetto politico nuovo" sul medesimo quotidiano (27 aprile 2012). L'esordio è sulla stessa falsariga ma, se possibile, ancora più duro di quello di Rossanda. Cita Gramsci: "Tutti i più ridicoli fantasticatori che nei loro nascondigli di geni incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche. D'altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltino a ogni sciocchezza". In questa pazienza e sobrietà sta il punto d'incontro dell'ottimismo della volontà con il pessimismo della ragione.

Dopo questo incipit che da solo dovrebbe indurre qualche riflessione, Asor Rosa mette in fila una serie di domande difficilmente eludibili. Non è "abnorme" considerare i "beni comuni" il programma di massima del "nuovo soggetto politico"? Non è sbagliato pensare che la "democrazia rappresentativa" sia tutta da buttare e invece quella "partecipativa" tutta da esaltare? Ci si rende conto che sarebbe "autolesionistico" perché è probabile che se si facesse un referendum sull'abusivismo vincerebbero gli abusivisti? (per non parlare, aggiungo io, se ne facessimo uno sulla pena capitale).

Inoltre, che cosa si intende per "beni comuni"? Si accoglie, come fa Asor Rosa, la definizione di Rodotà – beni funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali della persona – o ci si avventura sul terreno della rivoluzione degli incontri lieti di Hardt e Negri, o ancora su quello similare di "un manifesto"?

Osserva Asor Rosa: "Ogni volta che ci si allontana dall'idea che questa sia una società divisa in classi [...] si aprono scenari imprevedibili e sorprendenti. Per esempio, si scopre che la radice della nozione di 'bene comune' è teologico-cristiana". Il bonum commune è al centro della visione tomistica della città, della comunità politica. La politica ha come obiettivo perseguire il bene comune. Ma – si osserva – i benecomunisti non amano citare san Tommaso e il catechismo ancor oggi ispirato a questa visione del mondo. Preferiscono non fare i conti con questa tradizione. E non solo con questa tradizione, ma – come ho cercato di argomentare – con tutto quanto nella storia delle scienze sociali risulta loro difficile da maneggiare. Θ più facile indicare enfaticamente dove si vuole andare che riconoscere sobriamente da dove si viene.

Asor Rosa (di nuovo, e giustamente) infierisce: "un universo di buoni sentimenti [...] dovrebbe prendere il posto di quello in cui finora siamo sventuratamente nati e cresciuti – quello delle passioni negative, l'invidia, l'odio, l'orgoglio, l'ira... la rivalità, la voglia di sopraffare". Allora, nel nuovo universo, "a predominare sarebbero le virtù sociali della mitezza e della fermezza... Io qui non so cosa dire. Va bene non aver letto (o aver dimenticato) Machiavelli. E Marx. E Schmitt. Ma pretendere di affrontare l'incredibile violenza dell'attuale sistema di sfruttamento globale con il sorriso sulle labbra e le pacche sulle spalle, mi pare indizio di una mentalità che non porta da nessuna parte".

Infine, non è un obiettivo strategico più concreto e nient'affatto meno rivoluzionario "riconquistare il 'pubblico', sottrarlo alla cattiva politica, in tutte le sue modalità, stratigrafie e manifestazioni, e al tempo stesso allargarlo, e di molto, oltre le dimensioni originarie"? In questa direzione prospettica, giunge la domanda (che mi pare assai pertinente) di Asor Rosa a Rodotà. Non potrebbe essere la sua definizione di "beni comuni" una buona definizione di "pubblico"?

Infine, il giudizio di Guido Viale , che firma sul "manifesto" dell'11 maggio 2012 un articolo dal titolo "Benecomunisti, che orrore". Θ lapidario: "propongo di non usare mai più il termine 'benecomunismo': è orribile, ridicolo e neogotico. Sembra il nome di una congregazione iniziatica fantasy". Sono d'accordo, ma se gli adepti si vogliono definire tali, bisogna rispettare questa loro volontà, e augurare loro buona fortuna.

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Capitolo quarto
BENE COMUNE, BENI COMUNI



1. Elementi per un confronto

Fin qui, nella prima parte di questo libro, le critiche al "benecomunismo" o, se si preferisce, alla teoria (ideologia?) dei beni comuni, nelle sue diverse declinazioni. Critiche senza dubbio aspre, ma che condividono con questo variegato insieme di posizioni che riferiamo ai "beni comuni" la convinzione che occorra opporsi alla dilagante "privatizzazione del mondo". Questa condivisione non accetta però che l'opposizione sia condotta sulla base di una visione del mondo fondata – come si è cercato di mostrare – su una ricostruzione unilaterale e piuttosto improbabile della modernità politica. Una visione che andrebbe accuratamente argomentata, proprio perché non è di senso comune, mentre al contrario molti dei suoi fautori evitano o trattano troppo sbrigativamente gli argomenti che la pongono in dubbio. Una visione, infine, in molti casi intrisa di elementi irrazionalistici, mitologici, mistici, premoderni. Emblematica l'osservazione di Guido Viale a proposito dell'idea di "comune" di Toni Negri: l'ultima figura di quella "soggettivazione totalizzante" di cui gli epigoni del marxismo non hanno mai saputo liberarsi.

Al riguardo, uno dei temi di approfondimento a mio giudizio inevitabili, come sottolinea anche Asor Rosa, è la relazione tra bene comune (al singolare) e beni comuni (al plurale). Lo stesso Viale, che pure preferisce evitare di risalire fino a san Tommaso, come fa Asor Rosa, afferma che bisognerà pur tematizzare la differenza tra i beni comuni, comuni a una comunità che include alcuni e al tempo stesso esclude altri, tendenzialmente corporativa, e il bene comune "che rinvia ad una concezione armonica della società, dei suoi fini ultimi, dei suoi interessi, della convivenza". Evitando l'armonicismo, si potrebbe forse dire che il bene comune va inteso come l'interesse generale di una collettività politica articolata e conflittuale e in prospettiva come quel nucleo di interessi condivisi a livello globale, universale (a me verrebbe da dire cosmopolitico). Ma l'importante è discuterne, senza dimenticare il contributo che alla discussione hanno dato gli argomenti che si incontrano nei classici del pensiero politico.

In questo senso, prenderò in esame quattro nuclei tematici:

a) la centralità, o perlomeno l'importanza, della nozione di "bene comune" nella storia della filosofia politica antica, medievale e moderna;

b) la revoca in dubbio di tale nozione nel dibattito otto-novecentesco, con l'accusa (per molti aspetti fondata) di essere una nozione puramente retorica e ideologica;

c) un'argomentazione a favore di una declinazione del "bene comune" che resista alle critiche di cui al punto precedente;

d) infine, un tentativo di stabilire quali relazioni ci siano tra bene comune (al singolare), beni comuni (al plurale) e diritti fondamentali delle persone.

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3. Una prudente argomentazione a favore del bene comune

Per argomentare, come mi accingo a fare, in favore di un sobrio concetto di bonum commune (al singolare), è opportuno partire ricordando quale senso possa avere il sommario percorso nella storia del pensiero politico fin qui proposto. Il bene comune (al singolare) non è identificato con un paniere di oggetti (materiali e immateriali) da tutelare e proteggere mediante il diritto (in particolare, il diritto costituzionale) ma fa riferimento al presunto fine ultimo delle decisioni politiche, che ha come obiettivo minimo la salvezza della res publica e come massimo il suo benessere e la sua potenza, e in alcune accezioni si riferisce anche ai mezzi moralmente adeguati per raggiungere il fine.

Tuttavia, pur non essendoci alcuna sovrapposizione concettuale scontata tra il tradizionale concetto di bene comune e la discussione intorno ai beni comuni, credo ci sia qualcosa di più di una mera assonanza lessicale. Si potrebbe dire così: se si nega la consistenza di qualsiasi nozione di bene comune (al singolare), è difficile immaginare la sensatezza di una discussione a proposito dei beni comuni, e figuriamoci quella di una "società dei beni comuni", che presuppone una teoria sociale, politica e giuridica corrispondente. In positivo si potrebbe dire che una dottrina dei beni comuni – a mio giudizio ancora in buona parte da costruire e affinare – è una possibile declinazione del venerando tema del bonum commune. Al contrario, se la politica e il diritto sono concepiti esclusivamente come terreni di una mera lotta per acquistare e mantenere il potere da parte di singoli e oligarchie, parlare di bene comune e di beni comuni risulta insensato, se non in quanto maschera ideologica del detentore del potere di turno.

La dura e indubbiamente amara lezione del realismo politico va però ascoltata senza fastidio e ponderata con attenzione, se si vuole provare a costruire un concetto di bene comune, e magari successivamente di "beni comuni", che resista all'obiezione di essere mera retorica o ideologia (nel senso di falsa coscienza). Ma ascoltare la lezione non significa accettarla in toto. Bisogna dunque, innanzitutto, rispondere all'argomentazione, che prima facie appare insuperabile, del realismo politico. Quest'ultimo – si potrebbe obiettare – è a ben guardare una sorta di iper-realismo, che in quanto tale accentua una dimensione della realtà politica, la lotta per il potere come fine a se stesso, per la quale ogni mezzo è utile purché consegua il successo, rendendola esclusiva, e offrendo così una descrizione e un'analisi parziali e riduttive dei fenomeni politici.

La politica è anche progettualità sociale, composizione dei conflitti e risoluzione dei problemi collettivi, confronto tra idee e modelli di società, costruzione del patto di convivenza. Non è solo la prosecuzione della guerra con altri mezzi. Insomma, soprattutto la politica democratica è anche interrogarsi collettivamente intorno alla questione del fine, come osserva Bobbio: "Il fine giustifica i mezzi. Ma chi giustifica il fine? Forse che il fine a sua volta non deve essere giustificato? Ogni fine che si proponga l'uomo di Stato è un fine buono? Non deve esservi un criterio ulteriore che permetta di distinguere fini buoni da fini cattivi? E non ci si deve domandare se i mezzi cattivi non corrompano per avventura anche i fini buoni?".

Lo spazio teorico in cui ha senso porsi queste domande e provare a rispondere è quel territorio di confine e di interazione tra diritto, politica ed etica, rivendicato dal costituzionalismo moderno e soprattutto dal costituzionalismo del secondo Novecento, cui si è dato valore normativo sia attraverso le costituzioni di diversi singoli Stati sia attraverso una molteplicità di dichiarazioni e patti internazionali e sovranazionali. Pur senza ritornare a modelli organici di convivenza politica e pur lasciando ampio spazio al pluralismo e all'interpretazione, il costituzionalismo e i documenti normativi che lo hanno espresso sul piano giuridico e politico hanno puntigliosamente indicato "all'uomo di Stato" e a tutti i cittadini alcuni fini da perseguire – il rispetto dei diritti della persona, la pace, l'accesso universalistico ad un paniere di beni fondamentali – e alcuni mezzi di cui servirsi (lo stesso metodo democratico, ma anche un efficiente ed equo sistema di imposizione fiscale e di regolazione del mercato) o non servirsi (l'aggressione militare, la violenza per reprimere il dissenso).

Ritengo dunque, questa volta con buona pace di Schumpeter , che – per quanto non discendente da una lex aeterna o dalla natura delle cose bensì storicamente prodotto e senza dubbio soggetto ad un certo grado di discrezionalità interpretativa da parte di un legislatore espressione del pluralismo delle élites – il bonum commune esista. Oggi esso consiste in un insieme di mezzi da utilizzare (o non utilizzare) e di fini da perseguire (o non perseguire) chiaramente prescritto e sostanzialmente condiviso dalle costituzioni delle democrazie cosiddette "mature" e dalle dichiarazioni internazionali alle quali la maggioranza degli Stati, più o meno obtorto collo, affermano di volersi conformare.

Guardando come vanno le cose del mondo, sull'ingenuità di questa posizione si può senza dubbio fare parecchia ironia. Ma la completa rinuncia a un'idea di bene comune ha come conseguenza, prima o poi, la perdita della coesione sociale e civile. Già Platone osservava che la città solo in apparenza è una là dove povertà e diseguaglianza sono eccessive: "Il fatto è che una simile città risulta necessariamente non una ma due: l'una dei poveri, l'altra dei ricchi, che abitano nello stesso luogo, ma continuano a complottare gli uni contro gli altri" (Repubblica, VIII, 551d). L'eccesso di realismo e l'eccesso di utilitarismo, il cui combinato disposto si chiama oggi finanziarizzazione dell'economia da parte delle élites globali, o mercatismo selvaggio, sottovalutano i rischi reali di questa spaventosa divaricazione che si illudono di poter controllare attraverso l'ultima funzione rimasta davvero agli Stati nazionali: la mera repressione della rabbia distruttrice che un po' ovunque sale dal basso.


4. Distinzioni analitiche

In conclusione, i beni comuni e il bene comune sono grosso modo la stessa cosa, vale a dire che i "beni comuni" innervano e specificano la nozione generale di bene comune, oppure no?

Per chi ha sempre pensato che l'autoregolazione del mercato fosse semplicemente una ignobile menzogna – ideologia nel senso più deteriore del termine – la definizione del bene comune in termini di paniere di beni comuni è suggestiva e tentatrice. Ma prima di avallarla emotivamente, sull'onda della repulsione per la privatizzazione del mondo, è forse bene soffermarsi un attimo sul modello di società che sembra essere al tempo stesso il necessario presupposto e l'auspicato traguardo di quel work (o patchwork?) in progress che è la definizione di una teoria dei beni comuni.

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Tuttavia, nonostante questi scivolamenti comunitari al tempo stesso ingenui e pericolosi, la riflessione e la lotta che hanno come obiettivo quello di evitare la privatizzazione del mondo sono oggi cruciali. Per quanto riguarda la riflessione e l'analisi, una teoria capace di farsi carico di queste esigenze rimanendo nell'alveo illuministico dell'età dei diritti e sfuggendo alle sirene del comunitarismo è quella sviluppata in Principia iuris di Luigi Ferrajoli. Come minimo, in essa la questione dei cosiddetti "beni comuni" trova una sistemazione coerente e plausibile, che può effettivamente servire da orientamento teorico a chi voglia impegnarsi affinché lo spazio giuridico che definisce ciò che spetta all'utilità comune sia ripristinato e analiticamente articolato. Non si tratta di esorcizzare il mercato o immaginare una società in cui i "diritti civili di autonomia" – tra cui l'iniziativa economica – siano inesistenti o residuali, ma di costruire un "costituzionalismo di diritto privato" che si aggiunga al costituzionalismo di diritto pubblico e sia inteso a limitare i poteri economici e in generale "le potestà private".

In questo ampio quadro teorico, sul quale qui non mi posso soffermare, occorre secondo Ferrajoli concepire limiti interni, cui corrispondono "garanzie del mercato", e limiti esterni, cui corrispondono "garanzie dal mercato". Fra questi limiti esterni si trova la "garanzia della sottrazione al mercato dei beni fondamentali in quanto beni indisponibili". Si possono infatti distinguere i beni in due classi: "i beni patrimoniali e i beni fondamentali, a seconda che formino oggetto di diritti patrimoniali e siano perciò insieme a questi disponibili, o lo siano invece di diritti fondamentali, e ne sia vietata la lesione e la disposizione". Tra questi ultimi si possono individuare tre sottoclassi: "i beni personalissimi, come gli organi vitali del corpo umano; i beni comuni, ossia le res communes omnium, come l'aria, l'ambiente in cui viviamo e tutti i beni del patrimonio ecologico dell'umanità; i beni sociali, come i farmaci, l'acqua potabile e l'alimentazione di base".

Si tratta, aggiunge Ferrajoli, di beni comunque vitali "che ben possiamo chiamare 'universali' dovendo essere il loro godimento garantito a tutti in quanto oggetto di diritti fondamentali, fuori delle logiche di mercato". Ma ciò non esime dalla chiarezza analitica e dal rigore argomentativo: "Precisamente, i beni personalissimi sono universali nel senso che tutti ne sono egualmente titolari e tuttavia ciascuno lo è con totale esclusione degli altri; i beni comuni lo sono nel senso opposto che, non diversamente dai diritti di cui sono oggetto, appartengono a tutti pro indiviso; i beni sociali, infine, lo sono nel senso che formano oggetto di diritti sociali e perciò di prestazioni spettanti a tutti quanto meno nella misura dei minimi vitali".

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Capitolo quinto
PER QUALE MONDO LOTTARE?



1. Trent'anni ingloriosi

Siamo messi male, il disagio sociale (un eufemismo, ormai) si può toccare con mano, e non solo in Italia, in quasi tutto il mondo delle "magnifiche sorti e progressive" promesse dalla globalizzazione economica e finanziaria. Come in un film di alcuni anni fa, Cassandra Crossing, c'è un treno carico di passeggeri ma senza macchinista e senza freni lanciato a tutta velocità verso un ponte pericolante, e il tempo per trovare una soluzione passa in fretta, generando angoscia collettiva. Questo è quanto ammette ormai – peraltro senza trarne le conseguenze – tutta la ruling class occidentale che ha provocato il disastro di una (in)"civiltà-mondo" fondata sul pensiero unico neoliberista e che si esprime in quello che, riprendendo un felice neologismo, Gallino ha definito "finanzcapitalismo". Lo ammette dopo trent'anni di devota, per non dire fanatica, applicazione dei suoi precetti, dei suoi dogmi. Thatcher e Reagan furono gli araldi delle politiche neoliberiste, ma gli eredi della tradizione liberal, laburista e socialdemocratica hanno continuato con dedizione il lavoro, quando hanno avuto in mano le leve del potere. Ora queste medesime élites si presentano — senza alcuna vergogna e senza imbarazzo — come i paladini della rinascita, che dovrebbe passare attraverso l'inasprimento delle stesse politiche che ci hanno portato fin qui.

Qui da noi, con incredibile faccia di bronzo, si invitano addirittura i cittadini comuni a partecipare allo smantellamento del welfare, segnalando disfunzioni e piccoli sprechi, piccoli se comparati con i disastri derivati dai "derivati", sollecitando così uno pseudo-civismo che ha molto della delazione e qualcosa dei tempi più bui del secolo scorso, mentre non si riesce a prendere neppure un provvedimento che faccia almeno intravedere una sia pure tenue volontà di limitare i poteri selvaggi della finanza e del mercato. A fronte di queste evidenze, c'è veramente da pensare che avesse proprio ragione Locke quando rassicurava i suoi interlocutori sul fatto che le persone sono davvero molto pazienti, e non ricorrono al diritto di resistenza ad ogni piè sospinto, ma solo in casi estremi e dopo una lunga catena di abusi.

Ma questo è esattamente il caso, ciò che sta emergendo ai danni della stragrande maggioranza dei cittadini è proprio un'infinita catena di abusi, di pesanti stravolgimenti di quel patto sociale che stabilisce le condizioni dell'obbligazione politica e che chiamiamo "Costituzione". E il primo momento della resistenza che si propone di ritornare alla Costituzione consiste nel riconoscere con chiarezza che questa (in)civiltà-mondo non corrisponde più — intendo dire, in misura almeno sufficiente, accettabile — al patto sociale stabilito nella Costituzione italiana e nelle altre costituzioni e dichiarazioni dei diritti del secondo dopoguerra.

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2. Dieci questioni cruciali

In questo decalogo degli "orrori" dell'ideologia neoliberista – e dell'(in)civiltà-mondo che ha generosamente contribuito a generare – ciascun lettore potrà facilmente trovare assenze, o al contrario affermazioni troppo perentorie, e forse sovrapposizioni e inutili ripetizioni. Sono consapevole che il "decalogo" è un espediente espositivo, e che per ragioni di spazio una parte dell'argomentazione è rimasta nella penna. In ogni caso, ho provato a far corrispondere ad ogni singolo "orrore" un embrione di proposta alternativa. Una presentazione più ampia e ordinata – oltre che meglio argomentata – dello stato delle cose si può trovare in Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi , di Luciano Gallino, dal quale ho tratto diversi spunti per le sintetiche osservazioni che seguono.

[...]

2) Il modello neoliberistico della razionalità economica è divenuto paradossalmente un credo, l'opposto della prospettiva laica e liberale del dubbio e del senso critico che detesta il fanatismo, una fede (immanente) che non ammette eterodossia sui suoi assiomi e processi esplicativi ai quali pretende di piegare la realtà, a maggior ragione quando questa si incarica di smentirli: il neoliberalismo si fonda su un paio di assiomi e sulla credenza in tre processi perfetti. Gli assiomi stabiliscono che lo sviluppo continuativo del Pil per almeno 2-3 punti l'anno è indispensabile anche alle società che hanno raggiunto un soddisfacente stato di benessere, al mero scopo di continuare ad assicurarselo. A tale scopo è quindi necessario un proporzionale aumento annuo dei consumi, ottenuto producendo bisogni per mezzo di merci e comunicazioni di massa. I tre processi la cui esistenza e benefici effetti non ammettono discussione si possono così compendiare: 1) i mercati sono perfettamente capaci di autoregolarsi; 2) il capitale affluisce senza fallo né ritardi dove la sua utilità risulta massima; 3) i rischi (quali che siano: insolvenza, caduta dei prezzi, variazione dei tassi d'interesse ecc.) sono integralmente calcolabili, per cui a ciascun livello di essi corrisponde un giusto prezzo dell'entità di riferimento. Nessuna delle smentite che periodicamente la realtà si è incaricata di fornire è mai pervenuta ad intaccare minimamente le suddette credenze tra i fautori del neoliberalismo" (Fc, 28);

[...]

4) Il modello neoliberista si fonda sul presupposto oggi irragionevole di un mondo illimitato, in cui l'umanità è immaginata disporre di risorse infinite, mentre è ormai consolidata la letteratura scientifica che, corroborando il buon senso, ci avverte che il nostro pianeta purtroppo rientra nella dimensione materiale della finitudine: "l'impronta ecologica del pianeta toccava nel 2008 il livello di 1,3. Ciò significa che il nostro pianeta, oltre alle proprie, sta consumando un terzo delle risorse di un altro pianeta, ovvero sta distruggendo a un ritmo accelerato gli ecosistemi che sostengono la vita. Laddove la tendenza attuale proseguisse, si stima che verso il 2050 la civiltà-mondo avrebbe bisogno di un intero secondo pianeta a fianco del nostro per soddisfare i propri consumi di risorse naturali, ivi compresa la capacità di assorbire o rigenerare i rifiuti che essi generano" (Fc, 38);

4-d) avete notato che la "crisi" ha cancellato dall'agenda della discussione pubblica attraverso i grandi media i temi ambientali? Se prima si aveva qualche timido dubbio, ora cementificare è la dura quanto ovvia necessità della "crescita". Per contrastare questa follia, occorre approfondire con serietà le questioni sollevate dalle varie anime del movimento per la decrescita. O forse meglio, dobbiamo interrogarci su che cosa significhi "crescita", questa parola magica ossessivamente ripetuta da tutti i politici e che contiene, se declinata come abbiamo visto finora, la più pericolosa delle illusioni. Se "crescita" significa fare opere tanto faraoniche quanto inutili, consumare il suolo, fare Pil mediante lo spreco di risorse finite, adottare assurdi stili di vita su scala sempre più planetaria ecc., auguriamoci allora che il piano fallisca, che le economie avanzate perdano definitivamente la strada della crescita, perché potrebbe essere davvero l'inizio della fine. L'unica crescita rapida di cui abbiamo disperato bisogno è quella civile e politica, che, per un verso, ci permetta di riorientare l'economia all'utilità sociale e alla compatibilità ambientale e, per l'altro, di riprendere una discussione pubblica su che cosa possiamo davvero considerare benessere individuale e collettivo.

[...]

6-f) è da quando ero bambino che sento parlare di fame, sete e malnutrizione (cinquant'anni fa ci mostravano le immagini dei bambini scheletrici del Biafra). A fronte di questi dati (in crescita, questi sì), per quanto si possa sostenere che le loro cause sono molteplici, è arduo affermare che l'economia di mercato e la finanza sono comunque la migliore risposta. Bisogna ripartire idealmente dallo Statuto dei lavoratori per giungere ad un costituzionalismo di diritto privato (Ferrajoli) che ponga limiti all'iniziativa imprenditoriale e alla mercificazione del mondo originata dalla sacralità della proprietà privata, di cui si deve una buona volta riconoscere il carattere di diritto non fondamentale, se inteso come diritto di proprietà reale, ma transigibile e alienabile. Su questa base si possono imporre Tobin tax e tasse patrimoniali; si possono occupare legittimamente le case di cui i proprietari non fanno alcun uso in attesa di realizzare enormi profitti attraverso le diverse forme della speculazione edilizia; si possono avviare forme di rinazionalizzazione dei beni e servizi essenziali, visto che, tra l'altro, la pseudo-concorrenza ha generato solo accordi di cartello il cui esito finale è l'aumento di prezzi e tariffe; si può costringere il mercato a contrarre la sua dimensione ipertrofica, allargando la dimensione e dando rilievo sociale a quell'economia informale fondata sul dono, inteso come prestazione di scambio personalizzato e differito (Mauss, Latouche, Salsano e tutto il movimento antiutilitarista nelle scienze sociali), che in fondo già ora costituisce la modalità di relazione dei nostri legami più solidi, quelli dell'individualismo cooperativo e solidale, quelli senza i quali davvero la nostra esistenza sarebbe una prova ancora più difficile da superare.

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