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| << | < | > | >> |IndiceNota del traduttore 9 Introduzione 15 A 31 M 183 Abhiman 31 Malcontento 183 Abitatività 32 Malinconia 186 Accidia 33 Malu 189 impulso all'Accumulo 35 Man 190 Allegria 37 Matutolypea 191 Amae 41 Mehameha 191 Ambiguofobia 42 Meraviglia 192 Amore 43 Mono no aware 195 Angoscia 46 Mudíta 197 Ansia 50 Ansia da squillo 50 N 199 Apatia 50 Appagamento 53 Nakhes 199 l'Appel du vide 54 Nginyiwarrarringu 200 nutrire delle Aspettative 54 Noia 200 Autocommiserazione 55 Nostalgia 203 Awumbuk 57 Nostalgia di casa 205 B 59 O 209 Basoressia 59 Odio 209 Brabant 59 Oime 212 Brama di vendetta 59 Orgoglio 212 Broodiness 62 P 215 C 65 Panico 215 Calma 65 Paranoia 217 Cheesed off 67 Paura 221 Claustrofobia 68 Perversione 223 the Collywobbles 70 Peur des espaces 224 Compassione 71 Pietà 226 Compersione 74 Preoccupazione 228 Compiacimento 75 Pronoia 231 Conforto 76 Confusione 79 R 233 Contentezza 81 Coraggio 82 Rabbia 233 Curiosità 85 Riluttanza 236 Curiosità morbosa 88 Rimorso 237 Cybercondria 91 Rimpianto 241 Rimprovero 244 D 93 Risentimento 244 Rivalità 247 Delusione 93 Road rage 250 Desiderio 96 Ruinenlust 251 Diletto 98 Disgusto 99 S 253 Disperazione 104 Disprezzo 106 Saudade 253 Dolce far niente 109 Schadenfreude 254 il desiderio di Scomparire 256 E 111 un po' Seccato 257 Senso di colpa 258 Eccitazione 111 un Sentimento formale 262 Empatia 114 Sentirsi a casa 263 Esasperazione 117 Sgomento 264 Estasi 117 Shock 265 Euforia 120 Soddisfazione 269 Solitudine 272 F 123 Sollievo 274 sentirsi Sommerso 277 Fago 123 Song 280 Fame 124 Sorpresa 281 Felicità 125 Sospetto 283 Fiducia in se stessi 129 Spaesamento 284 Filoprogenitività 131 Spensieratezza 285 sentirsi Frastornato 132 Speranza 287 Frustrazione 133 Stare bene con se stessi 288 Furore 133 un accesso di Stizza 291 avere la Strizza 291 G 137 T 293 Gelosia 137 Gezelligheid 137 Tecnostress 293 Gioia 141 Terrore 294 Glee 143 Timore 295 Going postal 145 Torschlusspanik 297 Gratitudine 146 Toska 298 Greng jai 149 Trionfo 299 Tristezza 300 H 151 U 305 Han 151 Hiraeth 151 Umiltà 305 in a Huff 152 Umiliazione 305 Hwyl 153 Umpty 307 I 155 V 309 Ijirashii 155 Vergogna 309 Iktsuarpok 156 Vergüenza ajena 312 Ilinx 157 Viraha 314 Imbarazzo 157 Vulnerabilità 316 Impazienza 161 sentirsi un Impostore 163 W 319 Incertezza 164 Indignazione 166 Wanderlust 319 sentirsi Insultato 168 Warm glow 322 rimanere Interdetto 169 Invidia 169 Z 325 Irritazione 172 Istinto materno 174 Zal 325 K 175 Ringraziamenti 327 Kaukokaipuu 175 Fonti e approfondimenti 329 L 177 Liget 177 Lítost 178 Lutto 179 |
| << | < | > | >> |Pagina 15Alzate gli occhi. Guardate le nuvole in cielo. Vi sembrano masse grigie e solenni in un cielo senza vento? Oppure fluttuano sul filo di una brezza leggera? O magari l'orizzonte è immerso in un tramonto rosso fuoco, bruciante di desiderio? Agli occhi del pittore John Constable, il cielo era pieno di emozioni. In una lettera del 1821 lo definiva «la nota principale» e «l'organo chiave del sentimento nella pittura». È per questa ragione che Constable dedicava molto del suo tempo a raccogliere e classificare le nuvole. Usciva a piedi dalla sua casa di Hampstead – a quell'epoca un semplice villaggio poco lontano da Londra – con un fascio di fogli tra le braccia e le tasche piene di pennelli. Stava poi seduto per ore nella brughiera dipingendo velocemente le forme che cambiavano sopra di lui, mentre il vento scompigliava le sue carte e i colori venivano annacquati dalle gocce di pioggia. Una volta tornato a casa, dava un ordine ai suoi schizzi in base alle più recenti classificazioni meteorologiche, annotando con cura la data, l'ora e le condizioni del tempo. Constable voleva padroneggiare il linguaggio del cielo – e a guardare i suoi dipinti, appare chiaro che vi riuscì. Ma viveva anche in un periodo storico dominato dal desiderio di etichettare le cose e dividerle in categorie. La passione per la tassonomia sarebbe sempre stata difficile da conciliare con il rapido mutamento del cielo. È molto difficile costringere le nuvole in una forma precisa. Dividerle in gruppi, come avrebbe scoperto il critico d'arte John Ruskin quarant'anni dopo, era «più un fatto di comodità che un vero criterio di descrizione». Le nuvole si fondono l'una con l'altra e si allontanano. Si scambiano forma, caratteristiche e sembianze fino a quando diventa complicato distinguerle. Guardate le nuvole in cielo, e potreste vedere una sola emozione che dà un colore a tutto quanto, per un istante — ma poi il cielo cambia, e l'emozione scompare. Identificare e dare un nome al nostro clima emotivo può rivelarsi un compito altrettanto bizzarro. Provate a descrivere con esattezza cosa state provando in questo momento. Forse il vostro cuore sta battendo per la persona che vi aspetta quando scenderete dal treno? Oppure il vostro stomaco si stringe al pensiero della scadenza lavorativa di domani? Forse è stata la curiosità che vi ha spinto verso questo libro. Oppure è la riluttanza, screziata da una specie di eccitazione ribelle, che vi sta trattenendo su queste pagine in libreria, quando dovreste già essere sulla strada di casa. Vi sentite speranzosi? Sorpresi? (Vi state annoiando?) Alcune emozioni riescono davvero a donare lo stesso colore al mondo intero, per esempio il terrore puro che si prova quando l'automobile sbanda, o l'euforia di quando ci si innamora. Altre emozioni, come le nuvole, sono più difficili da afferrare. Immaginatevi di fare una sorpresa a una persona cara, e forse proverete aspettative increspate di gioia, venate persino di vago terrore – cosa succederà se quella persona odia la sorpresa? Andate via, infuriati, da un litigio, e potreste trovare difficile stabilire il momento esatto in cui la vostra indignazione finisce e inizia l'autocommiserazione. Ci sono emozioni tanto silenziose da scivolare via senza darci la possibilità di notarle, come quella momentanea sensazione di conforto che vi spinge a scegliere una marca familiare al supermercato. E poi ci sono le emozioni che indugiano all'orizzonte, quelle da cui ci affrettiamo a prendere le distanze per paura che piombino su di noi: la gelosia che ci fa scoppiare dalla voglia di frugare nelle tasche di una persona amata, o la vergogna che ci può portare all'autodistruzione. A volte ci sembra di appartenere noi alle nostre emozioni e non il contrario.
Ma forse è soltanto prestando attenzione ai nostri sentimenti,
cercando di coglierne l'essenza come Constable faceva con le nuvole, che
possiamo davvero capire chi siamo.
CHE COS'É UN'EMOZIONE?
Nella profondità di ciascuno dei nostri lobi temporali si trova una struttura a forma di lacrima chiamata amigdala. I neuroscienziati la definiscono "il centro di comando" delle nostre emozioni. Valuta gli stimoli che arrivano dal mondo esterno, decidendo se evitarli o andare loro incontro. Innesca una varietà di reazioni: aumenta il battito cardiaco, ordina alle ghiandole di rilasciare ormoni, fa contrarre gli arti e le palpebre. Se nel bel mezzo di una risonanza magnetica al cervello provate a ricordare una storia triste o guardate una fotografia del vostro bambino neonato, l'amigdala sarà una delle zone che sembreranno "accendersi" nell'immagine generata dal computer. Con i loro arazzi brillanti di magenta e smeraldo, gli studi del cervello possono risultare seducenti. Li si può anche prendere come l'ultima parola sul come e sul perché proviamo quello che proviamo. Ma pensare alle nostre emozioni come a semplici fuochi artificiali di origine biochimica è, per citare la scrittrice Siri Hustvedt , «un po' come dire che La lattaia di Vermeer è una tela con della pittura sopra, o che l'Alice di Lewis Carroll non è altro che parole su una pagina. Questo è vero; ma non dice nulla della mia esperienza soggettiva di ognuna delle due opere, o di che cosa queste due donne significhino per me».
Soprattutto, secondo me, accostarsi alle emozioni come a realtà
essenzialmente biologiche ci porta a fraintendere quello che un'emozione è
davvero.
L'INVENZIONE DELLE EMOZIONI
Nessuno poteva davvero dire di provare un'emozione fino al 1830, circa. Quello che si provava aveva altri nomi — "passioni", "accidenti dell'anima", "sentimenti morali" — e quando si trattava di stabilirne la causa venivano offerte teorie e spiegazioni lontanissime dalla maniera che abbiamo, oggi, di intendere le emozioni. Tra gli antichi greci c'era chi credeva che un certo tipo di rabbia penetrasse negli esseri umani dopo essere stata trasportata sulle onde di un vento cattivo. Tra i primi cristiani, invece, gli eremiti che abitavano nel deserto pensavano che la noia fosse un fatto paranormale, e che mettesse radici nel nostro spirito per opera di demoni malvagi. Nel corso del Quattrocento e del Cinquecento non era necessario appartenere alla razza umana per subire gli strani effetti delle passioni: le palme potevano innamorarsi e desiderare la compagnia degli altri alberi, e i gatti potevano soffrire di malinconia. In tutto questo scenario intangibile popolato da spiriti e forze soprannaturali, però, esistevano anche medici che sviluppavano teorie e pratiche complesse per comprendere quale influenza avesse il nostro corpo sulle passioni. Alla base della loro ricerca c'era la teoria della "medicina umorale" di Ippocrate, mai del tutto dimenticata dai tempi dell'antica Grecia: era stata tramandata grazie all'opera dei medici del Medioevo islamico, e venne ulteriormente approfondita dai medici di corte attivi in tutta Europa durante il Rinascimento. Secondo questa teoria, in ogni singolo corpo umano esistevano quattro "umori", quattro sostanze elementari — il sangue, la bile gialla, la bile nera e la flemma. Erano gli umori a dare forma alla personalità e agli stati d'animo: le persone con un eccesso di sangue nelle vene erano troppo impulsive, ma anche coraggiose, mentre un eccesso di flemma rendeva pacifici e inclini alla tristezza. I medici credevano che le forti passioni mettessero in crisi il delicato equilibrio di un organismo, perché generavano calore nel corpo, e questo, a sua volta, modificava gli umori. La rabbia spostava il sangue dal cuore agli arti, in modo da renderci pronti a sferrare un attacco. La bile nera, invece, mandava vapori velenosi al cervello, e provocava allucinazioni terribili. Qualche traccia di queste idee è arrivata fino a noi, se ancora parliamo di "flemma" e di "cattivo umore", oppure, di una persona arrabbiata, diciamo che le bolle il sangue. Le emozioni per come le intendiamo nel presente, comunque, hanno avuto origine con la nascita della scienza empirica, verso la metà del Seicento. Thomas Willis era un medico e anatomista di stanza a Londra che aveva la possibilità di sezionare i cadaveri dei criminali condannati all'impiccagione. Fu Willis a ipotizzare che gli slanci di gioia e i tremiti nervosi non fossero l'effetto di strani liquidi o vapori, ma che il responsabile fosse il sottile reticolo del sistema nervoso, al centro del quale c'era un solo organo: il cervello. Un centinaio di anni più tardi, i medici che studiavano i riflessi degli animali si spinsero oltre: dal loro punto di vista, se un corpo indietreggiava per la paura o fremeva dal piacere, era tutta una questione puramente meccanica — non c'era bisogno di tirare in ballo sostanze immateriali come l'anima. In una grande sala piena di spifferi nella città di Edimburgo, all'inizio dell'Ottocento, il filosofo Thomas Brown affermò che serviva un nuovo vocabolario per parlare di questa nuova maniera di intendere il funzionamento del corpo umano. Brown suggerì di utilizzare il termine "emozione". Anche se l'inglese del periodo parlava già di emotions (dal francese émotion), si trattava di una parola imprecisa, che descriveva qualsiasi genere di movimento di un corpo e di un oggetto, dall'ondeggiare di un albero al rossore che si diffondeva su una guancia. Stabilire una definizione per il termine indicava che era in atto un nuovo approccio alla vita dei sentimenti, un metodo che utilizzava esperimenti e indagini anatomiche per concentrarsi su una gamma di fenomeni e reazioni che si potevano osservare: l'atto dello stringere i denti; le lacrime; i brividi; gli occhi spalancati. E così nella comunità scientifica dell'età vittoriana si generò un turbinio di interesse circa queste reazioni fisiche, per capire come esprimessero — o provocassero — sommovimenti interiori. Ma un uomo si fece notare in particolare: Charles Darwin. Già dagli anni trenta dell'Ottocento Darwin vedeva le emozioni come un argomento degno di seria considerazione scientifica. Spediva questionari agli esploratori e ai missionari in tutto il mondo, chiedendo loro come esprimevano il lutto o l'eccitazione le popolazioni indigene con cui avevano a che fare. Nel frattempo conduceva esperimenti su se stesso, cercando di stabilire quali erano i muscoli che utilizzava quando tremava e quando sorrideva. Studiava persino il figlio William, fin dalla più tenera infanzia, prendendo nota delle sue reazioni con una cura meticolosa: «All'ottavo giorno di vita era spesso accigliato [...] a poco meno di cinque settimane di vita, sorrideva». Nel 1872 Darwin pubblicò i suoi risultati in un volume dal titolo L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali, in cui sosteneva — con notevole coraggio, dato il periodo — che le nostre emozioni non fossero reazioni prefissate a uno stimolo, ma il frutto di processi evolutivi durati milioni di anni (e non ancora terminati). Le emozioni erano importanti come il fatto di respirare e di digerire, erano un tratto che accomunava animali ed esseri umani, ed esistevano perché ci avevano aiutato a sopravvivere: il disgusto ci aveva evitato di ingerire pericolosi veleni, l'amore e la compassione ci avevano assistito nella creazione di legami e nella collaborazione con gli altri. Negli anni ottanta del secolo la comunità scientifica dava ormai per scontato che le emozioni fossero riflessi ereditati dai nostri antenati, tanto da permettere al filosofo William James di sostenere che le reazioni fisiche fossero l'emozione in sé, e la sensazione soggettiva fosse solo una conseguenza. «Il buon senso ci dice che quando incontriamo un orso ne siamo spaventati e scappiamo via», scriveva James, ma era più razionale affermare che «proviamo paura perché stiamo tremando». Dal suo punto di vista la reazione fisica arrivava prima di tutto, seguita, una frazione di secondo più tardi, dalla qualità soggettiva dell'esperienza, un effetto collaterale che James chiamava "epifenomeno".
Non tutti condividevano questo approccio alle emozioni. Un
anno dopo la pubblicazione delle teorie darwiniane sull'evoluzione delle
espressioni emotive,
Sigmund Freud
cominciò a studiare Medicina all'Università di Vienna. Con gli anni novanta del
secolo, però, Freud aveva abbandonato la sua carriera di neurologo: secondo lui
quando si parlava di uno stato di sofferenza prolungata o di un'eccessiva
diffidenza non era sufficiente ragionare
soltanto in termini di corpo e di cervello. «Non è facile trattare i
sentimenti in maniera scientifica», scriveva. Era necessario tenere
in considerazione anche l'influenza — ben più complicata e sfuggente — della
mente, o psiche. Freud non arrivò mai a elaborare
una teoria esaustiva su quello che lui considerava essere le emozioni — ne
parlava, poeticamente, come di "affetti" — ma la sua
opera diede maggiore spessore e complessità a una visione che
altrimenti tendeva a ridurle a reazioni e contrazioni biologiche. È
tramite il lavoro di Freud che molti di noi pensano alle emozioni
come a qualcosa che può essere represso, oppure accumularsi fino a quando
necessita uno sfogo. In alcuni casi, specialmente per
i terrori e i desideri dell'infanzia, può affondare nelle profondità
della nostra mente, restando nascosto lì dentro per anni, solo per
poi riemergere sotto forma di un sogno, di un'ossessione, persino di un sintomo
fisico come un forte mal di testa o un crampo
allo stomaco. Sempre da Freud abbiamo ereditato l'idea per cui
magari non siamo nemmeno in grado di ammettere l'esistenza di
alcune delle nostre emozioni: la nostra rabbia o la gelosia possono
essere "inconsce", e spuntare fuori in maniera involontaria come
un pupazzo a molla (parliamo in quei casi di "lapsus freudiani"),
oppure farsi riconoscere nel genere di barzellette che raccontiamo, o lasciare
tracce di sé in certe abitudini come la mancanza cronica di puntualità. Anche se
parecchi dettagli tecnici delle teorie
di Freud hanno perso credibilità, l'idea per cui le nostre emozioni
seguono strade tortuose all'interno delle nostre menti oltre che
dei nostri corpi ha avuto una grande importanza nello sviluppo
della psicoterapia e nel linguaggio che utilizziamo oggi. Da questo
punto di vista, l'età vittoriana si può considerare responsabile di
almeno due concetti di primaria importanza per quanto riguarda
le emozioni: che sono reazioni fisiche legate all'evoluzione, e che
risentono dei processi interni alla mente inconscia.
CULTURE EMOTIVE
La risposta alla domanda "Che cos'è un'emozione?" non si può trovare soltanto nella biologia o nella storia personale di un individuo. Il modo in cui ci sentiamo si intreccia alle aspettative e alle idee portanti della cultura in cui viviamo. L'odio, la rabbia e il desiderio possono sembrare emozioni originate dalla parte di noi che è più selvaggia, più vicina al regno animale. Ma possono anche essere provocate dai fattori che più ci rendono umani: il nostro linguaggio e i concetti teorici che utilizziamo per cercare di capire i nostri corpi; le nostre convinzioni religiose e i nostri giudizi morali; le mode, la politica e l'economia dei periodi storici in cui ci capita di vivere. Il nobile francese del Seicento François de La Rochefoucauld sosteneva che anche i nostri impulsi più urgenti possono nascere dal bisogno di rispettare le convenzioni esterne: «Alcune persone non si innamorerebbero mai», diceva, «se non avessero sentito parlare dell'amore». Allo stesso modo, attività come parlare, guardare e leggere possono suscitare emozioni precise nei nostri corpi, ma possono anche calmare i nostri sentimenti. I baining della Nuova Guinea posizionano una ciotola d'acqua nelle loro abitazioni per tutta la notte allo scopo di assorbire l' awumbuk, quell'insieme di tristezza e inerzia che rimane dopo la partenza di un ospite gradito. Questo rituale funziona ogni volta, o così pare. Le nostre idee possono esercitare un'influenza tale da dare forma anche alle reazioni biologiche che crediamo assolutamente naturali. Com'è possibile, altrimenti, che i cavalieri dell'anno Mille perdessero i sensi per lo sgomento, o sbadigliassero in segno d'amore? Com'è possibile che soltanto 400 anni fa le persone arrivassero a morire di nostalgia? La cultura in cui viviamo, oltre ai nostri corpi e alla nostra mente, dà forma alle nostre emozioni: questa era l'idea prevalente negli anni sessanta e settanta del secolo scorso. Gli antropologi occidentali che facevano ricerca sul campo, abitando per periodi più o meno lunghi in posti molto distanti dalle proprie case, svilupparono un forte interesse per il vocabolario emotivo delle diverse lingue. Per esempio, la parola song — l'oltraggio che si prova quando si riceve una porzione insufficiente di qualcosa — viene tenuta in grande considerazione presso gli ifaluk, abitanti dell'omonima isola dell'Oceano Pacifico. Col tempo si chiarì che alcune culture prendono molto sul serio quegli stessi sentimenti che a un abitante di un altro paese potrebbero sembrare meschini. Cosa ancora più importante, in determinate culture esistevano emozioni a cui si dava un tale significato da rendere necessario distinguere ogni loro sfumatura, anche la più sottile, come i quindici diversi tipi di paura che sono in grado di provare i pintupi dell'Australia occidentale. Al contrario, emozioni che a un anglofono sembrano fondamentali, in altre lingue non hanno nemmeno un termine adatto per essere nominate: tra gli indios machiguenga del Perù, per esempio, non esiste una parola che restituisca il significato esatto del termine "preoccupazione". Tutto questo interesse per la componente emotiva del linguaggio aveva il suo fascino: se diverse persone hanno maniere diverse di intendere e concettualizzare le proprie emozioni, questo significa che forse hanno anche maniere diverse di provarle? Gli studiosi di storia hanno sospettato per molto tempo che le passioni potessero avere un ruolo importante nella comprensione delle mentalità prevalenti in una data epoca. Una decina d'anni dopo questi primi studi antropologici, furono proprio gli storici che si dedicarono con maggiore impegno a riportare alla luce le culture emotive scomparse da molto tempo. Certo, non avevano la possibilità di porre domande dirette a uno schiavo romano, o a un innamorato del Medioevo. Ma potevano sempre scoprire i molti modi in cui le persone vissute in un determinato periodo avevano inteso i loro sentimenti: c'erano diari, lettere, manuali di buona educazione, indicazioni mediche, documenti legali e discorsi politici. Gli storici cominciarono a porsi domande poi diventate molto familiari a chi studia la stessa materia oggi. La noia era un'invenzione dell'età vittoriana? Perché i presidenti degli Stati Uniti a un certo punto avevano cominciato a sorridere nei loro ritratti ufficiali? Come mai i manuali di auto-aiuto del Cinquecento consigliavano di essere infelici, mentre i loro equivalenti contemporanei propagandano la felicità? Perché nel Settecento gli artisti desideravano trasmettere il proprio senso di shock all'interno di un'opera? Come era potuto accadere che determinate emozioni scomparissero - come quella combinazione tra irrequietezza e disperazione che i primi cristiani chiamavano acedia, "accidia" - mentre altre apparivano di punto in bianco, come quella che oggi chiamiamo ringxiety, o "ansia da squillo"? Studiare le emozioni del passato non era soltanto questione di stabilire come potevano essere cambiati nel corso del tempo i rituali performativi dedicati all'amore e al lutto, o perché in un determinato periodo alcune emozioni si potevano esprimere pubblicamente mentre altre andavano tenute nascoste o contenute tramite la penitenza e la preghiera. Questo nuovo campo di studio si chiedeva come determinati valori culturali lasciassero il segno nelle nostre esperienze private. La domanda, allora, diventava un'altra: le nostre emozioni appartengono soltanto a noi? Anche le testimonianze relative a emozioni che vengono (a volte) considerate "universali" o "elementari" possono cambiare a seconda del periodo storico o del luogo fisico in cui ci si trova. L'idea per cui alcune emozioni sono più importanti delle altre risale a moltissimo tempo fa. Il Li Chi, una raccolta di precetti e rituali di ispirazione confuciana che viene fatta risalire almeno al I secolo a.C., identifica sette emozioni principali (gioia, rabbia, tristezza, paura, amore, avversione e affetto). Cartesio riteneva ci fossero sei «passioni primitive» (la meraviglia, l'amore, l'odio, il desiderio, la gioia e la tristezza). Arrivando ai giorni nostri, alcuni psicologi evolutivi sostengono che un numero variabile tra sei e otto emozioni "fondamentali" venga espresso nella stessa maniera da tutte le persone in tutto il mondo. La lista, di solito, comprende il disgusto, la paura, la sorpresa, la rabbia, la felicità e la tristezza - anche se non l'amore, le cui manifestazioni esterne si ritiene siano strettamente collegate ai riti sociali delle diverse culture. Si crede che queste espressioni emotive "fondamentali" siano reazioni evolutive a situazioni universali: una smorfia di disgusto espelle una sostanza velenosa dalla nostra bocca quando tiriamo fuori la lingua; la scarica di energia che sentiamo quando ci arrabbiamo ci può aiutare a combattere un nostro rivale. Ma davvero ne consegue per forza di cose che queste emozioni vengano provate allo stesso modo da tutti in qualsiasi momento? Immaginate un agente di borsa di New York nel pieno del lavoro: gli sudano le mani, gli batte forte il cuore, gli formicola la testa. Ora pensate alle stesse sensazioni fisiche, ma immaginate che a provarle sia un cristiano del Duecento mentre prega in ginocchio in una chiesa fredda, o da uno dei pintupi dell'Australia mentre si sveglia in piena notte per un forte dolore allo stomaco. L'agente di borsa potrebbe prendere questo insieme di emozioni e sensazioni e dire che è "un rush di adrenalina", o un caso di "paura buona" (in una brutta giornata, potrebbe dire che è "stress"). L'uomo del Medioevo vedrebbe le stesse cose come "paura meravigliosa", una forma di terrore che segnalava la presenza di Dio. Il terzo direbbe che sta provando ngulu, un particolare genere di timore che i pintupi avvertono quando sospettano che qualcuno voglia vendicarsi di loro. I significati che attribuiamo a un'emozione cambiano l'esperienza che noi ne facciamo. Sono loro a stabilire se sia il caso di accogliere un sentimento con allegria o con ansia, se lo si possa assaporare o se invece si debba provarne vergogna. Ignorando queste differenze, finiremmo per perdere ciò che fa delle nostre esperienze emotive quello che sono. Alla fine, dipende tutto da che cosa pensate sia un'emozione. Quando parliamo di emozioni, secondo me, abbiamo bisogno di quella che l'antropologo americano Clifford Geertz negli anni settanta definiva una thick description, una "descrizione densa". Per spiegarlo, Geertz faceva una domanda elegante: che differenza c'è tra un battito di ciglia e una strizzata d'occhio? Se rispondiamo in termini puramente fisici – parlando, quindi, di una catena di contrazioni muscolari all'interno della palpebra – allora un battito di ciglia e una strizzata d'occhio sono più o meno la stessa cosa. Ma per poter capire davvero cosa sia una strizzata d'occhio è necessario sapere in quale contesto culturale si sta verificando. Bisogna capire gli scherzi, le battute, le allusioni sessuali, e bisogna essere a conoscenza di cose che non sono affatto innate, costruzioni di natura sociale come l'ironia e il camp. Un discorso simile lo si può fare per l'amore, l'odio, il desiderio, la paura, la rabbia, e così via. Senza contesto, avete a disposizione soltanto una "descrizione sottile" di quello che sta succedendo, non conoscete tutta la storia, vi manca il quadro completo – ed è proprio nella completezza del quadro, nella totalità della storia, che si coglie davvero un'emozione.
Questo libro racconta le storie delle emozioni, e il modo in cui
queste storie cambiano. Parleremo dei molti modi diversi in cui
le emozioni sono state percepite e manifestate – dai giurati che
scoppiavano a piangere durante i processi dell'antica Grecia alle
coraggiose donne barbute del Rinascimento; dalle "corde del cuore" oggetto di
studio per i medici del Settecento agli esperimenti
che Darwin faceva su se stesso durante le visite allo zoo di Londra;
dai soldati che tornavano a casa soffrendo di "shock da granata"
durante la prima guerra mondiale alla nostra cultura contemporanea, con il suo
interesse per la neuroscienza e le immagini cerebrali.
Sono moltissimi – e molto diversi – i modi che hanno di stare al
mondo i nostri corpi – dolenti, accigliati, sussultanti, pieni di gioia.
E il mondo, a sua volta, con i suoi valori morali, le sue gerarchie
politiche, le cose che dà per scontato riguardo al gender, alla sessualità, alla
razza e alla classe sociale, i suoi punti di vista filosofici
e le sue teorie scientifiche, ha molti modi di vivere dentro di noi.
GUIDA PRATICA ALL'AVVISTAMENTO DELLE EMOZIONI
Al giorno d'oggi la salute emotiva, per ottenere la quale è necessario ammettere e comprendere i nostri sentimenti, è uno degli obiettivi dichiarati della politica di molti paesi, dal Bhutan al Regno Unito. Basta accendere la tv, oppure aprire un giornale, per ricevere consigli sul modo migliore di raggiungere una felicità duratura, o sul perché piangere possa avere un effetto positivo per l'organismo. Non è una novità, questa idea per cui è importante prestare attenzione alle nostre emozioni. Secondo i filosofi stoici dell'antica Grecia, notare i primissimi palpiti di una passione era il momento migliore di controllarla. Se si era capaci di individuare il momento esatto in cui cominciavano a rizzarsi peli e capelli, era molto più facile ricordare a se stessi che non era il caso di lasciarsi prendere dal panico. Nel corso dei Seicento, lo studioso e grande esperto di malinconia Robert Burton si accorse che prestare attenzione alle sue emozioni lo aiutava molto – anche se lui preferiva un approccio diverso. Sviluppò una curiosità particolare rispetto alla disperazione e alla preoccupazione che gli accadeva di provare, e cercò di capire quei sentimenti mettendosi in relazione con quello che ne avevano scritto altri autori e filosofi, specialmente quelli del passato. Così facendo, la malinconia che a Burton era sembrata tanto priva di senso cominciò ad assumere un significato – e allentò la sua presa su di lui. Il grande risalto che oggi viene dato alle emozioni può aver avuto origine nella vasta diffusione verso la metà degli anni novanta di un insieme di studi psicologici al cui ambito di ricerca venne dato il nome (piuttosto accattivante) di "intelligenza emotiva", anche nota come "quoziente emotivo" (EQ). I sostenitori di questo tipo di studi ritenevano che l'abilità di riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri, e poi di utilizzarle come strumenti per prendere decisioni, fosse altrettanto importante del quoziente d'intelligenza tradizionale quando si trattava di determinare le probabilità che una persona avesse successo. E sì, è stato dimostrato che una buona consapevolezza delle emozioni è strettamente connessa a una serie di risultati positivi, come una maggiore resilienza durante i periodi di stress, migliori prestazioni lavorative, più elevate capacità di negoziare e prendere decisioni, rapporti più stabili all'interno della sfera affettiva. Oggi il "quoziente emotivo", o una variante della medesima formula, è un concetto familiare a molti tra educatori, uomini d'affari e rappresentanti istituzionali. Davanti a tutto questo entusiasmo per le emozioni voi potete sorridere o alzare un sopracciglio con scetticismo. Comunque la pensiate, sarete d'accordo nel dire che esistono legami affascinanti tra i nostri sentimenti e le parole che utilizziamo per esprimerli. Alcune emozioni negative possono attenuarsi quando sapete con quale nome chiamarle, come il sentirsi umpty (la sensazione che "è tutto sbagliato") o la matutolypea (la tristezza che si manifesta soltanto al mattino presto). Alcune emozioni si rivelano giocare un ruolo non indifferente nelle nostre vite quando impariamo i loro nomi: è il caso della basoressia (l'improvviso desiderio di baciare qualcuno) o del gezelligheid (il senso di accoglienza e conforto che deriva dallo stare in casa con gli amici durante una notte fredda). E poi, a volte, scoprire quali emozioni provino gli altri può far sembrare meno strane e isolanti le nostre. Mentre lavoravo a questo libro, molte delle storie in cui mi sono imbattuta mi davano quella consolazione che deriva da un'esperienza condivisa. Altre mi colpivano per ragioni diverse: mi aiutavano a vedere in un'altra luce alcuni dei miei sentimenti più ostinati. La maggior parte di noi tende a evitare di riflettere su di una certa emozione. Magari ci si vergogna del risentimento provato, oppure si ha paura della propria apatia, o si fatica a convivere con l'imbarazzo. Ma se concediamo a noi stessi la possibilità di pensare a quale sia l'origine dei nostri atteggiamenti verso queste emozioni, potremmo scoprire che i sentimenti negativi non sono creature mostruose come a volte ci viene fatto credere. La mia speranza è che alcune delle storie raccolte qui possano colpire anche voi.
Lo scopo ultimo di questo libro, comunque, non è trasformarvi
in persone più felici o di maggiore successo (tantomeno più ricche!). Capire la
storia culturale delle nostre emozioni, anche se i
lati curiosi non mancano, ci aiuta soprattutto a individuare tutte
le convinzioni implicite su cosa costituisca una reazione emotiva
"naturale" — o, peggio, una "normale". Se le nostre emozioni sono
tanto importanti per noi, se i governi le misurano, se i medici le sottopongono
sempre più spesso a controllo farmaceutico, se le nostre
scuole le trasformano in materie d'insegnamento e i nostri datori
di lavoro le tengono sotto osservazione, allora sarà il caso che cerchiamo di
capire da dove vengono tutti i nostri preconcetti su di loro — e se davvero
vogliamo continuare a sottoscriverli.
COME USARE QUESTO LIBRO
Nella massa di letteratura prodotta sulle emozioni esistono, ovviamente, moltissimi elenchi dei vari sentimenti che è possibile provare. Quello che ho cercato di fare io qui non ha la pretesa di essere esaustivo, né di scavare dentro la nostra complessa vita interiore nella speranza di raggiungerne il cuore. Questo elenco, invece, è presentato come una raccolta di mini-saggi sulle emozioni, messi in ordine alfabetico per amor di convenzione. Le emozioni in apparenza minori o stravaganti — come il sentirsi (un po') seccati, o il cosiddetto ilinx (l'eccitazione distruttiva che si può provare nel prendere a calci il cestino della carta straccia in ufficio) — fanno parte della consistenza delle nostre vite emotive tanto quanto ne fanno parte emozioni forti come la paura o la sorpresa. Venendo alle singole voci, poi, nemmeno quelle hanno la pretesa di dire l'ultima parola sul conto di un fenomeno. Si limitano a gettare un po' di luce sulla politica culturale delle emozioni, passata e presente, nella speranza di mettere meglio a fuoco le ragioni per cui oggi ci sentiamo in un certo modo. La mia speranza è che vi possano interessare e incuriosire, e che possiate utilizzare quanto ho scritto come punto di partenza di una discussione. Non è facile suddividere le emozioni in categorie. In tutto il tempo che ho passato a lavorare su queste voci, mi è capitato spesso di sentirmi come un frastornato catalogatore di nuvole dell'epoca vittoriana: mi chiedevo se un particolare tipo di brivido derivasse dal piacere o dal disgusto (o magari da entrambi), oppure quale fosse il punto in cui termina il senso di colpa e comincia il rimorso. A volte cercare di definire una cosa con precisione porta a ottenere intuizioni notevoli (anche se non sempre è questo il caso: si veda alla voce AMBIGUOFOBIA). Ma pensare alle emozioni vi trasporterà in un labirinto di porte girevoli e passaggi collegati tra di loro, e in determinati momenti le parole che vengono usate per esprimerle diventeranno più che altro una scelta di comodo. Ecco perché il libro è organizzato nel modo che vedete. Potete leggere le voci seguendo l'ordine alfabetico. Oppure potete sfogliare le pagine fino a quando qualcosa vi salta all'occhio, e da lì seguire i riferimenti e i rimandi incrociati, e così via — forse questa è una modalità di lettura un po' più vicina alla maniera reale che hanno le nostre emozioni di cambiare forma e confondersi l'una nell'altra. In totale, le emozioni raccolte qui superano di poco le 150 — avrebbero potuto essercene molte di più, è naturale... Ma anche se ho intrapreso un progetto impossibile da concludere davvero, posso comunque presentarvi questa collezione che, proprio perché naturalmente incompleta, manifesta il mio disaccordo con l'idea che la splendida complessità della nostra vita interiore possa davvero essere ridotta a una manciata di emozioni principali. Se c'è una cosa che ho imparato, durante il mio viaggio d'esplorazione in questo nuovo, strano mondo emotivo, è che non ci servono meno parole per indicare i nostri sentimenti. Ce ne servono molte di più. | << | < | > | >> |Pagina 42=== AMBIGUOFOBIA ==========================================Emozione inventata dallo scrittore americano David Foster Wallace per descrivere il disagio che si prova nel concedere spazio all'interpretazione altrui. Per esempio: «La sua ricetta ambiguofoba per il vitello allo yogurt consisteva in sette pagine e quattro disegni schematici». Si veda anche alla voce: PARANOIA. | << | < | > | >> |Pagina 43=== AMORE =================================================«Se tu fossi qui - oh se solo lo fossi, Susie mia, non avremmo assolutamente bisogno di parlare, perché i nostri occhi bisbiglierebbero per noi, e la tua mano stretta nella mia, non avremmo bisogno della parola.» Emily Dickinson, Lettera a Susan Gilbert, 11 giugno 1852 Resta ancora qualcosa da dire sull'amore? Sono stati versati fiumi d'inchiostro, composte miliardi di poesie e canzoni, riempite biblioteche intere di testi filosofici, per cercare di esprimere al meglio il concetto, per capirlo a fondo e dargli una definizione esatta. Questa sconfinata quantità di parole ci mostra non solo quanto c'è o ci sarebbe da dire sull'argomento, ma anche quanto poco se ne possa dire davvero con sicurezza. Questa emozione inafferrabile è tanto importante da richiamare su di sé tutta l'attenzione, e tanto sfuggente da mandare all'aria ogni tentativo di definirla con esattezza. Anche al termine di una vita passata insieme felicemente, è difficile dire che cosa sia, di preciso, l'amore. Sappiamo che c'è - deve esserci, per forza, altrimenti come faremmo a mettere al primo posto l'altra persona, come saremmo sopravvissuti ai litigi e alle incomprensioni? Qualcosa che ci tiene insieme c'è, ma cosa, e come, e perché? [...] Le parole ci sgusciano via proprio nell'attimo in cui stiamo cercando di dirle, e ci resta solo un'alzata di spalle, un po' dimessa, e un sorriso. «L'amore è, sapete...» Magari siamo capaci di farci sopra tanti bei discorsi, ma altrettanto spesso restiamo muti.
L'assenza di parole tipica dell'amore comincia con l'inizio dell'amore
stesso. Uno dei più antichi esempi di questa fatica a esprimersi è un frammento
poetico attribuito a
Saffo
, che visse intorno al VI secolo prima di Cristo sull'isola greca di Lesbo.
Attraverso un mare di chiacchiere e canti, Saffo vede la sua amata dall'altro
lato di una stanza, mentre lei sta parlando con qualcuno; e qui la poetessa
viene colta da una specie di paralisi:
Quella della lingua spezzata non è una metafora buttata lì a caso, ma fa parte di un'intera sequenza di reazioni fisiche descritte dalla poetessa. Un fuoco le attraversa il corpo, dalla pelle agli organi interni, e il fumo le sale al cervello, così che «i miei occhi non vedono / le orecchie mi risuonano / scorre un sudore e un tremito mi prende / tutta». Travolta dall'intensità del suo amore, conclude, «è come se mancasse tanto poco / ad esser morta». «Dovremmo lasciar perdere quest'espressione trita e ritrita», scriveva il romanziere Stendhal a proposito della sensazione del restare a bocca aperta – o ridotti al silenzio – nel posare gli occhi sulla persona amata per la prima volta. Però, ammetteva, «può capitare». Nei primi scritti di medicina giunti sino a noi, sintomi come quelli descritti da Saffo non soltanto erano reali, ma venivano ricondotti a un disturbo molto più ampio: il mal d'amore. Furono i medici arabi del X e XI secolo che per primi stabilirono che il mal d'amore fosse legato a un amore non corrisposto (o, per il momento, non consumato) e che fosse una manifestazione del disturbo noto come "melanconia" (si veda alla voce: MALINCONIA). Ibn Sinā (più noto in Occidente col nome di Avicenna ) chiamava questa passione al-'ishq, o illishi, e ne parlava come del desiderio di ottenere l'unione perfetta col proprio amato – un'unione che fosse spirituale e sessuale insieme (si veda alla voce: VIRAHA). Anche se si trattava di un desiderio nobile, col tempo la sua intensità poteva far salire vapori melanconici al cervello, generando una forte confusione mentale e rendendo l'amante di turno smemorato e chiuso in se stesso. Quando lui o lei parlava, lo faceva in maniera incoerente, e diceva cose prive di senso.
Questa idea dell'assenza di parole continuò a perseguitare gli
innamorati europei; soprattutto in quelle aree nelle quali, nel secolo
successivo ad Avicenna, sarebbe nata la tradizione dell'amor cortese, forse una
della più massicce profusioni sentimentali in tutta la
cultura occidentale e quella a cui possiamo far risalire molte delle
nostre idee convenzionali sull'amore. I trovatori dell'Occitania tra
XI e XIII secolo – e le loro controparti femminili, le trovatrici – cantavano
del loro desiderio per amanti irraggiungibili. A volte il loro
amore si esprimeva al meglio attraverso il silenzio di un semplice
respiro. E i sospiri facevano parte del linguaggio dell'amante bramoso. Lo erano
anche gli sbadigli, presi come prove non di NOIA
e nemmeno di DISPREZZO (anche se oggi lo sarebbero), ma di una
devozione di lungo corso, come cantava un trovatore alla fine del
XII secolo:
I silenzi sono ancora una parte importante nel nostro modo di amare. Li potete sentire nei perdoni dati senza bisogno di parole, in una mano stretta fino a far male, o nelle occhiate scambiate da un lato all'altro di una stanza. Li potete sentire all'interno dello stesso vocabolo "amore". Sappiamo che questa parola ha un significato immenso. La consideriamo una prova obiettiva dei sentimenti che prova l'altra persona, quasi fosse un incantesimo capace da solo di far progredire una relazione (o, al contrario, di riportarla indietro di parecchi passi). «Ti amo», dice Alec nel film Breve incontro. «Ti prego, no», gli risponde Laura, che sa che ora le cose non potranno più tornare come prima. Eppure, nonostante tutta questa spinta gravitazionale, la parola spesso non riesce a esprimere in pieno un sentimento, e c'è bisogno di aggiungere una precisazione, o una spiegazione: «Ti amo ancora, ma non sono più innamorato di te»; «Per lei provo più affetto che amore». La parola "amore" può davvero essere un concetto così ampio e così limitato allo stesso tempo? E alla base di un intrigante flirt ci può davvero essere la stessa parola che è legata alla confortevole tranquillità di un progetto di vita comune? Qual è la differenza tra il sentimento che proviamo per un amico leale nel corso degli anni e quel piacevole rumore di sottofondo che accompagna chi sta in coppia da cinquant'anni? È uguale all'emozione che si può provare nei confronti di Dio, o dei propri genitori, o di un animale domestico? Sembra che strada facendo ci siamo persi diverse parole. E ci restano soltanto poche sillabe – vaghe, per giunta, facili da fraintendere. Allora alziamo le spalle.
È soltanto, sapete com'è...
amore.
Si veda anche alla voce: DESIDERIO. | << | < | > | >> |Pagina 50=== ANSIA DA SQUILLO ======================================Suona un telefono in un affollato scompartimento ferroviario, e voi cominciate a frugarvi in tasca per vedere se è il vostro. State facendo una passeggiata in campagna e di colpo sfoderate il cellulare come se fosse una pistola, convinti di averlo sentito vibrare, solo per scoprire uno schermo pateticamente muto. Stando allo psicologo David Laramie, che ha inventato questa parola, la ringxiety è un'ansia leggera ma sempre presente che ci fa credere di aver sentito suonare il nostro telefono, anche quando così non è. Una prova — come se ce ne fosse stato bisogno — che in un'epoca dove la comunicazione è immediata, l'essere sempre pronti al contatto umano sta diventando la nostra impostazione predefinita. Si veda anche alle voci: nutrire delle ASPETTATIVE; TIMORE. | << | < | > | >> |Pagina 59=== BASORESSIA ============================================L'impulso improvviso a baciare qualcuno. Si veda anche alla voce: VULNERABILITÀ. | << | < | > | >> |Pagina 91=== CYBERCONDRIA ==========================================Angoscia derivante dai "sintomi" di una "malattia" alimentata dal "cercare su Internet". Si veda anche alla voce: PARANOIA. | << | < | > | >> |Pagina 99=== DISGUSTO ==============================================Annusate l'odore del latte andato a male e arricciate il naso. Toccate per errore una cacca di cane e vi si chiude la gola mentre vi fiondate al rubinetto più vicino per sciacquarvi le mani. Non riuscite in alcun modo a bere da un bicchiere se vedete uno sputo che galleggia sulla superficie. Tra la percezione di una sostanza nociva e la reazione schifata c'è solo un istante di shock, insomma, ed è questa rapidissima scossa quasi elettrica che rende il disgusto tanto affascinante. Entrate in contatto con una forma di veleno e il vostro corpo immediatamente reagisce con un tentativo di rigetto. Semplice e istintivo, come quando vi si chiudono gli occhi di scatto mentre dalla padella una goccia d'olio caldo schizza verso di voi. Il disgusto può sembrare un'emozione pratica e ultraefficiente, una semplice formula salvavita. Niente di più falso. L'idea per cui ogni persona — dall'abitante dell' outback australiano all'inquilino di un appartamento di Tokyo — condivide un numero limitato di espressioni emotive è piuttosto seducente. Quando gli psicologi evolutivi parlano di "emozioni fondamentali universali", vogliono dire che i nostri corpi si sono tutti evoluti nella stessa maniera per aiutarci a sopravvivere a situazioni universali, come dover scappare da un predatore (paura) o spaventare un rivale (rabbia). Senza queste reazioni fisiologiche che ci preparavano a lottare o a fuggire, non saremmo potuti sopravvivere. Il disgusto è un ottimo candidato al titolo di emozione universale: tutti sembrano mimare un conato di vomito e tirare fuori la lingua quando sono disgustati da qualcosa; tutti arricciano il naso. Anche se non tutti si trovano d'accordo su quali emozioni vadano considerate "fondamentali" o "universali", il disgusto è sempre presente in questa lista: la Stakanov delle emozioni, pronta a eliminare i veleni dal nostro corpo e prevenire le infezioni. Questa affermazione, tuttavia, è fuorviante. Tanto per cominciare, esistono almeno tre tipi di repulsione, ciascuna con le sue reazioni particolari. Il "disgusto di base" è la repulsione provata quando qualcosa di velenoso — di solito carne marcia o feci — viene avvicinato alla nostra bocca. La nostra reazione è indietreggiare, provare nausea ed emettere rumori associati al vomito: bleah, yuck, ugh, nghm. Il "disgusto da contaminazione" scatta nelle vicinanze di persone o luoghi che minacciano di infettarci. È lì con voi quando vi viene la pelle d'oca nell'entrare in una casa che non viene pulita da anni (non toccate niente!): è quello che ci fa tremare o sentire riluttanti anche solo a sederci per non rischiare di venir contaminati. La vista di una bocca spalancata che rivela filamenti di saliva e rimasugli di cibo appiccicoso, o la vista di una ferita insanguinata, provoca un altro genere di repulsione, quello che gli psicologi chiamano, in maniera poco elegante, "disgusto da violazione del corpo-guscio", in cui la paura della contaminazione si unisce a un terrore quasi esistenziale per le cavità e le aperture corporee. Il fatto che diversi tipi di disgusto abbiano segnali e reazioni differenti suggerisce si siano sviluppati lungo diversi sentieri evolutivi. Sarebbe difficile sostenere che uno sia più "fondamentale" degli altri.
Molto di quello che provoca disgusto, inoltre, si apre a interventi di
natura culturale. Gli embrioni bolliti di anatra, mangiati
freschi freschi dalle uova nelle Filippine, risultano rivoltanti a parecchi
turisti occidentali. Anche le nostre reazioni a cose che in
apparenza siamo "programmati" a trovare disgustose, come le feci
o le ferite grondanti secrezioni, possono dipendere dal contesto. I
chirurghi moderni parlano del "pus lodevole" che sgorga da una
pustola incisa (il termine è un retaggio della medicina umorale medievale). Può
avere un odore e una consistenza terribili — lasciamo
stare il nome: anche solo dire "pus lodevole" basta a farmi fare un
balzo all'indietro — ma in una sala operatoria si saluta con favore la
sua presenza perché reca sollievo al paziente. «La sporcizia è una
cosa fuori posto», diceva l'antropologa
Mary Douglas:
quello che noi troviamo lurido e contaminante, e quindi disgustoso, è
soprattutto una questione di cosa pensiamo stia "al posto giusto".
La sensazione che qualcosa sia "fuori posto" potrebbe essere più importante nel provocare il disgusto rispetto a quanto è obiettivamente pericoloso. Abbiamo tutti familiarità con certe piccole anomalie, quelle di quando ci sale la nausea nello stomaco in reazione a un oggetto che non ci può nuocere in alcun modo. I capelli in bocca, la pellicina in una tazza di latte caldo, la zuppa che resta sulla barba di qualcuno (ah, il solo pensiero!). Tanto di quello che troviamo disgustoso si collega alle cose accidentalmente fuori posto. Non ci dovrebbe sorprendere, allora, che sia questo problema di categorie messe in crisi a stare al centro di come la parola "disgusto" abbia preso il sopravvento su altri termini. Gli inglesi dell'età moderna non parlavano di disgusto. Parlavano, invece, dell' abominio provato davanti a un "deforme", o nell'imbattersi in una "strega" — un'avversione sentita verso quelle persone percepite come estranee al naturale ordine delle cose. Gli storici hanno scoperto una tendenza, in quel periodo, a parlare di cose e persone moralmente disgustose come di "abominevoli" o "aberranti", mentre per chi dava il voltastomaco fisicamente veniva usata tra gli anglofoni una parola molto più vecchia, wlatsome (che significava "ripugnante" o "detestabile"). Invece di bleah o yuck, gli inglesi del passato dicevano fie! e fum!. Potrebbe essere per questo che il gigante della fiaba "Jack e il fagiolo magico" grida «Fee-fi-fo-fum!»: non è in collera, come talvolta si pensa, ma è disturbato dall'odore per lui disgustoso del sangue dei suoi nemici, gli inglesi. [Nella versione italiana della fiaba corrisponde a «Ucci ucci, sento odor di cristianucci» [N.d.T.]]. Il disgusto per come lo intendiamo noi entrò in scena nel Settecento, spazzando via con il suo arrivo ogni genere di "avversione" e "repulsione" morale. La parola, che deriva ovviamente da "gusto", venne resa popolare da filosofi come Immanuel Kant e Edmund Burke. Il loro disgusto era una reazione principalmente estetica a tutto quanto fosse deforme, sporco e brutto: cioè a quello che era l'antitesi della sensibilità illuminista. Nell'arco di pochi decenni, provare "ripugnanza" significava essere all'antica, mentre il "disgusto" prese piede come l'emozione di chi voleva sembrare un tipo erudito e di classe. Da qui, il disgusto diventò un concetto molto ampio, applicato a ogni cosa che sembrava fuori posto in un determinato contesto — la vista di un liquido che usciva dal corpo al momento sbagliato e dal buco sbagliato, ma anche un brutto vaso, o un comportamento inopportuno.
In maniera piuttosto appropriata per un'emozione che ha così
tanto a che fare con i confini e le sfumature, il disgusto ha mantenuto ancora
oggi una certa trasversalità. Per esempio, parliamo
del sentirci disgustati di fronte a qualcosa di immorale. Anche se
l'uomo che scrive lettere ai giornali per lamentarsi di questo e di
quello probabilmente non sente l'urgenza di vomitare quando viene a sapere
dell'ultima buffonata del consiglio comunale riguardo
alla gestione dei parcheggi, ci sono momenti in cui il nostro senso di
indignazione morale si sovrappone alla ripugnanza fisica. Nei tardi
anni ottanta gli psicologi Paul Rozin e Carol Nemeroff fecero un
bizzarro esperimento. Ai partecipanti chiesero se erano disponibili
a indossare un maglione — e molti lo erano. Poi gli psicologi aggiunsero che il
maglione un tempo era appartenuto a
Adolf Hitler.
Con questa informazione supplementare, la maggioranza dei partecipanti cominciò
a fare smorfie e a cambiare posto in modo da
mettere distanza tra se stessi e il capo d'abbigliamento, rifiutandosi
di indossarlo e apparendo disgustati e producendo le opportune
reazioni verbali di
bleah
e
ugh.
Rozen e Nemeroff ipotizzarono a questo punto che i partecipanti, nella loro
immaginazione, temessero di venire contaminati da una qualche "hitlerità" che li
faceva indietreggiare al solo pensiero di toccare quel tessuto con la loro pelle
nuda. In casi simili è chiaro che il disgusto opera molto al di là della
semplice equazione veleno = disgusto. Diventa qualcosa di incontenibile, e va a
influenzare anche i nostri giudizi morali ed estetici.
Prestate attenzione, quindi, e vedrete che il disgusto non si può
ridurre a una semplice "emozione fondamentale" sempre all'erta e
pronta a proteggerci. Quello che noi chiamiamo "disgusto" descrive molti generi
di reazioni diverse: la nausea dell'aprire un frigorifero e trovarci dentro
della carne marcia, i brividi che vi spingono
a non raccogliere un fazzoletto pieno di moccio, l'orrore del vedere
una ferita aperta, persino una sensazione di nausea
morale.
Come accade per tante delle nostre emozioni, non è facile capire dove
comincia il disgusto e dove finisce. A volte può sfumare nell'allegria un po'
agitata che può dare l'umorismo scatologico. O può
giocare un ruolo nel trovare tanto eccitanti certi feticci (si veda alla
voce: CURIOSITÀ MORBOSA). E visto che anche un'eccessiva pienezza
può sembrarci rivoltante — ci dà il voltastomaco non solo l'idea di
consumare altro cibo, altra tv, o qualsiasi cosa con cui abbiamo esagerato, ma
anche il senso di colpa che ne consegue —, il disgusto è
spesso legato alla NOIA. Forse non sarà una sorpresa, allora, che in
molti abbiano sentito il bisogno di definire con esattezza quest'emozione tanto
sfuggente. Dopo tutto, il disgusto cresce in maniera
più prepotente quando vengono a mancare i limiti, si perdono i
significati e le cose scivolano lontane, "fuori posto".
Si veda anche alla voce: AMBIGUOFOBIA. | << | < | > | >> |Pagina 117=== ESTASI ================================================Nelle profondità della chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma si trova la scultura di Gian Lorenzo Bernini Estasi di Santa Teresa. Raffigura una visione avuta da una suora del Cinquecento: un angelo, che ha preso la forma di un uomo attraente, viene da lei e le conficca nel petto una lancia dorata. «Il dolore era così reale che gemetti più volte ad alta voce», scrisse Teresa nella sua autobiografia, «però era tanto dolce che non potevo desiderare di esserne liberata. Era la dolcissima carezza dell'anima da parte di Dio.» È difficile guardare la scultura di Bernini senza cedere a pensieri impuri. Quando i turisti mettono una moneta nella scatola per l'illuminazione, Teresa sembra prendere vita in una maniera che potremmo chiamare orgasmica. Ansima e inarca la schiena, arriccia le dita dei piedi e si fonde con il basamento di marmo, come se stesse cadendo su un tappeto di morbido muschio o sulle lenzuola sgualcite di un letto. L'estasi ci paralizza con un piacere tremante. Ci riempie la gola, riducendo le parole a grida strozzate. Dal greco ekstasis (essere fuori di se stessi), l'estasi comporta uno strano paradosso: i momenti in cui ci sentiamo più presenti rispetto al nostro corpo, attraverso la danza, il canto o il sesso, sono anche i momenti in cui andiamo al di là del corpo, e proviamo la sensazione di non avere limiti o confini. L'estasi è come se il mondo intero si fosse spalancato. Come se noi, per un momento, fossimo stati liberati da tutto. Esperienze di questa natura stanno al cuore della pratica spirituale da migliaia di anni. In Europa, durante il Medioevo, le suore si flagellavano e digiunavano, in modo da ricevere visioni di stelle cadenti e città che esplodevano, come premio delle loro fatiche. Molto prima di loro, gli sciamani della Siberia e dell'Asia centrale danzavano e giravano su se stessi finché cadevano a terra in preda alle convulsioni, e a quel punto vedevano animali o antenati, apparsi loro per condurli nel mondo degli spiriti. Come scriveva il poeta persiano del Duecento Rūmī: «Quando dentro di te il vento del derviscio avrai / leviterai sopra il mondo e lì dimorerai». Oggi la parola evoca per prima l'immagine dei clubbers sudati che si abbracciano travolti dalla sensazione dell'MDMA. Quello, o l'abbandono vertiginoso del sesso. Nei circoli medici, il disincanto per l'estasi cominciò intorno alla metà dell'Ottocento. I neurologi, impegnati a cercare di mettere ordine nelle nostre vite mentali ancorandole a basi fisiologiche, diedero una nuova classificazione agli stati estatici, che da emozioni rare e ricercate diventarono effetti collaterali derivanti dai disturbi nervosi. Le più famigerate tra le estatiche moderne erano le pazienti del manicomio della Salpêtrière a Parigi. A queste donne era stato diagnosticata l'isteria — tipica categoria di malattia mentale pre-XX secolo — e soffrivano sintomi che comprendevano allucinazioni visive e uditive, attacchi epilettici e contrazioni degli arti. I migliori medici di tutta Europa andavano a Parigi per studiare le isteriche, e contribuirono a far diventare famoso Jean-Martin Charcot che le esibiva come grandi star nel corso delle sue teatralissíune "Conferenze del martedì". Queste donne e le loro pose stravaganti — chiamate attitudes passionnelles — sono note ai giorni nostri grazie alle fotografie, oggi sbiadite, che venivano loro scattate. Un'immagine è stata chiamata Extase 1878. In quello che sembrava l'inizio di un attacco isterico (anche se, considerando che la fotografia all'epoca richiedeva ai soggetti di restare in posa molto a lungo, la paziente aveva probabilmente messo in scena se stessa seguendo le istruzioni di Charcot), la donna si inginocchia su un letto del reparto, tra le lenzuola spiegazzate, i suoi occhi rovesciati nelle orbite, un sorriso di beatitudine sul viso. In un secondo momento Charcot l'avrebbe paragonata alla Santa Teresa del Bernini: una caricatura laica, dovuta alla follia di quell'esperienza spirituale un tempo tanto preziosa.
I neurologi contemporanei parlano di
kalopsia,
la sensazione che ogni cosa risplenda di una bellezza intensa, e sostengono sia
causata da lesioni alla corteccia parietale destra del cervello. Oppure
parlano di "fenomeni autoscopici", che producono il cosiddetto effetto
doppelgänger
o
out-of-body,
per cui durante una crisi la persona vede se stessa dall'esterno, come in uno
specchio — oggi si pensa che siano causati da un danno alla corteccia
parieto-occipitale o alla giunzione temporo-parietale. Oppure parlano della
cosiddetta "aura" dell'emicrania, che provoca stelle cadenti e vari disturbi
della visione. Molto di quanto un tempo faceva parte
dell'estasi degli amanti e dei mistici oggi viene ridotto a una questione di
circuiti cerebrali mancanti. Nell'
Idiota,
scritto nel 1869, e quindi all'inizio di questo cambiamento epocale nella
percezione,
Fedor Dostoevskij
, che soffriva di epilessia, descrisse l'armonia e la
felicità, l'intensità di suoni e colori e la fortissima sensazione di essere
vivo che segnava per il principe Myškin l'inizio di un attacco
epilettico. «Che significa il fatto che è una malattia?» chiede
Myškin. Perché, «se in quel momento, e cioè in quell'ultimo istante
cosciente che precedeva immediatamente l'attacco egli riusciva a
dirsi, in piena e lucida coscienza: "Sì per un istante come questo si
può dare tutta la vita!", ebbene certamente quell'istante doveva
valere di per sé tutta una vita».
Si veda anche alle voci: AMORE; EUFORIA; ILINX. | << | < | > | >> |Pagina 133=== FURORE ================================================Un accesso di furore è un momento selvaggio e contorto. Gli occhi escono dalle orbite, le braccia e le gambe si agitano senza posa. Possiamo sputare, possiamo gridare. Non possiamo nascondere quello che proviamo, non nel modo in cui teniamo segreta la gelosia o coviamo il risentimento. Il furore è qualcosa che manda il sangue alla testa. Fa perdere il controllo. Si manifesta con uno scoppio irruento. Ci può essere una buona ragione dietro la RABBIA, e ci può essere un moto di onestà nell'INDIGNAZIONE, ma la frenesia del furore è pienamente irrazionale. Negli ultimi vent'anni abbiamo assistito a un moltiplicarsi di tipi di furore, e ognuno ha meritato il suo specifico nome: ci sono gli scontri violenti lungo strade e autostrade (la cosiddetta ROAD RAGE, il "furore stradale"), e ci sono gli scatti d'ira a bordo di un aeroplano (allora si parla di air rage, "furore aereo"). Scoppiano liti tremende nelle corsie dei supermercati (trolley rage, "furore da carrello"), negli uffici (mouse rage, "furore da mouse", si veda alla voce TECNOSTRESS), e persino quando dobbiamo aprire delle scatole di surgelati (wrap rage, "furore da imballaggio"). Alcuni di questi fenomeni possono avere soprannomi scherzosi (si veda alla voce: GOING POSTAL), ma il fatto che ci siamo dati la pena di identificare tutti questi furori distinti sembra implicare che il nostro rapporto con la nostra furia scatenata (o con il suo potenziale) non sia proprio una faccenda di poco conto. Dopo tutto, non facciamo uno sforzo simile quando si tratta di delineare diversi tipi di NOSTALGIA DI CASA, o di dubbio. La nostra capacità di perdere le staffe è una cosa che ci affascina e terrorizza allo stesso tempo. Forse sono lo stress e le frustrazioni della vita moderna che stanno portando all'aumento della ferocia generale: più fonti di rabbia esistono, più tipi di furore possiamo distinguere. Però, almeno in parte, questo desiderio di analizzare ed etichettare la furia si deve al fatto che in Inghilterra e negli Stati Uniti sta diventando un'emozione sempre meno ammissibile. Gli psicologi americani sono arrivati a stabilire una nuova diagnosi-ombrello: parlano di "disturbo esplosivo intermittente". Per ricevere simile diagnosi bastano tre episodi dí aggressività impulsiva, ognuno "palesemente sproporzionato" rispetto alla persona o alla cosa che ha generato l'irritazione; e perché uno scoppio di rabbia venga considerato "esplosivo" si deve trattare di un'improvvisa e completa perdita del controllo, che comprende l'aver rotto qualcosa "con un valore superiore a qualche dollaro", oppure l'aver fatto del male a qualcuno (o averci anche solo provato). Stando a questi calcoli, i disturbi esplosivi a intermittenza potrebbero essere molto più comuni della stima effettuata. E la cura? Gli scoppi di furia vengono fatti risalire a un basso livello di serotonina, perciò si consiglia di smorzare la rabbia con l'assunzione di antidepressivi. Come sarebbe, però, una società del tutto priva di furore? L'idea faceva paura ad Hannah Arendt , la saggista celebre per aver coniato l'espressione «la banalità del male». Nel suo saggio Sulla violenza, Arendt sosteneva che «soltanto dove c'è ragione di sospettare che le condizioni potrebbero cambiare e non cambiano scatta la rabbia. Soltanto quando il nostro senso della giustizia è offeso reagiamo con rabbia». Più che la focosa oratoria a volte provocata dall'indignazione, era l'intensità libidica della furia, secondo Arendt, la reazione naturale all'ingiustizia. Tentare di "curare" una persona da questa emozione vorrebbe quasi dire privarla dell'umanità. Ai singoli individui toglierebbe la sfida e la ribellione, alla società toglierebbe la possibilità di cambiare.
Può sembrare ridicolo perdere la brocca perché vostro figlio
adolescente non ha riordinato la sua camera, o perché il vostro
compagno ha detto quella cosa di nuovo, o perché avete aspettato
tutto il giorno un fattorino che non è mai arrivato. Possono tutte
sembrare ingiustizie, quando si verificano (anche se probabilmente
non era a quel genere di problemi che pensava Hannah Arendt),
ma anche se certi scoppi di furore sono meschini e banali, e quasi
sempre noi ce ne pentiamo a distanza di tempo, sono comunque
una parte importante della nostra umanità e del nostro stare nel
mondo. Se non possiamo andare in bestia per colpa di un mouse,
o di un carrello del supermercato, o di una busta per imballaggi,
almeno una volta ogni tanto, non possiamo nemmeno avere le rivoluzioni e le
rivolte.
Si veda anche alla voce: ESASPERAZIONE. | << | < | > | >> |Pagina 197=== MUDITA ================================================Guardare un'altra persona che sorride non è sempre una cosa semplice. Magari stiamo facendo il giro della sua nuova bellissima casa, o stiamo ascoltando il racconto dello splendido pomeriggio passato con i nipotini allo zoo, e sentiamo che il nostro cuore batte di gioia insieme al loro. Ma dietro le nostre frasi gentili potrebbe esserci anche una punta d'invidia, qualcosa di arido e avvizzito. A volte, come diceva Gore Vidal , «non basta avere successo: bisogna che i nostri conoscenti falliscano».
Per Siddhārtha Gautama, meglio noto come il
Buddha
, che visse tra il V e il IV secolo a.C., la gioia non era una risorsa limitata
su cui litigare o a cui avevano diritto soltanto pochi fortunati. La gioia
era infinita, illimitata. Per Siddhārtha la parola
mudita
esprimeva la piena esperienza di una GIOIA (e non di INVIDIA o RISENTIMENTO)
che si provava nel venire a sapere le cose belle accadute a qualcun
altro. Secondo lui, il puro fatto di poter provare mudita in prima
battuta era la prova che la felicità degli altri non diminuisce la vostra: la
aumenta.
Si veda anche alle voci: COMPERSIONE; CONTENTEZZA; EMPATIA. Oppure, al contrario, si veda alla voce: SCHADENFREUDE. | << | < | > | >> |Pagina 293=== TECNOSTRESS ===========================================Il filosofo greco Aristotele faceva notare che abbiamo maggiori probabilità di essere travolti dalla rabbia quando siamo stati offesi da qualcuno che consideriamo inferiore a noi. Lui si spingeva anche oltre, in effetti, sostenendo che se siete stati insultati da qualcuno che occupa un posto più basso del vostro nella gerarchia sociale, allora avete il pieno diritto di mettervi a gridare, a bestemmiare, e persino a picchiare il colpevole: è l'unica reazione naturale a certe cose. Oggi è molto meno probabile intendere la rabbia come una questione regolata da una rigida gerarchia, però forse dovremmo. Potrebbe essere proprio quello il motivo per cui i computer e gli altri dispositivi scatenano in noi furori di un'intensità quasi omicida. I nostri cocciuti schiavi elettronici dovrebbero renderci la vita più semplice. Ma spesso è come se fossero loro i padroni, e noi siamo obbligati ad affrontare lunghe negoziazioni, a piegarci ai loro capricci, a leggere i manuali di istruzioni...
Aristotele sarebbe stato furioso.
Per altri esempi di macchine emotive, si veda alla voce: AUTO-COMMISERAZIONE.
Si veda anche alle voci: ANSIA DA SQUILLO; FURORE; MALCONTENTO.
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