Copertina
Autore Nick Hornby
Titolo Una vita da lettore
EdizioneGuanda, Parma, 2006, Biblioteca della fenice , pag. 288, cop.fle., dim. 14,4x22x2,4 cm , Isbn 978-88-8246-891-0
OriginaleThe Complete Polysyllabic Spree [2006]
TraduttoreMassimo Bocchiola
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe libri , critica letteraria
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Indice


Introduzione                                                 9

SETTEMBRE 2003                                              17
Faccio provvista a Hay-on-Wye; mi spazzolo le opere di
un autore in una settimana; nuovo thriller del cognato.

OTTOBRE 2003                                                25
Sgrammaticature calcistiche; John McEnroe come Holdenec
Caulfield; lo standard-Dickens per la lunghezza adeguata
di una biografia letteraria.

NOVEMBRE 2003                                               33
Il campionato di calcio mi fa segnare il passo;
la connection Larry David-Richard Yates; pubblicità
che rovinano l'intreccio; falsofilia letteraria.

DICEMBRE 2003 & GENNAIO 2004                                41
Rescissione e rimborso di una segnalazione precedente;
l'impossibilita di leggere un romanzo vittoriano a Los
Angeles; una dieta narrativa bilanciata.

Un brano da George e Sam                                    48
Pur raccontando con franchezza la difficoltà di crescere
due bambini autistici, Charlotte Moore è riuscita a
scrivere il libro più spiritoso dell'anno.

[...]


 

 

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Pagina 9

Introduzione


Ho cominciato a tenere questa rubrica nell'estate del 2003. Avevo appena fatto l'esperienza di lettura descritta all'inizio del libro e mi sembrava che quanto avevo scelto di leggere in quelle poche settimane contenesse nell'insieme una specie di filo narrativo, cioè che un libro portasse all'altro facendo emergere temi e motivi che sarebbe valsa la pena di considerare. Inutile dire che quella è stata praticamente l'ultima volta che le mie letture hanno potuto vantare una qualsiasi logica o forma complessiva. Da allora la mia scelta è sempre stata fortuita, capricciosa e del tutto disorganica.

E tuttavia sembrava divertente scrivere sulla lettura, invece che sui singoli libri. All'inizio della mia carriera di scrittore ho recensito molta narrativa, ma dovevo fingere, come è prerogativa dei recensori, di avere letto i libri fuori dal tempo, dallo spazio e dal mio carattere: in altre parole, dovevo fingere di non averli letti mentre ero stanco e nervoso, o bevuto; di non invidiare gli autori, di non avere una mia agenda di impegni, né gusti estetici o problemi personali; di non aver già letto altre recensioni della stessa opera, di ignorare chi fossero gli amici e i nemici dell'autore, di non avere in corso trattative per piazzare un mio libro allo stesso editore, di non essere stato invitato a pranzo da un'addetta stampa dagli occhi di cerbiatta. Soprattutto, dovevo fingere di non aver scritto la recensione perché mi servivano urgentemente duecento sterline. Essere pagato per leggere un libro e per poi scriverne crea una dinamica tale da compromettere il recensore secondo ogni modalità possibile, nessuna delle quali gli è di aiuto.

Perciò questa rubrica sarebbe stata diversa. Sì, d'accordo, anche qui mi avrebbero pagato, ma per scrivere di qualcosa che avrei fatto comunque, cioè leggere libri che già volevo leggere. E qualora avessi sentito che l'umore, il morale, i livelli di concentrazione, il clima o le vicende familiari avrebbero influito sul mio rapporto con un libro, avrei potuto e dovuto ammetterlo. Tuttavia, manco a dirlo, la consapevolezza di dover scrivere qualcosa per il Believer alla fine di ogni mese ha profondamente mutato le mie abitudini di lettore. Tanto per cominciare, credo proprio di avere letto più libri di quanto avrei fatto altrimenti. Ho idea che prima mi concedevo intervalli più lunghi fra un libro e l'altro, diciamo un paio di giorni, durante i quali mi portavo appresso una copia del New Yorker o di Mojo, mentre ora mi affretto a passare al libro successivo per paura di non avere materia sufficiente su cui scrivere (o di sembrare scarso, ignorante e indegno della vetrina concessami da una pubblicazione prestigiosa come il Believer). Vere vittime di questo nuovo corso sono state le riviste (anche se l' Economist si è salvato, forse per rimpiazzare i giornali che non sto leggendo).

E tuttavia è stata la natura specifica del Believer a dare uno scossone al mio modo di leggere, spero per sempre. La rivista (nata cinque mesi prima della mia rubrica) è una chiesa aperta, e scrittori di ogni genere (nonché artisti, registi e altri tipi creativi) sono liberi di salire sul pulpito e fare la loro predica, ma rispettando un comandamento: NON STRONCARE. Per come l'ho capita io, i fondatori dell'impresa volevano un posto, un angolino di mondo in cui gli scrittori potessero essere certi di non venire presi a sberle: e come – ahinoi – prevedibile, tale ambizione è stata sbeffeggiata senza pietà, soprattutto da quei critici i cui figli patirebbero la fame se i loro genitori non coprissero di ingiurie gli autori di quei libri che non gli sono piaciuti molto.

Ho compreso e condiviso la posizione della rivista, che mi è sembrata ammirevole e ineccepibile, fino a quando non mi è toccato scrivere di libri che non mi erano piaciuti molto. Le prime due volte ci sono state serie discussioni con i direttori del giornale, convinti che avessi superato il limite e che dovessi riscrivere i passaggi offensivi in un tono più conciliante o nascondere i libri e gli scrittori offensivi sotto l'anonimato. A me non importava un fico secco della cosa, che anzi mi dava modo di prendere spietatamente in giro le ambizioni del Believer (per la cronaca: i Polysyllabic Spree non esistono. Ho come referenti Vendela Vida e Andrew Leland, rispettivamente direttore e direttore esecutivo, ai quali non manca il senso dell'umorismo e non sono evangelici. Credo addirittura che guardino la televisione).

Peraltro, il codice etico del Believer mi ha fatto pensare a cosa leggo e perché leggo. Non volevo continuare a riscrivere le pagine offensive della mia rubrica, né tantomeno servirmi di formule come «scrittore innominabile» o «romanzo anonimo». Che fare, allora? La mia soluzione è stata tentare di scegliere libri che prevedevo di mio gradimento. Non sono sicuro che l'idea sia paurosamente ovvia come sembra. Spesso leggiamo libri che pensiamo di dover leggere o che avremmo già dovuto aver letto, o che altri ritengono che noi dovremmo leggere (incontro a ogni piè sospinto persone che hanno un loro elenco mentale, e a volte anche materiale, dei libri che pensano di dovere aver letto quando compiranno quarant'anni o cinquanta, o quando moriranno); sono sicuro di non essere l'unico che procede lungo le pagine di un romanzo baciato dagli elogi generali fra raschi di gola e alzate di sopracciglia: sgomento, ma in realtà piuttosto compiaciuto, che tanta gente abbia preso fischi per fiaschi. Di conseguenza, il primo alimento a venire tagliato dalla mia dieta di lettore è stato la narrativa contemporanea «alta». Che a me sembra la categoria più a rischio – almeno per me, dati i miei gusti.

Non nutro un particolare interesse per il linguaggio. Meglio, nutro interesse per quello che del linguaggio può servirmi, e ogni giorno trascorro ore cercando di far sì che la mia prosa sia la più semplice possibile. Ma non ambisco a creare una prosa che attiri più attenzione su di sé che sul mondo che descrive, né certamente ho la pazienza di leggerla (e temo di non essere il solo: tendenzialmente questo genere di scrittura è più ammirato dai critici che da chi compra i libri, se valgono come prova le liste dei best seller: i romanzi che hanno raggiunto un pubblico di massa nell'ultima decina di anni di solito richiedono ai loro lettori di guardare i personaggi attraverso una lastra di vetro relativamente trasparente). Non voglio asserire che i libri che mi piacciono siano «meglio» dei romanzi scritti in modo più opaco: sto solo mettendo in chiaro i miei gusti e i miei limiti come lettore. In parole povere: a leggere certi libri mi annoio, e quando mi annoio tendo a diventare irritabile. Eliminare la noia dalla mia vita di lettore si è dimostrato sorprendentemente facile.

E la noia, ammettiamolo, è un problema che molti di noi hanno finito per associare ai libri. Anche per questo preferiamo alla lettura quasi qualsiasi altra cosa; pochissimi di noi prendono in mano un libro dopo aver messo a letto i bambini, cenato e lavato i piatti. È più probabile che ripieghiamo sulla televisione. Certe sere preferiremmo fare lo sforzo di salire in macchina e andare al cinema o aspettare un autobus che ci porti nelle vicinanze. In parte perché leggere ci sembra più impegnativo che guardare la tele, e di solito è così, per quanto se si decide di guardare una serie HBO, come I Soprano o The Wire, sia una bella lotta, perché in questi telefilm l'intreccio, il ritmo e la complessità del dialogo necessitano di attenzione come molta della migliore narrativa.

Mi sembra che uno dei problemi sia l'aver stabilito che i libri debbano costare fatica, altrimenti non ci servono a nulla. Recentemente ho parlato con due amici, entrambi impegnati nella lettura di una lunghissima biografia politica comparsa in molte classifiche dei libri del 2005. Ma stavano annaspando. Entrambi gli amici hanno dei figli, tre ciascuno, guarda caso, e svolgono stressanti professioni a tempo pieno. Così ogni sera, nei pochi minuti concessi alla lettura prima del sonno, si avventavano coraggiosi su alcuni paragrafi dei prim(issim)i anni di un grande personaggio del XX secolo. Procedendo di questo passo avrebbero impiegato molti, molti mesi prima di finire la biografia, forse anche decenni (uno dei due mi ha detto di averla piantata lì per un paio di settimane, e quando l'aveva ripresa si era accorto con entusiasmo che il segnalibro era molto più avanti di quanto sperava. Poi aveva capito che uno dei suoi figli aveva fatto cadere il volume e rimesso il segnalibro al posto sbagliato. Disperazione). La verità, naturalmente, è che nessuno dei due finirà mai questo libro, almeno, non in questa fase della loro vita. Nel frattempo, però, avranno consolidato la convinzione che leggere un libro sia sinonimo di fatica improba.

Non sto cercando di dire che l'opera in sé fosse la causa di questo sconforto. Posso immaginare altre persone che se la sarebbero bevuta d'un fiato, come posso altresì immaginare che i miei due amici si sarebbero bevuti d'un fiato dei libri che altri avrebbero trovato altrettanto punitivi. Mi sembra chiaro, però, che la combinazione tra opera e lettori in questo momento della loro vita non sia felice. Se si desidera che la lettura sopravviva come attività di svago, e alcune statistiche dimostrano come la cosa non sia affatto scontata, allora dobbiamo fare pubblicità alle gioie che ci regala, più che ai suoi (dubbi) benefici. Non vorrei mai dover dissuadere qualcuno dalla lettura di un libro. Ma vi prego, se state leggendo un libro che vi sfinisce, lasciate perdere e leggete qualcos'altro, come quando mettete mano al telecomando se non vi piace un programma televisivo. La vostra incapacità di godervi un romanzo reputatissimo non significa che siate ottusi; anzi, potreste scoprire di preferire Graham Greene, o Stephen Hawking , o Iris Murdoch, o Ian Rankin, o Charles Dickens , o Stephen King , fate voi. Non importa. So soltanto che ricaverete ben poco da un libro che vi fa piangere per la pena di leggerlo. Non ve lo ricorderete e non imparerete niente; e, la prossima volta, con ogni probabilità sceglierete di guardare il Grande Fratello invece di leggere un libro.

«Se leggere è un esercizio per la mente, la Gran Bretagna deve ribollire di energia intellettuale» ha sentenziato sarcastico un rubricista del Guardian. «Le stazioni dei treni hanno librerie zeppe di parole sufficienti a tenere impegnato per settimane anche il più muscoloso dei cervelli. In effetti, le carrozze traboccano di gente che esercita l'intelletto per tutta la durata del viaggio. Eppure, chissà perché, il fatto che milioni di individui divorino ogni giorno migliaia di parole da Hello, il Sun, Il codice da Vinci, Nuts e così via non ci infonde la speranza che il nostro cervello medio scoppi di salute. Non conta soltanto leggere, conta quello che leggete.» Questi discorsi, intrisi di un sussiego ahimè molto comune nei nostri giornali «di qualità», devono fare perdere le staffe a bibliotecari scolastici, editori e operatori delle campagne di alfabetizzazione. In Gran Bretagna, oltre dodici milioni di adulti hanno gusti letterari pari a quelli di un ragazzino di tredici anni, anche meno, eppure qualche giornalista fichetto insiste a volerci spiegare che se non si legge qualcosa di importante, tanto vale non farlo del tutto.

Ma cosa è importante? E di chi sono i libri che ci renderanno più intelligenti? Di certo non miei. Ma la merce giusta chi ce l'ha? Ian McEwan? Julian Barnes? Jane Austen, Zadie Smith, E.M. Forster? Hardy? Dickens? I lettori di Dickens passati alla storia perché aspettavano notizie della Piccola Nell sul lungomare di New York, speravano forse di venire eruditi? Naturalmente Dickens è «alta letteratura», in quanto i suoi libri sono stati scritti tanti anni fa. Ma la sua opera non è sopravvissuta perché ci fa pensare, ma perché ci emoziona e ci fa ridere, e uno non sta nella pelle dalla voglia di sapere cosa ne sarà dei suoi personaggi. Ho qui sulla scrivania un romanzo di James Lee Burke, un thriller della serie di Dave Robicheaux, che presenta in copertina commenti sperticati della Literary Review of Books, del Guardian e dell' Independent on Sunday: quindi è possibile che qualche critico di un quotidiano di qualità lo approvi... È automatico che mi si riveli utile a esercitare la materia grigia? Quanto accresce le proprie competenze un fisico nucleare che legge un libro sulla fisica nucleare? Si diventa più cervelloni leggendo Uomini e topi, la bellissima e semplicissima novella di Steinbeck? O lo splendido Un vero bugiardo di Tobias Wolff, o Jim il fortunato, o Il buio oltre la siepe? Nella creazione di tutti questi libri è confluita un'intelligenza enorme, così come in quella dell'iPod: ma l'intelligenza non è trasferibile. Se c'è, è lì per uno scopo.

E però non si sgarra. Sembra un comandamento scolpito nella pietra: o i libri costano fatica, o sono una perdita di tempo. E così ci sfianchiamo impantanandoci in romanzi seriosi, e a volte seriamente tediosi, o in enormi biografie di politici; alla fin fine i libri sembrano poco più che un dovere, e Pop Idol comincia a esercitare sempre piu fascino. Mollateli, ve ne prego.

E, vi prego, piantatela di snobbare quelli che stanno leggendo un libro — Il codice da Vinci, per esempio — perché gli piace. Prima di tutto, nessuno di noi sa quanta fatica rappresenti per quel particolare lettore. Potrebbe essere il suo primo romanzo di lunghezza canonica che legge da adulto; potrebbe essere il testo che finalmente svela lo scopo e la gioia della lettura a qualcuno che fino a quel momento era rimasto perplesso nel vedere l'attrattiva che esercitano i libri sugli altri. E comunque, leggere per diletto è una cosa che dovremmo fare tutti. Non intendo che tutti dovremmo leggere romanzi rosa o thriller (però se è questo che volete leggere, per me va benissimo, perché... Ascoltate, vi confesserò una cosa che nessuno vi dirà mai: se non leggete i classici o il romanzo che ha vinto l'ultimo Booker Prize, non vi succederà niente di male; e soprattutto, se li leggete non vi succederà niente di straordinario); voglio dire soltanto che voltare le pagine non dovrebbe essere come arrancare in un denso pantano. Lo scopo primario dei libri è che noi li leggiamo: e se scoprite di non farcela, può darsi che la colpa non sia della vostra inadeguatezza. A volte i « buoni » libri sono un incubo.

Il brutto della guerra culturale che, dopo tanti anni, sembra ancora in corso, è che divide i libri in due campi: quelli «spazzatura» e quelli che vale la pena di leggere. Tra chi si guadagna da vivere parlando di libri, nessuno sembra capace di veicolare il messaggio che non funziona così; che i libri «buoni» possono essere altrettanto gustosi di quelli «spazzatura». E allora perché darsene cura, se poi non fa nessuna differenza? Perché così abbiamo maggiore scelta. Perché non siete obbligati a leggere storie di complotti o romantiche tribolazioni di donne trentenni per godere di un piacevole intrattenimento. Potreste scoprirvi ammaliati da Stalingrado di Antony Beevor, o da Dio di illusioni di Donna Tartt, o da Grandi speranze di Dickens. Leggete di tutto, purché non vediate l'ora di riprendere in mano il vostro libro.

Io leggo per un sacco di motivi. Generalmente tendo a frequentare lettori e ho paura che, se smettessi di leggere, loro non vorrebbero più frequentare me (sono gente interessante e sanno un sacco di cose interessanti, ne sentirei la mancanza). Sono anche uno scrittore e ho bisogno di leggere per ispirarmi e per istruirmi e perché voglio migliorare, e solo i libri possono insegnarmi come. A volte, certo, leggo per scoprire delle cose: a mano a mano che invecchio, sento sempre di più il peso della mia ignoranza. Voglio sapere com'è essere questa o quella persona, vivere in un posto o in un altro. Amo quei dettagli sui meccanismi del cuore e della mente umana che solo la narrativa ci può illustrare, i film non si avvicinano abbastanza. Ma credo che il motivo più importante sia questo. Quando avevo nove anni, trascorsi alcuni mesi infelici nel coro di una chiesa (idea non mia, di mia madre). E due o tre volte alla settimana dovevo starmene li seduto ad ascoltare il sermone del vicario, un vecchio trombone insopportabile. Mi sembrava che non finisse mai e a volte temevo che mi avrebbe ammazzato, che sarei letteralmente morto di noia. L'unica divagazione disponibile era il libro degli inni, e a volte finivo per leggerlo. In precedenza non avevo mai trovato davvero necessari né i libri né i fumetti; anche se mi era sempre piaciuto leggere, non avevo mai capito che fosse così indispensabile per la mia salute mentale. Da allora non sono mai, dico mai, andato in nessun posto senza un libro o una rivista. Eppure mi è servito tutto questo tempo per capire che la lettura non deve essere per forza noiosa, checché ne dicano i recensori e i commentatori di cultura; e per insegnarmelo ci sono voluti proprio i Polysyllabic Spree.

Per favore, vi prego: mollatelo lì. Non lo finirete mai. Iniziatene un altro.

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Settembre 2003


LIBRI ACQUISTATI:                       LIBRI LETTI:

• Ian Hamilton, Robert Lowell:          • tutto Salinger
  a Biography                           • In cerca di Salinger e Lowell
• Robert Lowell, Collected Poems          (biografia)
• Ian Hamilton, Against Oblivion:       • Against Oblivion (in parte)
  Some of the Lives of the 20th         • Robert Harris, Pompei
  Century Poets                           (non acquistato)
• Ian Hamilton, In cerca di Salinger
• J.D. Salinger, Nove racconti
• J.D. Salinger, Franny e Zooey
• J.D. Salinger, Alzate l'architrave,
  carpentieri e Seymour. Introduzione
• Michael Heyward, The Ern Malley
  Affair
• Joseph Heller, È successo qualcosa
• Corso/Ferlinghetti/Ginsberg,
  Penguin Modern Poets 5



Bene: qui si dovrebbe parlare del cosa come quando e perché della lettura, delle modalità grazie alle quali, quando la lettura fila come si deve, un libro ci porta a un altro libro e a un altro ancora, in un percorso cartaceo di temi e significati; e quando non fila, quando i libri non ci catturano o ci scivolano addosso e il nostro umore e l'umore del libro bisticciano come cani e gatti, qualunque cosa ci sembra meglio che affrontare il prossimo brano o rileggere l'ultimo per la decima volta. «Parlavamo di libri» dice un personaggio dello splendido Feast of Love di Charles Baxter, «della noia mortale di leggerli, e di quanto li amassimo malgrado ciò.» Chiunque non si sia sentito così, nega la verità.

Ma anzitutto, qualche regola:

1) Fate a meno di scrivermi che spendo troppi soldi per libri che in gran parte non leggerò mai. Questo lo so già. Perché comunque ho intenzione di leggerli... più o meno. Le mie intenzioni sono buone. In ogni caso, i soldi sono miei. E poi scommetto che fate anche voi come me.

2) Analogamente, nessuno dovrà eccepire che alcuni libri di cui parlerò sono libri di amici o, nel caso di Pompei, di cognati. Molti miei amici sono scrittori, ed è inevitabile che dedichi ai loro libri parte del tempo che trascorro a leggere. Non tenterò di celare i legami, se questo può consolare qualcuno. In ogni caso erano cinque anni che non usciva un libro di mio cognato, l'autore di Fatherland e di Enigma: quindi è molto probabile che prima che ne pubblichi un altro il Believer mi avrà licenziato (anzi, potrei benissimo essere già stato licenziato prima che esca questo).

3) E non sprecate il fiato per dirmi che sto facendo la ruota. Sì, forse questo mese, un po', la sto facendo (ma sarà vero? Parte di questi libri non avrei dovuto leggerli decine d'anni fa? Franny e Zooey? Cristo. Forse è il contrario, quello che sto facendo: forse mi sto mettendo alla berlina. E forse voi avete letto tutti questi, più tanti altri, negli ultimi quindici giorni. Perché io non vi conosco. Qual è - come dire - la dose normale, per un individuo con lavoro e figli, e che guarda la televisione?). Ma il mese prossimo potrei trovarmi a riempire la rubrica di mia competenza per spiegare come mai in quattro settimane sono riuscito a totalizzare solo tre pagine di un graphic novel e le notizie sportive del Daily Mirror - nel qual caso vi prego di non accusarmi di filisteismo, pigrizia o crassa ignoranza. Questo mese ho letto parecchio: (a) perché è estate e ha fatto molto caldo, e non ho lavorato granché, e non c'è calcio alla tivù, e (b) perché mio figlio maggiore, per motivi su cui non mi dilungherò inutilmente, ha passato ancor più tempo del solito chiuso in bagno: e io dovevo aspettare fuori, seduto su una sedia. È così che si leggono i libri.

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Pagina 146

Per un attimo, mentre mettevo via Chronicles e prendevo in mano Il complotto contro l'America (entrambi usciti al massimo da due settimane), mi sono sentito una specie di lettore mitico che veleggiava con zelo attraverso la lista delle cose «nuove e degne di nota». Ero informato su quello che è au courant quasi abbastanza per organizzare una di quelle cene che sono il bersaglio prediletto del dileggio dei critici dei giornali inglesi. La stampa le definisce immancabilmente «le cene di Islington» perché è appunto a Islington che dovrebbe risiedere l'«intellighenzia liberal», alias «radical chic» o «da salotto», dove si parla dell'ultimo Roth e si mangia focaccia, che a quanto sembra i «radical da salotto» apprezzano molto, moltissimo. Be', io abito a Islington (ovviamente non è richiesto il superamento di alcun esame di ammissione), e non ho mai partecipato a cene del genere: quindi avrebbe potuto essere il momento giusto per varare un salotto. Per comprare un po di focacce e dire agli ospiti mentre si tolgono il cappotto: «Avete visto l'ultimo Roth?» Al che quelli mi avrebbero risposto qualcosa come «Che cazzo è?» se fossero stati i miei amici o viceversa: «Sì... non è straordinario?» se fossero state persone che non conoscevo. In ogni caso ormai è troppo tardi. Quei libri sono usciti da una vita. È troppo tardi per la cena, e anche per fare colpo sui lettori di questa rubrica. Ci hanno pensato gli Spree con le loro foto. Era la mia unica occasione per fare un po' la ruota e me l'hanno rovinata. Questi rovinano tutto.

Quello che mi rode ancora di più è che avevo un paio di cose da dire sul Complotto contro l'America, il che non capita quasi mai... Le parole più sincere e più sagge che ho mai letto sulle recensioni le ha scritte Sarah Vowell nel suo libro Take the cannoli. Quando un giornale le chiede di recensire un disco di Tom Waits, la Vowell conclude che «le ballate mi piacciono molto», e lo scrive; dopo di che tutto quello che le occorre sono altre ottocento parole circa per asseverare questa folgorante intuizione. Sostanzialmente è quello che provo anch'io verso un sacco di cose che leggo e sento dire, quindi rendermi conto di avere delle considerazioni in mente sul romanzo di Roth è stato uno shock. A questo punto avrete sentito le stesse idee già un milione di volte, ma insomma: a me non vengono così spesso da lasciarle svanire senza traccia.

[...]

Mi rendo conto ora che quasi tutto quello che ho letto era relativamente nuovo: l'avvincente e coraggiosa satira di Tom Perrotta Bravi bambini, l'adorabile Padre Joe di Tony Hendra, che nel momento in cui scrivo non è ancora stato pubblicato in Gran Bretagna... Soldati di Salamina è, che io sappia, il primo romanzo che ho letto in traduzione da quando tengo questa rubrica. È un'ignominia? Suppongo di sì, ma anche in questo caso... non lo sento. Quando uno è ignorante come me, il fatto che abitualmente non si occupi della letteratura di tutto il mondo non anglofono sembra un peccato veniale.

Nel nuovo libro di epigrammi del poeta scozzese Don Paterson The Book of Shadows – intelligente, spassoso, irresistibile: una vera droga – l'autore scrive che «quasi tutti i traduttori di poesia... non capiscono che per una poesia l'incarnarsi nella sua lingua è tutto, così come per un dipinto lo è l'incarnarsi nel colore». Non credo che si possa dire altrettanto di un romanzo, ma resta la sensazione che qualcosa vada perso. Soldati di Salamina è commovente, insegna molte cose e merita di essere letto ed è ben tradotto e bla-bla-bla... e praticamente a ogni pagina avevo la sensazione di ascoltare una radio non sintonizzata a dovere. Non è necessario inviare lettere per esprimere disgusto e delusione. Sono abbastanza deluso di me stesso.

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Aprile 2005


LIBRI ACQUISTATI:                       LIBRI LETTI:

• Ian McEwan, Sabato                    • Ian McEwan, Sabato
• Michael Frayn, Towards the            • Michael Frayn, Towards the
  End of the Morning                      End of the Morning
• The 9/11 Commission Report            • Kate Atkinson, Case Histories
• Amanda Eyre Ward, How To Be           • John Harris, So Now Who Do
  Lost                                    We Vote For?
• Claire Tomalin, Katherine             • Nick Flynn, Un'altra notte di
  Mansfield: A Secret Life                cazzate in questo schifo di
                                          città



Qualche anno fa stavo facendomi rasare la testa in una bottega di barbiere quando l'uomo che mi stava rasando si voltò verso la ragazza al suo fianco e le disse: «Lo sai che questo signore è famoso?»

Sussultai. Sapevo che non sarebbe finita bene. Qualsiasi fama uno possa raggiungere come scrittore, non è quella che la maggior parte della gente considera la vera fama, e neanche una falsa fama. Non tanto perché nessuno ti riconosce per strada; è che in genere non hanno mai nemmeno sentito parlare di te. È una specie di fama anonima.

La ragazza mi guardò e fece spallucce.

«Proprio così» continuò il barbiere. «È un famoso scrittore.»

«Be', io non ho mai sentito parlare di lui» disse la ragazza.

«Non ti ho nemmeno detto come si chiama...» osservò il barbiere.

La ragazza rifece spallucce.

«Fatto sta...» disse il barbiere. «Secondo me tu non hai mai sentito parlare di nessuno scrittore, è vero o no?»

La ragazza arrossì. Io mi sentivo morire. E poi, quanto ci vuole per rasare una testa?

«Nominane uno. Uno scrittore di qualunque epoca.»

Non intercedetti a favore della sventurata perché non mi sembrava una domanda troppo difficile, e credevo che ce l'avrebbe fatta. Sbagliavo. Ci fu un lungo silenzio e alla fine rispose: «Ednit».

«Ednit?» ripeté il suo capo. «Ednit? E chi cazzo è Ednit?»

«Be', non si chiama mica così?»

«Chi?»

«La Ednit.»

Dopo altri due o tre minuti di tortura, finalmente scoprimmo che «Ednit» era Enid Blyton, popolarissima scrittrice per bambini degli anni Quaranta e Cinquanta. In altre parole, la ragazza non era stata in grado di nominare neanche uno scrittore della storia mondiale — né Shakespeare né Dickens, e nemmeno Michel Houellebecq. E non è l'unica. Da una ricerca effettuata nel 2000 da WHSmith è risultato che il 43% degli adulti interpellati non era in grado di dire il titolo del libro preferito, e il 45% non ha saputo nominare lo scrittore preferito (potrebbe anche dipendere dal fatto che gli interpellati non sapevano decidersi fra Roth e Bellow, ma immaginiamo che il motivo sia un altro). Il 40% dei britannici e il 43% degli americani non ha mai letto un libro di nessun genere. Negli ultimi vent'anni la percentuale di americani in un'età compresa fra i 18 e i 34 anni che leggono letteratura (ove per letteratura s'intendano poesia, teatro o narrativa) è diminuita del 28%. Tra parentesi un tempo la fascia 18-34 era quella con le più alte probabilità di leggere un romanzo: ora è diventata quella con le più basse.

Frattanto, il mondo dei libri sembra diventare vieppiù libresco. Il nuovo romanzo di Anita Brookner parla di un romanziere. David Lodge e Colm Toibin hanno scritto romanzi su Henry James. Nella Linea della bellezza Alan Hollinghurst parla di un personaggio che scrive una tesi su Henry James. E in Sabato di Ian McEwan, il suocero e la figlia del protagonista sono sia poeti pubblicati di livello sia ex vincitori dell'Oxford University's Newdigate Prize per studenti poeti. E anche se nessuno dovrebbe dire mai a uno scrittore su cosa scrivere... no, questa lasciamola perdere. Forse qualcuno lo dovrebbe fare. Ho già richiesto in queste pagine delle percentuali — sarei stato perfetto in qualche commissione culturale del Politburo — e le dovrò chiedere di nuovo. Tanto, nessuno mi ascolta. Decidetevi, gente! Non potete scrivere tutti letteratura sulla letteratura! Un libro all'anno, forse, sul totale: ma tutti i titoli citati sono usciti negli ultimi sei mesi.

Ci sono, credo, due motivi per sentirsi un tantino nauseati da questa tendenza. Il primo, molto semplice, è che taglia fuori i lettori: la ragazza dal barbiere non è l'unica a non aver voglia di leggere storie sul Newdigate Prize. E... d'accordo, forse la grande arte non dovrebbe aver paura di essere elitaria, ma c'è una quantità di grande arte che elitaria non è, e io non voglio che le persone intelligenti sprovviste di laurea in lettere si allontanino dal romanzo contemporaneo; voglio che credano che c'è uno scopo in tutto ciò, che la narrativa ha una finalità visibile a chiunque sia in grado di leggere un libro destinato agli adulti. Presi nel loro insieme, questi romanzi sembrano alzare bandiera bianca... Ci arrendiamo! Non c'è speranza! Non sappiamo cosa vogliono gli esterni! Alziamo il ponte levatoio!

E il secondo motivo di apprensione è che trattare solo di personaggi colti ed eloquenti... be', non è un po' una truffa? Henry Perowne, il protagonista di McEwan, padre e genero dei poeti, fa il neurochirurgo, e sua moglie è la legale di una ditta; come molti borghesi di istruzione elevata hanno confidenza e familiarità con la lingua, una dote che permette loro di parlare della loro vita in modo estremamente lucido e chiaro (Perowne è un «osservatore abituale delle proprie maniere»), e si ha come la sensazione che con loro McEwan sia sprecato. Non hanno bisogno del suo aiuto. Quello che ho sempre amato nella narrativa è che può essere intelligente parlando di persone che di per sé non lo sono, o almeno non dispongono sempre delle risorse atte a descrivere i propri stati emotivi. Questa era l'abilità di Twain, e anche di Dickens; e questa è senza dubbio la ragione per cui Roddy Doyle è adorato da persone di ogni tipo, molte delle quali non frequentano le librerie. A me sembra una virtù più importante che far dire cose coltissime a persone altrettanto colte.

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Chiedo venia nel caso in cui la seguente lezione di politica inglese risultasse superflua, ma la terrò lo stesso: i nostri Democratici sono già al governo. Noi nel 1997 abbiamo votato bene, e da allora abbiamo sempre avuto un governo laburista, e nel momento in cui scrivo è certissimo che continueremo ad averlo per i prossimi cinque anni: nel 2005 si terranno le elezioni politiche e, garantito, Blair le vincerà. Ma come forse avrete già notato, l'unico problema è che il governo laburista si è rivelato un governo per niente laburista. E non solo perché Blair ha preso parte al bombardamento dell'Iraq, ma anche perché sta introducendo lo scopo di lucro nel nostro ex glorioso servizio sanitario nazionale (NHS), e sta permettendo ad alcune figure alquanto dubbie di fare investimenti nell'educazione dei nostri figli. Sir Peter Vardy, un venditore di automobili cristiano-evangelico, chiede che il creazionismo venga insegnato insieme alle teorie dell'evoluzione, e in cambio di due milioni di sterline per ciascuna nuova scuola gli è permesso di fare praticamente il bello e il cattivo tempo. Ha già sotto controllo un paio di scuole nel Nord dell'Inghilterra.

Per tutta la mia vita elettorale avevo aspettato un governo laburista, e il titolo di Harris rappresenta perfettamente il disappunto di alcune generazioni di individui convinti che alla caduta dei Conservatori il mondo si sarebbe rimesso in carreggiata. Purtroppo, Harris mi dice che dovrei continuare a fare quello che ho fatto: il deputato della mia circoscrizione (perché noi non eleggiamo i capi, ma solo i rappresentanti locali dei partiti) ha votato contro tutto quello contro cui io avrei voluto che votasse, quindi non sembra giusto punirlo per i delitti e i misfatti di Blair.

Avrei voluto sentirmi dire che i Liberaldemocratici, il nostro terzo partito, o i Verdi, o la vagamente svitata Respect Coalition sono alternative praticabili, ma non lo sono, quindi ce l'abbiamo in quel posto. So Now Who Do We Vote For? rimane però un libro utile e spassionato, e anche coraggioso: nessuno vuole scrivere un volume che si autodistruggerà nel corso dell'anno di pubblicazione, e non credo nemmeno che raccatterà molte vendite all'estero. Onore a te, John Harris.

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