Copertina
Autore Tony Judt
CoautoreTimothy Snyder
Titolo Novecento
SottotitoloIl secolo degli intellettuali e della politica
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2012, I Robinson Letture , pag. 414, cop.fle., dim. 13,8x21x3 cm , Isbn 978-88-420-8881-3
OriginaleThinking the Twentieth Century
EdizioneWilliam Heinemann, London, 2012
TraduttorePaola Marangon
LettoreRenato di Stefano, 2013
Classe storia contemporanea , politica , storia: Europa , storia: America , paesi: USA , shoah
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Indice


      Prefazione di Tirnothy Snyder                         VII


I.    Il nome rimane: ebreo scettico                          3

II.   Londra e la lingua: scrittore inglese                  47

III.  Socialismo di famiglia: marxista politico              76

IV.   King's College e kibbutz: sionista a Cambridge        105

V.    Parigi, California: intellettuale francese            137

VI.   Generazione della comprensione: liberale est-europeo  191

VII.  Unità e frammenti: storico europeo                    244

VIII. L'età della responsabilità: moralista americano       278

IX.   La banalità del bene: socialdemocratico               323


      Postfazione di Tony Judt                              381

      Bibliografia                                          391

      Indice analitico                                      401



 

 

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Pagina VII

PREFAZIONE


di Timothy Snyder



Questo libro è storia, biografia e trattato etico.

Θ una storia delle idee politiche moderne in Europa e negli Stati Uniti. Gli argomenti sono il potere e la giustizia, così come sono stati intesi dagli intellettuali liberali, socialisti, comunisti, nazionalisti e fascisti dalla fine del diciannovesimo secolo all'inizio del ventunesimo. Θ anche la biografia dello storico e saggista Tony Judt, nato a Londra alla metà del ventesimo secolo, subito dopo il cataclisma della seconda guerra mondiale e l'Olocausto, e proprio mentre i comunisti si impadronivano del potere in Europa orientale. Infine, è una riflessione sui limiti (e sulla capacità di rinnovamento) delle idee politiche, e sulle carenze (e sugli obblighi) morali degli intellettuali nella vita politica.

A mio parere, Tony Judt è l'unica persona in grado di scrivere una dissertazione così vasta sulla politica delle idee. Al 2008 era autore di testi profondi e polemici sulla storia francese, di saggi critici sugli intellettuali e sul loro impegno politico e di una magnifica storia dell'Europa dopo il 1945, intitolata Dopoguerra. Aveva lasciato che il suo talento per la moralizzazione e la storiografia trovasse sbocchi specifici in brevi articoli e in studi accademici più corposi, portando entrambe le forme di espressione molto vicino alla perfezione. Questo libro, tuttavia, è nato perché a un certo punto nel novembre di quell'anno compresi che Tony non sarebbe mai più stato in grado di scrivere, almeno non nel senso tradizionale. Gli proposi di lavorare insieme a un libro il giorno dopo quello in cui mi resi conto che non riusciva più a usare le mani. Tony era stato colpito dalla sclerosi laterale amiotrofica (SLA), una patologia degenerativa del sistema nervoso che provoca la paralisi progressiva e una morte certa e solitamente rapida.

[...]


Ciascun capitolo ha una componente biografica e una storica. Il libro percorre così la vita di Tony e attraversa alcuni momenti topici del pensiero politico del ventesimo secolo: l'Olocausto quale questione ebraica e tedesca; il sionismo e lei sue origini europee; l'eccezionalismo inglese e l'universalismo francese; il marxismo e le sue tentazioni; il fascismo e l'antifascismo; la riscoperta del liberalismo come etica in Europa orientale; la pianificazione sociale in Europa e negli Stati Uniti. Nelle parti storiche di ciascun capitolo gli interventi di Tony figurano in tondo e i miei in corsivo. Sebbene anche le componenti biografiche siano emerse dalla conversazione, in esse ho eclissato completamente la mia presenza. Ogni capitolo comincia dunque con una parte autobiografica, narrata in prima persona da Tony e riprodotta in tondo. A un certo punto compaio io con una domanda, in corsivo, e quindi si passa alla parte storica.

Se si è scelto di abbinare la biografia alla storia non è certo perché le riflessioni e le conclusioni di Tony si possano attingere con facilità dalla sua vita come tanti secchi d'acqua da un pozzo. Siamo tutti più simili a grandi grotte sotterranee, sconosciute persino a noi stessi, che a buche scavate dritte nel terreno. La preoccupazione di ribadire che la complessità non è altro che una maschera della semplicità fu una delle piaghe del ventesimo secolo. Chiedendo a Tony di parlare della sua vita non cercavo di soddisfare la sete di spiegazioni semplici, bensì battevo sulle pareti in cerca di passaggi tra camere sotterranee delle quali, all'inizio, percepivo l'esistenza soltanto vagamente.

Per esempio, non è che Tony abbia scritto la storia degli ebrei perché è ebreo. Non si è mai veramente occupato dell'argomento. Come molti studiosi di origini ebraiche della sua generazione, ha eluso l'evidente centralità dell'Olocausto per le sue stesse materie di studio, sebbene la conoscenza personale della sciagura abbia influenzato, in qualche misura, la direzione della sua ricerca. Analogamente, non è che Tony scriva degli inglesi perché è inglese. Salvo rare eccezioni, non ha mai scritto granché sulla Gran Bretagna. L'identità inglese, o meglio la sua particolare educazione inglese, gli ha trasmesso il gusto per la forma letteraria e un insieme di riferimenti che lo hanno sostenuto (per come vedo io la questione) nel fermento delle sue simpatie intellettuali e della politica della sua generazione: quella del 1968. Il grande interesse per la Francia era legato, più che alle origini, alla voglia di trovare (a mio parere) un'unica chiave di lettura dei problemi universali o almeno europei, una tradizione rivoluzionaria in grado di produrre verità quando abbracciata o respinta. Tony è un europeo dell'Est principalmente in ragione della sua frequentazione degli europei dell'Est. Ma sono state queste amicizie ad aprirgli un continente. Tony è americano per scelta e per cittadinanza, e sembra identificarsi con il paese come se fosse un vasto territorio in costante necessità di critica.

[...]


Gli intellettuali che contribuirono alle rivoluzioni del 1989 nell'Europa dell'Est, persone come Adam Michnik e Václav Havel, volevano vivere nella verità. Che cosa significa? Gran parte di questo libro, in quanto storia degli intellettuali e della politica, si occupa della differenza tra le grandi verità, le convinzioni sulle grandi cause e i fini ultimi che di tanto in tanto sembrano richiedere mendacità e sacrificio, e le piccole verità, i fatti che è possibile riscontrare. La grande verità può essere la certezza di una rivoluzione imminente, come per alcuni marxisti, o può essere il legittimo interesse nazionale, come per il governo francese durante l'affare Dreyfus o per l'amministrazione Bush durante la guerra in Iraq. Ma anche se optiamo per le piccole verità, come fecero Zola durante l'affare Dreyfus e Tony durante la guerra in Iraq, resta da chiarire in che cosa possa consistere esattamente la verità.

Una sfida per gli intellettuali del ventunesimo secolo potrebbe essere quella di sostenere la verità in quanto tale, ammettendo la molteplicità delle sue forme e dei suoi fondamenti. Le ragioni in favore della socialdemocrazia che Tony espone al termine del libro sono un esempio di ciò che intendo. Tony è nato subito dopo la catastrofe provocata dal nazionalsocialismo e ha vissuto la caduta in discredito del marxismo al rallentatore. La sua maturità è coincisa con vari tentativi di recuperare il liberalismo, nessuno dei quali ha ottenuto approvazione generale. Tra le macerie di un continente e dei suoi ideali, la socialdemocrazia è sopravvissuta come concetto ed è stata realizzata come progetto. Nel corso della vita di Tony è stata costruita, e poi a volte demolita. Le ragioni che porta a sostegno della sua ricostruzione si imperniano su diversi tipi di argomenti, che si richiamano a diverse intuizioni a proposito di verità di diversa natura. L'argomento più solido, per usare un motto caro a Isaiah Berlin , è che la socialdemocrazia rende possibile una vita dignitosa.

Alcune di queste verità di natura diversa saettano tra le pagine del libro, spesso appaiate. La verità dello storico, per esempio, non è la stessa verità del saggista. Lo storico può e deve conoscere molto di più, a proposito di un momento del passato, di quanto un saggista possa mai sapere di ciò che accade oggi. Il saggista, molto più dello storico, è obbligato a tenere conto dei pregiudizi dei suoi contemporanei, e quindi a esagerare per essere efficace. La verità dell'autenticità è diversa dalla verità dell'onestà. Essere autentici significa vivere come vorresti che gli altri vivessero; essere onesto significa ammettere che è impossibile. Allo stesso modo, la verità dell'indulgenza è diversa dalla verità della critica. Entrambe sono necessarie per trarre il meglio da noi stessi e dagli altri, ma non si possono praticare contemporaneamente. Non c'è modo di ridurre alcuna di queste verità appaiate a una sola verità soggiacente, tanto meno tutte a una forma definitiva di verità. La ricerca della verità comporta quindi diversi tipi di indagine. Questo è il pluralismo: non un sinonimo di relativismo, ma un suo antonimo. Il pluralismo ammette la realtà morale di verità di natura diversa, ma rifiuta l'idea che si possano collocare tutte sulla stessa scala, e misurare in base a un unico valore.

Esiste una verità che cerca noi, invece del contrario, una verità che non ha complemento: per ognuno di noi arriva una fine. Le altre verità le orbitano attorno come stelle intorno a un buco nero, più luminose, più fresche, meno grevi. Questa verità finale mi ha aiutato a dare al libro la sua forma definitiva. Senza un certo impegno in un determinato momento – poco più di un gesto amichevole da parte mia, ma una fatica fisica colossale per Tony – questo libro non avrebbe potuto vedere la luce. Ma non è un libro sulla sofferenza. Θ un libro sulla vita del pensiero, e sulla vita pensante.

Praga, 5 luglio 2010

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Pagina 14

Il mondo della mia adolescenza era dunque quello che avevamo ereditato da Hitler. Certo, la storia intellettuale del ventesimo secolo (e la storia degli intellettuali del ventesimo secolo) ha una propria fisionomia: quella che gli intellettuali di destra o di sinistra le danno quando la raccontano nella forma di narrazione tradizionale o all'interno di una rappresentazione ideologica del mondo. Ma dovrebbe essere chiaro che esiste un'altra vicenda, un'altra narrazione, che interviene con insistenza e si insinua in qualsiasi discorso sul pensiero e sui pensatori del ventesimo secolo: la catastrofe ebraica europea. Un numero impressionante di protagonisti della storia intellettuale della nostra epoca è presente anche in quella vicenda, soprattutto a partire dagli anni Trenta.

In un certo senso è anche la mia propria storia. Sono cresciuto, ho letto e sono diventato uno storico e, mi piace pensare, un intellettuale. La questione ebraica non è mai stata al centro della mia vita intellettuale, tanto meno dei miei studi storici. Ma vi s'insinua, inevitabilmente, e con forza sempre maggiore. Una delle finalità del libro è permettere a queste tematiche di incontrarsi, permettere alla storia intellettuale del ventesimo secolo di incrociare la storia degli ebrei. Θ uno sforzo personale oltre che accademico: dopo tutto, tra chi ha tenuto tali tematiche separate nei propri studi, noi ebrei siamo in gran numero.


Un punto di partenza per cercare di comprendere le complessità della storia ebraica e intellettuale della nostra epoca è Vienna, un luogo che tu e io abbiamo in comune. Un'immagine della città è quella che abbiamo ereditato da Stefan Zweig : un'Europa centrale tollerante, cosmopolita e dinamica, una repubblica delle lettere con una capitale imperiale. Ma la tragedia degli ebrei irrompe in quella storia. Le memorie di Zweig, Il mondo di ieri, offrono una descrizione a ritroso del ventesimo secolo, che associa gli orrori della seconda guerra mondiale alla nostalgia per il mondo antecedente lo scoppio della prima.

Per Zweig e i suoi contemporanei ebrei il mondo asburgico prima della Grande guerra era circoscritto alle oasi urbane dell'Impero: Vienna, Budapest, Cracovia, Czernowitz. Gli intellettuali della sua generazione erano all'oscuro della realtà rurale in Ungheria, Croazia o Galizia (se erano ebrei) tanto quanto questi altri mondi ignoravano la loro esistenza. Più a ovest la monarchia asburgica si estendeva fino a Salisburgo, Innsbruck, Bassa e Alta Austria e alle montagne del Sud Tirolo, dove gli ebrei di Vienna, o in generale la vita culturale viennese, erano un mistero, o un bersaglio su cui riversare odio, o entrambe le cose.

Bisogna quindi fare attenzione nel leggere Zweig, o altri pensatori, come una guida al mondo perduto dell'Europa centrale. Nel 1985 visitai una mostra allestita presso il museo storico della città di Vienna, Traum und Wirklichkeit: Wien 1880-1930 [Sogno e realtà: Vienna 1880-1930]. In una sala i curatori avevano affisso gli ingrandimenti di alcune pagine di un quotidiano viennese della destra. L'articolo, ovviamente in tedesco, descriveva gli orrori del cosmopolitismo: gli ebrei, gli ungheresi, i cechi, gli slovacchi e altri stranieri che insozzavano Vienna e generavano criminalità. I curatori avevano evidenziato il testo con colori diversi a seconda delle parole e delle loro radici, per illustrare quanto pochi fossero i termini attinti dal tedesco letterario: all'insaputa dell'autore, quelle farneticazioni tipicamente nazionalistiche erano in gran parte espresse con parole di origine yiddish, ungherese o slava.

La monarchia asburgica, il vecchio Impero austro-ungarico, aveva quindi una duplice identità. Più che in qualsiasi altro luogo d'Europa all'epoca, era qui che si avevano le maggiori probabilità di incontrare il pregiudizio palese basato sul principio freudiano del narcisismo delle piccole differenze. Al tempo stesso, le persone, le lingue e le culture formavano un intreccio indissolubile ed erano totalmente amalgamate con l'identità del luogo. Il mondo asburgico era il luogo in cui uno Stefan Zweig o un Joseph Roth potevano sentirsi veramente a casa – ed è da quel mondo che sarebbero stati i primi a essere espulsi.

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Pagina 86

Il fascino del marxismo si lega anche al cristianesimo e al darwinismo: entrambi, in modi diversi, superati dal sentimento filosofico e politico degli ultimi anni del diciannovesimo secolo. Penso che stiamo arrivando a concordare sul fatto che i socialisti se li lasciarono alle spalle soltanto per reinventarli in vari modi. Penso al cristianesimo e al significato attribuito alla sofferenza di Cristo: il suo disegno ci viene svelato su questa terra imperfetta soltanto nella misura in cui la salvezza attende nell'aldilà. Quanto ai divulgatori di Darwin (compreso Friedrich Engels ): l'evoluzione, sostenevano, non è solo compatibile con una prospettiva di cambiamento politico, lo esige – le specie nascono, competono. La vita – come la natura – è parecchio cruenta, rossa di zanne e d'artigli, ma l'estinzione delle specie (non meno di quella delle classi) ha senso in termini sia morali sia scientifici. Porta a specie migliori e così alla fine siamo dove siamo, e le cose volgono al meglio.

All'inizio del ventesimo secolo la versione engelsiana era ormai di gran lunga la più influente. Engels sopravvisse a Marx di tredici anni: abbastanza a lungo per imprimere la sua lettura nella versione generalmente accettata dei testi marxiani più noti. Scriveva in maniera più chiara dell'amico. Ed ebbe la fortuna di scrivere subito dopo che, grazie a Herbert Spencer e ad altri, il pensiero scientifico popolare era entrato a far parte della visione politica ed educativa tradizionale. Per esempio, L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza di Engels è intelligibile per qualsiasi quattordicenne istruito. Ma questo ovviamente è il problema. L'espurgazione della teoria evoluzionistica dell'Ottocento operata da Engels ridusse Darwin a una favola moraleggiante della vita quotidiana. Il marxismo era ormai un racconto accessibile di ogni cosa: non più trattazione politica, analisi economica o critica sociale, ma poco meno di una teoria dell'universo.

Nelle sue forme originali, la neoreligiosità di Marx comportava un telos, un fine ultimo dal quale l'intera storia traeva il proprio senso: sapeva dove andava. Tra le mani di Engels è strozzata in una semplice ontologia: la vita e la storia vengono da dove vengono e vanno dove devono andare, ma se hanno un significato discernibile, di sicuro non deriva dalle prospettive future. Al riguardo, e nonostante le sue numerose virtù, Engels assomigliava a Herbert Spencer: meccanicistico, eccessivamente ambizioso nelle affermazioni, onnicomprensivo nella visione, che saldava insieme, attingendo a materiali male assortiti, un racconto che si poteva applicare a qualunque cosa, dalla storia degli orologi alla fisiologia delle dita. Questo racconto multiuso si rivelò magnificamente utile: accessibile a tutti, riusciva nel contempo a giustificare l'autorità interpretativa esclusiva di un'élite di chierici. Il particolare modello di partito di Lenin sarebbe impensabile in sua assenza. Ma proprio per questo motivo è a Engels che si devono addebitare le assurdità del materialismo dialettico.


Torniamo alla tua tesi secondo cui il marxismo suscita maggiore risonanza nei paesi cattolici che in quelli protestanti, a causa di un certo tipo di pratiche rituali che hanno a che fare con il modo e con i contesti in cui si usa il linguaggio. Si può sostenere una tesi analoga per il giudaismo e il suo coinvolgimento nella politica radicale?

Che il marxismo sia una religione laica pare evidente di per sé. Ma esattamente sulla scia di quale religione si muove? Non sempre è chiaro. Comprende molti aspetti dell'escatologia tradizionale cristiana: la caduta dell'uomo, il Messia, la sua sofferenza e la redenzione dell'umanità per interposta persona, la salvezza, l'ascesa, e così via. C'è anche il giudaismo, ma più nello stile che nella sostanza. In Marx e in alcuni tra i più interessanti marxisti successivi ( Rosa Luxemburg , forse, o Léon Blum) – e senza dubbio negli interminabili dibattiti dei socialisti tedeschi condotti sulle pagine di «Die Neue Zeit» – possiamo facilmente distinguere una varietà di pilpul, quel compiaciuto gioco dialettico che è nel cuore delle sentenze rabbiniche e della tradizione moraleggiante e narrativa ebraica.

Pensa, se vuoi, alla semplice maestria delle categorie: le interpretazioni marxiste possono invertirsi e incrociarsi l'una con l'altra, di modo che ciò che è risulta non essere, e ciò che era torna sotto una nuova guisa. La distruzione è creativa, mentre la conservazione diventa distruttiva. Il grande sarà piccolo, e le verità di oggi sono destinate a perire come illusioni del passato. Quando accenno a questi aspetti piuttosto ovvi delle intenzioni e dell'eredità di Marx a persone che hanno studiato il personaggio e persino scritto su di lui, spesso si sentono a disagio. Non di rado sono ebrei e sono messi in imbarazzo dall'accento posto sulle origini ebraiche dello stesso Marx, come se si alludesse a questioni di famiglia.

Mi viene in mente una scena descritta nelle memorie di Jorge Semprún, Quel beau dimanche. Dopo che la sua famiglia fu espulsa dalla Spagna, Semprún, all'età di vent'anni, si unì alla resistenza francese e successivamente venne arrestato come comunista. Tradotto a Buchenwald, fu preso sotto l'ala di un vecchio comunista tedesco – il che certamente spiega come sia sopravvissuto. A un certo punto, Semprún chiede all'uomo più anziano di spiegargli la «dialettica». E la risposta arriva: «C'est l'art et la maniere de toujours retomber sur ses pattes, mon vieux», è l'arte e la tecnica di cadere sempre in piedi, vecchio mio. Lo stesso vale per la retorica rabbinica: l'arte e la tecnica – soprattutto l'arte – di cadere in piedi su una solida posizione di autorevolezza e convinzione. Essere un marxista rivoluzionario significava fare virtù del proprio sradicamento, non ultima l'assenza di radici religiose, aggrappandosi tuttavia – anche se in modo non del tutto consapevole – a uno stile di ragionamento che sarebbe risultato familiare a ogni studente della scuola ebraica.

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Pagina 101

Tutto ciò sarebbe stato molto più difficile da immaginare in assenza della prima guerra mondiale e del culto della morte e della violenza cui diede origine. Ciò che gli intellettuali comunisti e le loro controparti fasciste avevano in comune, negli anni successivi al 1917, era una profonda attrazione per la lotta all'ultimo sangue e i suoi esiti salutari dal punto di vista sociale o estetico. Gli intellettuali fascisti, in particolare, fecero della morte a un tempo la giustificazione e l'attrattiva della guerra e della violenza civile: da tale baraonda sarebbe nato un uomo migliore e un mondo migliore.

Prima di cominciare a congratularci gli uni con gli altri per aver detto «addio a tutto questo», va ricordato che questa sensibilità romantica non è affatto alle nostre spalle. Ricordo bene la risposta di Condoleezza Rice, allora segretario di Stato statunitense sotto il presidente George W. Bush, alla seconda guerra in Libano, nel 2006. Commentando l'invasione israeliana del Libano meridionale e l'entità delle sofferenze procurate ai civili, affermò con sicurezza che quelle erano «le doglie del parto di un nuovo Medio Oriente». E ricordo di aver pensato, all'epoca, questa l'ho già sentita. Sai che cosa intendo: ancora una volta, si giustificano le tribolazioni di un altro popolo quale modo della Storia di realizzare un mondo nuovo, e si attribuisce così un significato a eventi che altrimenti sarebbero imperdonabili e inesplicabili. Se un segretario di Stato americano conservatore può ricorrere a tali ipocrisie nel ventunesimo secolo, perché gli intellettuali europei non avrebbero dovuto invocare giustificazioni analoghe mezzo secolo prima?


Torniamo un attimo a Eric Hobsbawm. Com'è possibile che una persona che aveva fatto un errore del genere e non si era mai ravveduta, a suo tempo sia diventata uno dei più importanti interpreti del secolo? E il suo caso non è l'unico.

La risposta, a mio parere, è assai rivelatrice. Non abbiamo mai perso del tutto la sensazione che – come probabilmente insisterebbe ancora lo stesso Hobsbawm – non si possa comprendere appieno il ventesimo secolo se non se ne sono condivise le illusioni, in particolare quella comunista. A questo punto, lo storico della vita intellettuale nel ventesimo secolo entra essenzialmente nel territorio dell'irrisolvibile. I tipi di scelte che le persone fecero negli anni Trenta (e i motivi per cui le fecero) sono comprensibili per noi. Ciò è vero anche se non riusciamo a immaginare di compiere quella scelta, e anche se sappiamo perfettamente che, vent'anni dopo, molte di quelle stesse persone si sarebbero pentite della loro scelta, o l'avrebbero reinterpretata in una luce favorevole: errore della gioventù, peso delle circostanze o qualcos'altro.


Se si è stati comunisti, si ha una conoscenza partecipe dei fatti, si sa com'era, ci si era occupati di quellé che sembravano le principali problematiche dell'epoca, e si dispone di quella materia prima con cui lavorare. Ciò conferisce un vantaggio a uno storico, perché la conoscenza partecipe è una cosa che presumibilmente tutti vogliamo. Tuttavia, se si afferma che si traggono vantaggi intellettuali dall'essere stati stalinisti, sembrerebbe conseguirne che, da un punto di vista puramente metodologico, sarebbe desiderabile essere anche ex nazisti.

La scelta fatta da insigni tedeschi nel 1933 di accogliere con favore i nazisti, e di accettare la loro accoglienza favorevole e le nomine ad alti incarichi al prezzo della complicità e del silenzio: questo non è comprensibile per noi oggi, se non come atto di codardia umana. Anche retrospettivamente, cioè, rimane problematico, e non siamo affatto disposti a consentire che vengano invocati «errori di gioventù» o «il peso delle circostanze» come elementi attenuanti. In breve, siamo decisamente inclementi nei riguardi di un tipo di peccatuccio politico del passato, ma tolleranti e persino comprensivi nei confronti di un altro. Può essere contraddittorio e anche incoerente, ma c'è una certa logica di fondo.

Per la nostra comprensione della storia del ventesimo secolo vedo pochi vantaggi nell'entrare nella mente di coloro che formularono o diffusero le politiche naziste (motivo per cui non condivido l'adulazione contemporanea di Le benevole di Jonathan Littell). Semplicemente non riesco a pensare a un solo intellettuale nazista il cui ragionamento regga come interessante esposizione storica del pensiero del ventesimo secolo.

Per contro, posso pensare a diversi motivi per leggere con attenzione – se non con simpatia – gli scritti disgustosi di certi intellettuali fascisti romeni e italiani. Non voglio dire che il fascismo nella sua forma non germanica sia in qualche modo più tollerabile, più digeribile per noi, perché alla fine non mirava al genocidio, alla distruzione in massa di popoli, eccetera. Intendo dire che altri fascismi operarono in un quadro riconoscibile di risentimento nazionalista o di ingiustizia geografica che non era soltanto comprensibile, ma che aveva e ha tuttora un'applicabilità più ampia, se vogliamo dare un senso al mondo che ci circonda.

Invece, gran parte di ciò che dicevano gli intellettuali tedeschi nell'era nazista – quando parlavano come nazisti o filonazisti – si applicava esclusivamente al caso tedesco. Infatti il nazismo – come le tradizioni nazionali romantiche e post-romantiche alle quali attingeva – parassitava su tutto un insieme di affermazioni a proposito di ciò che rendeva unici i tedeschi. Molti intellettuali fascisti romeni – o italiani, o spagnoli – ritennero, a lungo, di sposare verità e categorie universali. Persino all'apice del patriottismo più narcisistico gli intellettuali fascisti francesi, come Robert Brasillach o Drieu La Rochelle, immaginavano ingenuamente di rivestire importanza e interesse ben al di là dei confini della Francia. In questo senso, almeno, sono paragonabili alle loro controparti comuniste: anche loro proponevano una storia della modernità e dei suoi disagi. Dí conseguenza, abbiamo qualcosa da imparare da loro.


Quando Giuseppe Mazzini, il patriota liberale italiano, scriveva del nazionalismo nel diciannovesimo secolo, era certo che potesse e dovesse essere una proposta universale del tipo cui stai alludendo: se l'autodeterminazione nazionale andava bene per l'Italia, non c'erano motivi, in linea di principio, per cui non dovesse andare bene per tutti. Possono esistere tante nazioni liberali. Quindi il fascismo degli anni Venti e Trenta si può intendere come un erede distorto di tale pensiero nel dopoguerra: in linea di principio, il fascista di una nazione può identificarsi con le ambizioni dei fascisti di altri paesi. Ma un nazionalsocialista non può desiderare una cosa del genere: il nazismo riguarda la Germania e non può essere un modello per altri, perché sia la sua forma, sia il suo contenuto sono specificamente tedeschi.

Eppure mi chiedo se, proprio per ciò che dici, il nazionalsocialismo non fosse, dopo tutto, universale. La venerazione di un'idea mitizzata della propria razza è un caso estremo, il caso estremo. Ma non possediamo tutti questa capacità di cedere alla lusinga della nostra unicità? La tendenza a fare eccezioni per noi stessi non è un difetto umano universale?

Forse. Stai sostenendo una tesi più astratta, che non riguarda i pensatori stessi, ma quel che potremmo apprendere dalla natura generale delle lusinghe di cui essi, o meglio i loro milioni di vittime, caddero preda. Ribadirei che possiamo e dobbiamo mantenere una distinzione tra i nazisti e quegli intellettuali che, ai loro stessi occhi, conservarono e sostennero le proprie qualità universali – l'idea tipicamente illuministica di essere parte di un discorso internazionale: che si trattasse di politica o delle origini della società umana, del funzionamento del capitalismo o del significato del progresso, e così via. Possiamo affermare con certezza che gli intellettuali comunisti – o, con certi distinguo, fascisti – furono gli eredi di tali discorsi. Cosa che semplicemente non possiamo dire dei nazisti.

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Pagina 105

IV
KING'S COLLEGE E KIBBUTZ:
SIONISTA A CAMBRIDGE



Nel 1963 mio padre suggerì che mi sarebbe potuto piacere andare in Israele, dove non molto tempo prima era stato in visita per la prima volta assieme a mia madre. I miei genitori trovarono un'organizzazione giovanile ebraica, Dror, che era associata al movimento di un kibbutz e organizzava viaggi estivi in Israele per giovani ebrei inglesi. Rimasi ammaliato dai reclutatori israeliani responsabili del movimento a Londra: Zvi e Maya Dubinsky, i quali rappresentavano Hakibbutz Hame'uhad, un movimento kibbutzistico di sinistra. Zvi, il rappresentante ufficiale incaricato di fare proseliti, era un sionista impegnato e carismatico vicino alla trentina; sua moglie Maya, nata a Parigi (e la cui zia, come scoprimmo poi, era sposata con un mio cugino di secondo grado), era bella e cosmopolita. Quell'estate andai in Israele con loro e persi completamente la testa.

Cominciò così la mia storia d'amore con il kibbutz. Israele aveva ragazze attraenti e ragazzi socievoli e schietti, per nulla turbati dalla loro ebraicità o dall'ostilità che li circondava. Era un luogo in cui l'ambiente circostante, senza essere particolarmente familiare, al contempo non era molto diverso o estraneo. Ma penso che anche quando mi tuffai nel sionismo e sotto la sua coltre ideologica, inconsciamente reprimessi una parte di me stesso.

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Pagina 115

Ma là eravamo. Nel corso della guerra e nell'immediato dopoguerra lavorai di nuovo in una piantagione di banane sul Mare di Galilea. Ma, alcune settimane dopo, l'esercito vittorioso di Israele lanciò un appello invitando volontari a unirsi all'esercito come ausiliari per contribuire a sbrigare i compiti del dopoguerra. Avevo diciannove anni, e il richiamo fu irresistibile. Così mi offrii volontario con un amico, Lee Isaacs: insieme raggiungemmo le alture del Golan e fummo assegnati a un'unità.

Il nostro compito era condurre i camion dell'esercito siriano catturati in territorio israeliano ma, con una certa delusione, fui rapidamente assegnato a mansioni di traduzione. A questo punto parlavo l'ebraico con relativa competenza, e il francese fluentemente. Il luogo pullulava di volontari anglofoni e francofoni, arrivati in Israele da tutto il mondo con una padronanza scarsa o nulla della lingua locale. Così, per un breve periodo diventai un interprete trilingue tra i giovani ufficiali israeliani e gli ausiliari di lingua francese e inglese assegnati alle loro unità.

Di conseguenza, ebbi modo di vedere più a fondo nell'esercito israeliano di quanto avrei potuto vedere se mi fossi limitato a guidare camion fino a valle, e l'esperienza mi aprì gli occhi. Per la prima volta arrivai a capire che Israele non era un paradiso socialdemocratico di ebrei amanti della pace, che abitavano in fattorie ed erano incidentalmente israeliani, ma per il resto erano identici a me. Queste persone e questa cultura erano decisamente diverse da quelle che mi ero abituato a incontrare, o mi ero ostinato a immaginare. Gli ufficiali subalterni che incontrai provenivano da città e paesi anziché dai kibbutzim, e grazie a loro arrivai a capire qualcosa che sarebbe dovuto risultare ovvio ai miei occhi già molto tempo prima: che il socialismo rurale era soltanto un sogno. Il centro di gravità dello Stato ebraico sarebbe stato e doveva essere nelle città. In breve, mi resi conto che non vivevo e non avevo mai vissuto nel vero Israele.

Anzi, ero stato indottrinato a credere a un anacronismo, avevo vissuto un anacronismo, e ora vedevo la profondità della mia delusione. Per la prima volta incontrai israeliani sciovinisti in ogni senso del termine: antiarabi al punto di rasentare il razzismo, totalmente indisturbati dalla prospettiva di ucciderne ovunque possibile, spesso rammaricati per non essere stati autorizzati a combattere fino a Damasco e sconfiggere gli arabi una volta per tutte; pieni di disprezzo per quelli che chiamavano gli «eredi dell'Olocausto», ebrei che vivevano al di fuori di Israele e che non comprendevano o non apprezzavano i nuovi ebrei, quelli nati in Israele.

Questo non era il mondo fantastico di un Israele socialista che tanti europei amavano (e amano) immaginare, proiezione illusoria di tutti i pregi dell'Europa centrale ebraica senza alcuno dei suoi difetti. Questo era un paese mediorientale che disprezzava i propri vicini e stava per aprire con loro un conflitto catastrofico, generazionale, confiscando e occupando le loro terre. Alla fine di quell'estate lasciai Israele sentendomi claustrofobico e depresso. Ci tornai solo due anni dopo, nel 1969. Ma durante quella permanenza scoprii di provare un'intensa antipatia per quasi tutto ciò che vidi. I miei ex colleghi e amici del kibbutz adesso mi vedevano come un estraneo e un paria.

Trent'anni dopo tornai a parlare di Israele, pubblicando una serie di saggi in cui criticavo le pratiche israeliane in Cisgiordania e il sostegno servile accordato a tale politica da parte americana. Nell'autunno del 2003, in un saggio pubblicato sulla «New York Review of Books» che avrebbe scatenato un'accesa polemica, sostenni che la soluzione dello Stato unico, se pur poco plausibile e indesiderabile per la maggior parte dei protagonisti, era la prospettiva più realistica per il Medio Oriente. Questa affermazione, dettata tanto dalla disperazione quanto dalla speranza, sollevò un putiferio di equivoci e reazioni risentite. Come ebreo penso di avere la responsabilità di criticare Israele con fermezza e rigore, e con argomenti ai quali un non ebreo non può fare ricorso per timore di esporsi all'accusa, falsa ma efficace, di antisemitismo.

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Sul serio, però: sta succedendo qualcosa fra l'America e l'Europa riguardo all'Olocausto. Anche se ciascuna parte afferma di trattarlo come fonte di un principio morale universale (il comandamento «non...»), nel più importante esempio pratico recente, la guerra in Iraq, gli insegnamenti applicati sono stati ben diversi. L'Olocausto è visto con grande facilità come argomento a favore sia della guerra, sia della pace. Si ha l'impressione che, da un punto di vista europeo, il messaggio della seconda guerra mondiale e dell'Olocausto sia qualcosa tipo: evita le guerre aggressive e illegittime, giustificate da menzogne — faranno uscire il peggio di te, e potresti fare cose terribili. Di sicuro non farai la cosa più terribile di tutte, ma seguendo quella strada potresti spingerti più lontano di quanto immagini.

Per contro, la risposta americana suonerebbe così: Monaco ci ha insegnato che se non ti opponi all'aggressione, succedono cose terribili a persone innocenti. E Monaco — fare concessioni eccessive, o chiudere un occhio sui crimini altrui — si applica a qualsiasi tipo di scenario si presenti nell'attualità. Dobbiamo quindi fare tutto il possibile per evitare il ripetersi di una situazione simile a quella dell'Europa alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Nel nostro caso, la guerra in Iraq incide in maniera diretta sulle sofferenze degli ebrei, perché gli spettatori innocenti verosimilmente travolti dal vortice sono gli israeliani. Saddam Hussein, come ci veniva spesso ricordato, era un nemico degli israeliani; nel frattempo, il governo di Israele sosteneva e confermava la narrazione, caldeggiando — contro i suoi stessi interessi, a mio parere — l'invasione dell'Iraq per i propri motivi.

Molto bene, allora: come pronunciarsi sulle due posizioni? Θ possibile farlo, ma non se ci si limita alle astrazioni. Quel che è in ballo, qui, non è un'interpretazione dell'etica, bensì della storia. Se Monaco non è un'analogia appropriata — e credo che non lo sia — è perché ci sono troppe circostanze e variabili locali, riguardanti il passato e il presente, da inserire accuratamente nel quadro. Ma per sostenere questa tesi, bisogna cominciare con quelle circostanze e variabili. In breve, si deve partire dai fatti. Questo davvero non è un argomento che si presti a essere risolto tramite l'accostamento di storie etiche contrastanti.

Fin dai tempi di Ben Gurion, la politica israeliana ha sostenuto apertamente l'asserzione che Israele — e con esso tutti gli ebrei del mondo — continua a essere vulnerabile a una replica dell'Olocausto. L'ovvio paradosso è che Israele stesso costituisce una prova molto attendibile del contrario. Ma se ammettiamo, come dovremmo senz'altro fare, che né gli ebrei né gli israeliani sono esposti a un rischio imminente di sterminio, siamo costretti a riconoscere che in realtà la politica consiste nel far leva sul senso di colpa e profittare dell'ignoranza. In quanto Stato, Israele strumentalizza — a mio parere irresponsabilmente — le paure dei suoi cittadini. Al tempo stesso, sfrutta i timori, i ricordi e le responsabilità di altri Stati. Ma così facendo, col passare del tempo rischia di consumare quello stesso capitale morale che anzitutto gli ha permesso di fare un uso strumentale del passato.

Per quanto ne so, nessuno all'interno della classe politica israeliana — e di sicuro nessun appartenente all'élite militare o politica — ha mai espresso dubbi personali in merito alla sopravvivenza di Israele: di certo non dopo il 1967 e, nella maggior parte dei casi, nemmeno prima. Il timore che Israele possa essere «distrutto», «spazzato via dalla faccia della Terra», «buttato a mare», o in qualunque altro modo esposto a qualcosa che assomigli anche solo lontanamente a una replica del passato, non è un timore autentico. Θ una strategia retorica basata su calcoli politici. Forse è comprensibile: non è difficile capire il valore d'uso per un piccolo Stato in una regione turbolenta di dichiarare a ogni occasione la propria vulnerabilità, impotenza, il bisogno di solidarietà e sostegno dall'estero. Ma ciò non spiega perché all'estero abbocchino. La risposta breve, ovviamente, è che la questione ha ben poco a che vedere con le realtà del Medio Oriente contemporaneo e tutto a che fare con l'Olocausto.


Ha tantissimo a che fare, secondo me, con il senso di colpa diffuso in una comunità che non hai menzionato esplicitamente: quella degli ebrei americani che non fanno l'aliyah, la «salita», il ritorno.

Un sionista, si diceva un tempo, è un ebreo che paga un altro ebreo perché viva in Israele. L'America è piena di sionisti. Gli ebrei americani hanno un problema di identità molto particolare: sono una minoranza «etnica» considerevole, consolidata, preminente e influente in un paese in cui le minoranze etniche hanno un posto distinto – e nella maggior parte dei casi positivo – nel mosaico nazionale. Ma gli ebrei, caso unico, sono una minoranza etnica che non riesce a definirsi esattamente tale. Parliamo di italo-americani, ispano-americani, nativi americani e così via. Questi termini hanno acquisito connotazioni decisamente positive per le persone che definiscono.

Ma chiunque parlasse di «ebrei americani» sarebbe immediatamente sospettato di nutrire pregiudizi; di sicuro gli ebrei americani stessi non userebbero questa espressione. Eppure sono evidentemente ebrei e americani. Che cosa, dunque, li distingue? Di sicuro non la religione, con la quale la maggioranza ha perso contatto ormai da tempo. Fatta eccezione per una minoranza atipica, gli ebrei americani non hanno familiarità con le pratiche tradizionali della cultura ebraica. Non hanno una propria lingua familiare o ereditata: la maggior parte degli ebrei americani perlopiù ignora lo yiddish e l'ebraico. Diversamente dai polacchi-americani o dagli irlandesi-americani, non hanno bei ricordi della «madrepatria». Che cosa, dunque, li unisce? La risposta, in termini molto semplici, è Auschwitz e Israele.

Auschwitz rappresenta il passato: il ricordo delle sofferenze di altri ebrei in altri tempi e in altri luoghi. Israele rappresenta il presente: il compimento del disegno ebraico sotto forma di uno Stato militare aggressivo e spavaldo – l'anti-Auschwitz. Con lo Stato ebraico gli ebrei d'America possono stabilire un codice di identificazione e un rapporto positivo, senza dovercisi effettivamente trasferire, pagarci le tasse, o modificare in qualsiasi altro modo il giuramento di fedeltà alla bandiera.

Mi pare che ci sia qualcosa di patologico in questo transfert, che sposta la definizione attuale di se stessi su persone totalmente diverse, vissute in altre epoche e altri luoghi. Di sicuro non può essere salutare per gli ebrei americani identificarsi con tanto trasporto con le vittime ebree del passato, al punto di credere – come molti di sicuro fanno – che la migliore ragione per tenere in vita Israele sia la probabilità di un nuovo Olocausto appena dietro l'angolo. Essere ebrei davvero significa dover prevedere una replica del 1938 ovunque si guardi? In tal caso, suppongo sia effettivamente ragionevole offrire sostegno incondizionato a uno Stato che afferma di attendersi qualcosa del genere. Ma non è certo un modo normale di vivere.

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Che valore ha la storia dell'Olocausto per lo sviluppo di una coscienza civica negli americani?

Alla grande maggioranza degli americani istruiti ma non specializzati è stato insegnato che gli eventi della seconda guerra mondiale, in generale, e l'Olocausto, in particolare, sono fatti unici, sui generis. Sono stati incoraggiati a considerare quel passato come un unico momento catastrofico, un riferimento storico ed etico al quale il resto dell'esperienza umana viene implicitamente paragonato e giudicato non all'altezza.

Θ importante, perché l'Olocausto è diventato la misura morale di ogni azione politica che compiamo: che riguardi la nostra politica estera in Medio Oriente, il nostro atteggiamento nei confronti del genocidio o della pulizia etnica, o la nostra propensione a partecipare o a ritirarci dal mondo. Ricorderai l'immagine tragicomica di Clinton-Amleto alla Casa Bianca, tormentato dalla scelta se intervenire o no nei Balcani, con Auschwitz che gli penzola davanti come referente storico. La politica pubblica americana in ambiti decisivi di interesse nazionale è ostaggio di un unico caso isolato della storia umana – spesso di importanza marginale, sempre evocato in maniera selettiva. Volevi sapere qual è il lato negativo del risalto dato all'Olocausto? Θ quello.

Ma adesso consentimi di fare l'avvocato del diavolo. Supponiamo che invece di avere soltanto questo elemento di educazione storica, gli americani non ne avessero neanche uno: non avessero mai studiato o letto qualcosa sul passato, tanto meno sul passato europeo recente. Sarebbero privi di riferimenti moralmente utili ai crimini del passato e non disporrebbero di nomi o momenti sfruttabili dal punto di vista storico ai quali poter alludere nel corso dei dibattiti politici e cui fare ricorso per scuotere l'opinione pubblica.

La possibilità di evocare Hitler – o Auschwitz o Monaco – presenta certi vantaggi. Almeno in questo modo il presente fa appello al passato, anziché ignorarlo. Allo stato attuale delle cose, lo facciamo in maniera abbozzaticcia e sempre più controproducente; ma almeno lo facciamo. Il punto non è abbandonare questo genere di esercizi; il punto è dedicarcisi in modo più sensibile e informato sotto il profilo storico.


Un problema curioso e collegato è l'americanizzazione dell'Olocausto, la convinzione che gli americani siano andati a combattere in Europa perché i tedeschi uccidevano gli ebrei – quando in realtà la cosa non c'entrava affatto.

Davvero. Churchill e Roosevelt avevano entrambi buoni motivi per tenere nascosta la questione ebraica. Dato l'antisemitismo presente all'epoca in entrambi i paesi, qualsiasi accenno al fatto che «noi» combattessimo i tedeschi per salvare gli ebrei si sarebbe senz'altro potuto rivelare controproducente.


Esattamente. L'intera vicenda si presenta in una luce totalmente diversa se si pensa che – fino a non molto tempo fa – gli Stati Uniti erano un paese nel quale sarebbe stato difficile mobilitare la gente per combattere contro l'Olocausto.

Giusto – e non è una cosa che la gente ami pensare di sé. Né l'America né la Gran Bretagna fecero molto per gli ebrei condannati in Europa; gli Stati Uniti non entrarono in guerra fino al dicembre del 1941, momento in cui il processo di sterminio era già ben avviato.


Quasi un milione di ebrei erano già morti quando i giapponesi bombardarono Pearl Harbor. Cinque milioni erano morti al momento dello sbarco in Normandia. Gli americani e gli inglesi erano a conoscenza dell'Olocausto. Non avevano soltanto i rapporti dei servizi segreti polacchi, giunti quasi immediatamente dopo il primo impiego delle camere a gas. Gli inglesi avevano anche decodificato trasmissioni radio sulle campagne di sterminio all'Est e decifrato telegrammi contenenti il numero degli ebrei gassati a Treblinka.

Potremmo voler ricordare quelle cifre: un'ottima esercitazione di educazione civica e consapevolezza nazionale. A volte cifre del genere raccontano una storia – una storia che preferiamo dimenticare.

Qualche anno fa scrissi una recensione del libro di Ernest May sulla caduta della Francia. Nell'ambito dell'articolo enumerai le ingenti perdite subite dai francesi nel corso delle sei settimane di combattimenti che seguirono l'invasione tedesca del maggio 1940. Furono uccisi circa 112.000 soldati francesi (per non parlare dei civili): una cifra superiore a quella dei caduti americani in Corea e in Vietnam considerati assieme – e un livello di vittime di gran lunga superiore a quello mai registrato dagli Stati Uniti. Ricevetti una caterva di lettere da lettori, peraltro benintenzionati, certi che avessi commesso qualche errore con i dati. Di sicuro, scrivevano, i francesi non combattono e non muoiono in quel modo. Questo succedeva nel 2001, ricordiamolo, poco prima degli osceni parossismi patriottici che fecero seguito all'11 settembre (le «freedom fries», eccetera). Gli americani faticano ad accettare l'idea di non essere i guerrieri più eroici del mondo, o che i propri soldati non abbiano combattuto con maggiore accanimento e affrontato la morte con più coraggio di quelli di qualunque altro paese.

Qualcosa di analogo accadde quando pubblicai, sempre sulla «New York Review of Books», un commento sul fatto che la Francia avesse avuto sei primi ministri ebrei, mentre negli Stati Uniti d'America stavamo ancora aspettando il primo candidato ebreo alla vicepresidenza coronato da successo: questo accadeva al tempo in cui l'abominevole Joseph Lieberman era appena stato candidato come vice di Al Gore nella corsa alla presidenza e il paese era immerso nell'autocompiacimento per la propria apertura e sensibilità etnica. In questa occasione fui letteralmente sommerso dalle lettere – non tutte ingiuriose – di lettori pronti ad assicurarmi che la Francia era e sarebbe sempre stata profondamente antisemita, a differenza della nostra tradizione tollerante.

In questa e in altre occasioni ho spesso pensato che ciò di cui l'America ha più bisogno è un'educazione critica alla propria storia. Che la Francia abbia precedenti ignobili di antisemitismo ufficiale è risaputo. L'antisemitismo francese era soprattutto di carattere culturale – e, com'è noto, sotto l'egida del regime di Vichy quel pregiudizio culturale si tramutò in partecipazione attiva al genocidio. Ma politicamente gli ebrei francesi da molto tempo sono liberi di assurgere alle alte cariche dello Stato; e di sicuro avevano accesso all'istruzione superiore quando l'università di Harvard, la Columbia e altri istituti imponevano ancora rigide quote di ammissione per gli ebrei e altre minoranze.

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Se esaminiamo la storia delle nazioni che hanno valorizzato al massimo le virtù da noi associate alla democrazia, notiamo che innanzitutto arrivarono la costituzione, il governo della legge e la separazione dei poteri. La democrazia quasi sempre arrivò per ultima. Se per democrazia intendiamo il diritto di tutti gli adulti di prendere parte alla scelta del governo che amministrerà il loro paese, allora arrivò molto tardi: nel corso della mia vita, in alcuni paesi che oggi consideriamo grandi democrazie, come la Svizzera, e certamente nel corso della vita di mio padre in altri paesi europei, come la Francia. Per cui non dovremmo raccontarci che la democrazia è il punto di partenza.

La democrazia sta a una società liberale ben ordinata come un mercato eccessivamente libero sta a un capitalismo riuscito e ben regolamentato. La democrazia di massa in un'epoca di mezzi di comunicazione di massa significa che, da un lato, si può rivelare in un batter d'ali che Bush ha rubato le elezioni, ma che, dall'altro, gran parte della popolazione se ne infischia. Non sarebbe stato altrettanto in grado di rubare le elezioni nel diciannovesimo secolo, in una società liberale all'antica, basata su un suffragio più limitato: le relativamente poche persone coinvolte se ne sarebbero interessate molto di più. Paghiamo quindi il prezzo della massificazione del nostro liberalismo, e dovremmo capirlo. Non è un argomento a favore di un ritorno al suffragio limitato o a due categorie di elettori, o a qualunque altra cosa possa essere – poniamo, gli informati e i disinformati. Ma è un argomento a favore della necessità di capire che la democrazia non è la soluzione al problema delle società non libere.


Ma la democrazia non sarebbe una buona candidata per un secolo più pessimista? Perché, penso, si può difendere meglio come qualcosa capace di impedire l'avvento di sistemi peggiori, ed è la meglio attrezzata, in quanto politica di massa, per assicurare che la gente non sia sempre presa in giro allo stesso modo.

La massima di Churchill secondo cui la democrazia è la peggior forma di governo, ad eccezione di tutte le altre, contiene un certa verità, seppur limitata. La democrazia è stata la miglior difesa a breve termine contro le alternative antidemocratiche, ma non è una difesa contro le sue stesse carenze genetiche. I greci sapevano che la democrazia non è propensa a cedere alle lusinghe del totalitarismo, dell'autoritarismo o dell'oligarchia; è molto più probabile che precipiti in una versione corrotta di se stessa.

Le democrazie si corrodono in fretta; si corrodono linguisticamente, o retoricamente, se preferisci – quella è la tesi di Orwell sul linguaggio. Si corrodono perché la maggior parte delle persone non si interessa granché di loro. Nota che l'Unione europea, le cui prime elezioni parlamentari si svolsero nel 1979 e mediamente registrarono un'affluenza alle urne superiore al sessantadue per cento, adesso contano su una percentuale di votanti inferiore al trenta per cento, nonostante il fatto che il Parlamento europeo sia ora più autorevole e disponga di maggiori poteri. La difficoltà a mantenere un interesse spontaneo alla questione di scegliere le persone che ci governano è ben documentata. E il motivo per cui abbiamo bisogno degli intellettuali, e di tutti i buoni giornalisti che riusciamo a trovare, è la necessità di colmare il vuoto che si allarga tra le due parti della democrazia: i governati e i governanti.


C'è anche la massima di Goebbels, ovvero che in qualsiasi sistema politico basta dichiararsi vittime, e scatenare una guerra, per riuscire ad avere la maggior parte delle persone dalla propria parte. Questo è molto più vero di quanto vorremmo. E porta alla conclusione, a mio parere piuttosto ovvia, che se ciò che vogliamo è difendere la democrazia, dobbiamo riconoscere che le guerre all'estero sono uno dei grandi fattori di distorsione. Θ stato un problema sin dall'inizio, sin dai tempi di Luigi Bonaparte.

Non a caso Marx si è concentrato su Luigi Bonaparte come esempio delle possibilità demagogiche di trasformare libere elezioni in società non libere. Marx lo volse a proprio vantaggio, affermando che era una conseguenza dovuta a un tipo particolare di elettorato, quello preindustriale. Purtroppo, però, abbiamo constatato che gli elettorati postindustriali sono altrettanto vulnerabili. Soltanto pochi anni fa, persone come Michael Mandelbaum scrivevano libri su come le democrazie non avessero mai fatto la guerra, sostenendo che un mondo pieno di democrazie sarebbe un mondo sicuro!

La guerra in Iraq dimostra precisamente il contrario: che una democrazia, in particolare una democrazia armata, può essere facilmente indotta a entrare in guerra – purché le vengano raccontate storie compatibili con l'immagine che ha di sé. Non le si può dire: combatteremo una guerra di conquista. Ciò va contro la sua capacità di assicurare a se stessa che quel che fa è giusto. Ma raccontale che va là a fare per altri ciò che a suo tempo è stata abbastanza fortunata da fare per se stessa; che va là per proteggersi dalle società autoritarie che stanno per distruggere quegli stessi valori che la rendono democratica: allora si mobilita prontamente per obiettivi non democratici, compresa una guerra illegale di aggressione. Se una democrazia può farlo, non c'è molto che la differenzi – per tornare a Goebbels – da una dittatura: eccetto la narrazione di libertà con cui si autoassolve. Quest'ultima conserva il suo valore, ma non è una gran difesa. Soddisfa appena appena il criterio di Churchill, ma niente di più.


Io sono più ottimista. Non penso che il governo che ha condotto gli Stati Uniti in quella guerra fosse un governo democraticamente eletto. E ciò produce tutte le conseguenze che si possono immaginare. In particolare, se si arriva al potere con metodi non democratici, si pensa a soluzioni che permettano di restarci. La guerra è stata infatti la maniera di farsi eleggere una seconda volta. Bush non sarebbe stato in grado di aspirare alla rielezione, senza la guerra. Θ veramente stato l'unico argomento repubblicano, nel 2004.

Prima imbrogli, poi combatti, poi dici che la guerra significa che l'altra parte è irragionevole. Penso quindi che esista un nesso tra democrazia e guerra, e penso che come prima cartina di tornasole per capire cosa sta succedendo nel proprio paese sia domandarsi: stiamo combattendo una guerra illecita di aggressione? E se la risposta è sì, è molto probabile che ci sia qualche problema con le istituzioni democratiche dello Stato.

La democrazia non è una condizione necessaria, né sufficiente, per una buona società aperta. Non vorrei dare l'impressione di essere eccessivamente scettico riguardo alla democrazia: uno che ha una preferenza per le società aristocratiche, liberali, del diciannovesimo secolo. Ma voglio fare una considerazione alla Isaiah Berlin. Dobbiamo semplicemente riconoscere che alcune società non democratiche del passato, sotto certi aspetti, erano migliori delle democrazie che le hanno seguite.

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Il sospetto che l'élite proprio non capisca è profondamente radicato nel risentimento populista americano. Risale almeno a William Jennings Bryan e alle elezioni del 1896. Anche in questo caso, la distanza conta. In Olanda puoi sentir parlare di quelli di Amsterdam che non capiscono. Ma quelli di Amsterdam si trovano al massimo a centoventi chilometri di distanza, mentre quelli di Washington, New York, Princeton o Berkeley possono trovarsi tranquillamente a più di tremila chilometri e, dal punto di vista culturale, a duemila anni luce di distanza da «ciò» che essi non capiscono.

Il nazionalismo provinciale americano si sente quindi lontano e incompreso in due sensi. Che si combinano in modo molto elegante nella paura e nell'antipatia nei confronti delle Nazioni Unite: un'organizzazione estranea, sconosciuta e in qualche modo lontanissima (più precisamente, a New York).

Detto questo, il mistero meraviglioso è che ciò non si è mai realmente tradotto in una vera e propria politica demagogica, com'è invece accaduto in un momento o nell'altro nella maggior parte dei paesi europei. Si potrebbe dire che sia in parte una conseguenza del sistema elettorale. Ma riflette anche semplici realtà geografiche. Come in Inghilterra, la xenofobia e il nazionalismo sono quindi stati messi a tacere grazie alla loro sublimazione nei momenti cruciali in un partito conservatore. Ma in America la semplice estensione fisica gioca un ruolo: ognuno è così distante da ogni altro che la coerenza e l'energia organizzativa necessarie per la demagogia politica tendono a dissiparsi. A ogni modo, in alcune occasioni ha fatto irruzione, sotto forma di Newt Gingrich, o Dick Cheney, Glenn Beck o i Know Nothing, il maccartismo e via dicendo: riuscendo a fare sufficienti danni da minacciare la qualità della repubblica, ma non abbastanza da essere visto per quel che veramente è: fascismo di origine americana.


Ciò suggerisce una certa missione per gli intellettuali patriottici americani, cioè la difesa delle istituzioni e la difesa della Costituzione. E anche una sorta di prova per coloro che affermano di essere patrioti, cioè: difendono le istituzioni o fanno quadrato attorno a una persona che tende a fare ragionamenti eccezionalistici (o assolutamente bizzarri e ignoranti, come nel caso di Sarah Palin) su quel che dovrebbe succedere a quelle istituzioni?

I commentatori americani sono abbastanza bravi a cogliere quelle minacce – a cose fatte. La chiave è però individuarle sul momento e in tempo utile. Ciò che inceppa questo meccanismo è una cultura pervasiva della paura.

Gli Stati Uniti sono più vulnerabili allo sfruttamento della paura per fini politici di qualsiasi altra democrazia che io conosca (con l'eccezione, forse, di Israele). Se ne accorse Tocqueville , sicché non è che io abbia scoperto qualcosa di originale. Occupiamo uno spazio pubblico conformista. Le tradizioni newyorchesi del dissenso sono periferiche e quasi non lo toccano. Per quanto riguarda Washington, non è un luogo in cui venga incoraggiato il dissenso, o l'attività intellettuale di qualunque altro tipo. Certo, a Washington ci sono persone che si definiscono intellettuali, ma la maggior parte è talmente rapita dal desiderio di essere influente da aver perso da tempo qualsiasi autonomia morale.

La paura opera in molti modi diversi. Non è più un sentimento semplice e diretto come il vecchio timore che il re, il commissario politico o il capo della polizia vengano a prenderti. Θ la riluttanza a trasgredire alla propria comunità: la paura che mi è stata espressa da ebrei liberali che non osano rischiare di essere considerati antisemiti o contro Israele. La paura di essere considerati non americani. La paura di rompere con l'opinione accademica benpensante su qualunque cosa, dalla correttezza politica alle opinioni radicali tradizionali. La paura di essere impopolare in un paese in cui la popolarità è una virtù che si comincia a calibrare sin dalla scuola media. La paura di ergersi contro la maggioranza in un paese in cui l'idea di maggioranza sembra essere profondamente incardinata nell'idea di legittimità.


Forse possiamo dunque concludere con la questione del mezzo attraverso il quale raggiungere le persone in una società conformista. In un certo senso, sei stato fortunato, perché hai afferrato quello che potrebbe rivelarsi l'ultimo respiro della saggistica classica.

Permettimi di sottolineare di nuovo la coincidenza che lega l'innalzamento del livello di alfabetismo universale e l'avvento dei mezzi di comunicazione scritta di massa alla nascita dell'intellettuale pubblico. Per il tipico intellettuale del periodo che va, diciamo, dall'ultimo decennio dell'Ottocento alla fine degli anni Quaranta del Novecento, la letteratura era un lavoro quotidiano. Che si prenda ad esempio Bernard Shaw o Ιmile Zola, André Gide, Jean-Paul Sartre o Stefan Zweig, erano tutte persone che riuscivano a tradurre il proprio talento letterario in influenza di massa. Poi, tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta, gli intellettuali che avevano accesso a un pubblico paragonabile erano tendenzialmente scienziati sociali di qualche tipo: storici, antropologi, sociologi, a volte filosofi. Ciò avveniva in concomitanza con l'espansione dell'istruzione superiore e l'emergere del professore universitario come intellettuale. In questi decenni, gli intellettuali erano persone il cui lavoro quotidiano tendeva a essere l'insegnamento, più che la scrittura di romanzi.

L'avvento dei professori radiofonici nell'Inghilterra degli anni Cinquanta fu un altro cambiamento importante. Rispondeva al crescente timore che la cultura di massa e l'alfabetismo di massa in qualche modo fossero usciti dai binari. A quel punto la maggior parte delle società avanzate era totalmente alfabetizzata, ma l'uditorio per un dibattito pubblico intelligente in realtà si andava restringendo – grazie, come pareva a molti, alla televisione, al cinema e alla prosperità materiale. Proletariato e industria culturale di Richard Hoggart e alcuni dei primi scritti di Raymond Williams esaminano questo fenomeno. Si diffuse il timore di avere una specie di spazio pubblico inondato dalla comunicazione, ma una capacità di risposta sempre minore da parte del profano istruito.

Questo ci porta al terzo stadio, il più recente, che è la televisione. L'intellettuale caratteristico dell'era della televisione deve essere capace di semplificare. L'intellettuale degli anni Ottanta e dei decenni successivi è quindi una persona capace e disposta ad abbreviare, semplificare e formulare osservazioni mirate: di conseguenza, abbiamo finito per identificare gli intellettuali con i commentatori delle problematiche contemporanee. Si tratta di una funzione e di uno stile molto diversi da quelli dell'intellettuale all'epoca di Zola o persino di Sartre e di Camus. Internet non ha fatto altro che accentuare questo fenomeno.

Oggi l'intellettuale deve fare una scelta. Può comunicare attraverso il tipo di rivista nato alla fine del diciannovesimo secolo: il settimanale letterario, il mensile politico, il periodico accademico. Ma in quel modo raggiunge soltanto un pubblico con idee simili alle proprie che a livello nazionale si è ridotto – sebbene, per essere onesti, si sia anche esteso a livello internazionale grazie a Internet. L'alternativa sta nell'essere un «intellettuale mediatico». Ciò significa calibrare i propri interessi e commenti alla soglia di attenzione sempre più ridotta che caratterizza i dibattiti televisivi, i blog, i tweet e mezzi analoghi. E – fatta eccezione per quelle rare occasioni in cui emerge un'importante questione morale o si verifica una crisi – l'intellettuale deve scegliere. Può ritirarsi nel mondo del saggio ponderato e influenzare una minoranza selezionata, oppure può rivolgersi a quello che spera sia un pubblico di massa, ma in modo attenuato e contenuto. Ma non mi pare affatto ovvio che si possano fare entrambe le cose, senza sacrificare la qualità del contributo offerto.

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Il riferimento alla privatizzazione è quello cruciale. Che cosa significa «privatizzazione»? Sottrae allo Stato la capacità e la responsabilità di rimediare alle carenze nella vita delle persone; elimina il peso di quelle stesse responsabilità anche dalla coscienza dei cittadini, che non condividono più l'onere dei dilemmi comuni. Tutto ciò che resta è l'impulso caritatevole derivante da un senso di colpa individuale nei confronti di altri individui che soffrono.

Abbiamo buoni motivi per ritenere che questo impulso caritatevole sia una risposta sempre meno adeguata alla carenza di risorse distribuite in maniera diseguale nelle società ricche. Così, anche se la privatizzazione fosse il successo economico che le viene attribuito (e decisamente non lo è), rimarrebbe una catastrofe morale in fieri.


In questo contesto vorrei richiamarmi alla distinzione di Beveridge tra Stato di guerra e Stato sociale, perché sembra che negli ultimi quarant'anni, diciamo, sia stata la guerra a rendere difficile lo Stato sociale o la socialdemocrazia negli Stati Uniti. L'esempio di Johnson è ovvio: era difficile costruire una «Grande società» e finanziare la guerra in Vietnam. Ma più di recente, dopo il Vietnam, con la creazione dell'esercito interamente costituito da volontari, è successa una cosa molto interessante.

L'esercito stesso è diventato una specie di organizzazione assistenziale efficace. Voglio dire che offre istruzione e mobilità sociale a un sacco di persone che altrimenti non vi avrebbero accesso. Offre anche ospedali statali che funzionano parecchio bene – o almeno funzionavano parecchio bene prima che l'amministrazione Bush tagliasse loro i finanziamenti nel bel mezzo di una guerra, in modo che nessuno potesse sostenere l'argomento che sto esponendo ora.

In tempo di pace l'esercito è dunque un ottimo esempio di politica statale che permette la mobilità sociale. Ma lo è molto meno quando combatte effettivamente una guerra e manda queste persone emarginate, che a volte non sono neanche cittadini americani, a morire e uccidere. A quel punto, la guerra si trasforma in assistenza alle grandi imprese. La guerra in Iraq ha ridistribuito una quota ingente degli introiti fiscali tra un numero esiguo di imprese beneficiarie.

In questo aspetto, come in altri, gli Stati Uniti si discostano dall'esperienza occidentale nel suo insieme. In altri paesi dell'Occidente industrializzato, gli Stati di guerra tra la prima e la tarda Età moderna si trasformarono progressivamente in Stati sociali permanenti. Tipi di spesa pubblica che sarebbero stati impensabili in tempo di pace erano diventati inevitabili in tempo di guerra – innanzitutto durante la prima guerra mondiale e poi definitivamente dopo il 1939. I governi furono quindi obbligati a riprodurre per scopi pacifici le cose che avevano appreso di poter fare durante la guerra. Con sorpresa, constatarono che si trattava di un modo particolarmente efficiente di conseguire i propri obiettivi, nonostante l'opposizione ideologica.

La situazione dell'America appare molto diversa, come dicevi. Nel corso di una serie di «piccoli conflitti» permanenti che risalgono ai primi anni Cinquanta, il governo statunitense ha preso in prestito denaro per combattere guerre che preferisce non dichiarare troppo apertamente. Il costo di questi conflitti è stato quindi sostenuto dalle generazioni successive sotto forma di inflazione, oppure di imposizione di oneri e limitazioni sulla spesa pubblica in tutti gli altri ambiti, in particolare quello dell'assistenza e dei servizi sociali.

Se per i conservatori americani lo Stato di guerra è una via accettabile per contenere la diffusione della politica sociale, è perché in questo paese la guerra non è ancora vissuta come una catastrofe. Certo, il Vietnam ha comportato costi sociali: la stessa classe politica era divisa, emersero divisioni intergenerazionali durature e la politica estera per un po' fu ostacolata da queste considerazioni nazionali. Ma nessuno, che io sappia, ha mai sostenuto che tutto ciò avrebbe dovuto incoraggiare un ripensamento delle premesse del governo e del suo ruolo nella società, così come, per esempio, la seconda guerra mondiale aveva provocato una rivoluzione politica in Gran Bretagna.

Θ difficile vedere come questa situazione possa cambiare. Anche al culmine dell'assurdità irachena, la maggioranza degli americani era favorevole a stanziare una quota ingente della spesa pubblica per fini militari poco chiari o decisamente disonesti, pur sostenendo di credere nella riduzione generale delle tasse, incluse, presumibilmente, quelle destinate a coprire la spesa militare. Gli americani non hanno mostrato alcun interesse a rafforzare il ruolo del governo nella loro vita, senza rendersi conto che era proprio ciò che lo avevano entusiasticamente incoraggiato a fare nella maniera più importante in cui uno Stato può intervenire nella vita dei suoi cittadini, cioè combattere una guerra. Ciò rivela una dissonanza cognitiva collettiva, che è difficilissimo superare a livello politico. Se esiste una ragione culturale per cui gli Stati Uniti non riusciranno a seguire i migliori esempi di altre società occidentali, è proprio questa.


Hai parlato in termini neutri delle opinioni espresse da esponenti della società americana, il che è più sicuro, ma le loro opinioni sulla legittimità dell'intervento pubblico derivano dal nazionalismo americano.

Esistono due tipi di nazionalismo. Uno dice: tu e io abbiamo entrambi familiarità con il sistema postale e anche con il nostro piano pensionistico, ed è il tipo di cosa di cui possiamo parlare in metrò mentre andiamo in ufficio, dove nessuno dei due si tratterrà a lavorare oltre le sette di sera, perché così dice la legge.

E poi c'è anche il tipo di nazionalismo che dice: io pago pochissime tasse anche se sono molto ricco, e tu paghi le tasse anche se appartieni alla classe operaia, io vado al lavoro con l'autista e tu prendi l'autobus, e abbiamo pochissimo da dirci – e in ogni caso non ci incontriamo mai. Ma se si verificherà qualcosa di molto brutto, troverò un buon argomento patriottico per spiegare perché tu debba proteggere i miei interessi e perché i tuoi figli, ma non i miei, debbano uccidere e morire.

Bene, esaminiamo queste due forme di identificazione nazionale. Quel che mi colpisce della seconda, è che la ragione per cui funziona o non funziona è culturale, più che politica. Esistono aspetti dei presupposti culturali americani riguardo a cosa significhi essere americano, a quali aspettative possa legittimamente avere un americano, e così via, che sono molto diversi da ciò che significa essere olandese. E questo rimane vero anche se, come in questo caso, i due paesi sono straordinariamente simili in termini di leggi, istituzioni, vita economica e via dicendo.

La differenza culturale tra l'Europa e gli Stati Uniti, la magia del nazionalismo americano che unisce i ricchi e i poveri d'America, è il sogno americano. Gli europei in genere sanno dire con precisione dove si collocano personalmente rispetto ad altri in termini di reddito, e hanno aspettative modeste riguardo al trattamento pensionistico. Negli Stati Uniti un numero di persone di gran lunga superiore a quello reale ritiene di trovarsi in cima alla scala sociale, e un altro grande gruppo è convinto che la raggiungerà quando andrà in pensione. Gli americani sono quindi molto meno inclini a guardare una persona estremamente ricca o privilegiata e a cogliere l'ingiustizia: vedono soltanto se stessi in un'incarnazione futura ottimistica.

Gli americani pensano: lasciamo il sistema più o meno così com'è, perché non vorrei dover patire a causa delle tasse elevate una volta che sarò diventato ricco. Esiste un quadro di riferimento culturale che spiega alcune cose sugli atteggiamenti nei confronti della spesa pubblica: non mi spiace pagare le tasse per finanziare una rete ferroviaria che uso solo occasionalmente, se sento di essere tenuto a versarle al pari degli altri per un servizio che in linea di principio è a disposizione di tutti. Potrebbe darmi più fastidio se mi aspettassi di diventare un giorno il tipo di persona che non adopera mai quel genere di servizio pubblico.

L'aspetto geniale riguardo alla creazione degli Stati sociali, però, è che il beneficiario principale era il ceto medio (nel senso europeo, che include l'élite dei professionisti e degli specialisti). Fu il reddito del ceto medio a essere improvvisamente liberato grazie all'accesso all'istruzione e all'assistenza sanitaria gratuite. Fu il ceto medio a conquistare una sicurezza personale reale attraverso l'assicurazione sociale, la pensione e altre prestazioni erogate dagli enti pubblici. In questo senso, lo Stato sociale crea la classe media, e la classe media poi lo difende. Se ne accorse persino Margaret Thatcher, quando iniziò a parlare di privatizzare il servizio sanitario – e scoprì che a opporre la maggiore resistenza erano i suoi stessi elettori di ceto medio.


L'elemento critico sembra essere innanzitutto la creazione di questa classe media. In sua assenza, ci sarebbero persone che non sono disposte a pagare le tasse perché vogliono essere ricche, e persone che non vedono il motivo di pagarle perché sono ricche. Vedo la classe media come una categoria che, senza disporre di enormi ricchezze, non ha preoccupazioni riguardo alla pensione, all'istruzione e alle cure mediche. In base a questo parametro, in realtà abbastanza modesto, non esiste una classe media americana.

Temo che la tua tesi sulla guerra che fa entrare il governo nella nostra vita possa avere una formulazione anche più forte. Dato che il governo americano è interventista, all'estero se non in patria, la guerra produce certi effetti perversi. Ostinarsi a combattere guerre rifiutandosi al contempo di aumentare le tasse per finanziarle è stato soltanto un modo tortuoso di invitare il governo cinese a entrare nella nostra vita. Se non siamo disposti a finanziare le nostre guerre, vorrà dire che ci indebiteremo con la Cina, con tutti i rischi che ciò comporta per l'esercizio del potere e della libertà in futuro. Mi sembrò incredibile che quasi nessuno ne parlasse, quando la guerra in Iraq ebbe inizio.

Potrebbe esserci una verità ancora più profonda in quel che dici. Rischiamo di accogliere una specie di capitalismo cinese nella vita americana. Il senso più semplice in cui ciò si verifica è stato notato da più parti: la Cina presta denaro al governo, tiene a galla l'economia e mette dollari in tasca agli americani in modo che vadano ad acquistare prodotti cinesi.

Ma esiste anche un altro aspetto. Il governo cinese si sta ora ritraendo dalla vita economica, eccetto a livelli strategici, per il motivo che spingere al massimo un certo tipo di attività economica presenta chiari vantaggi a breve termine per la Cina e che nessuno avrebbe interesse a regolamentarla, se non allo scopo di tenere alla larga la concorrenza. Al contempo, la Cina è uno Stato autoritario: censorio e repressivo. Θ una società capitalista priva di libertà. Gli Stati Uniti non sono una società capitalista priva di libertà, ma i modi in cui gli americani concepiscono le cose che sarebbero o non sarebbero disposti a permettere vanno in una direzione molto simile.

Gli americani sono disposti a permettere allo Stato di adottare una serie considerevole di provvedimenti intrusivi per proteggerli contro il «terrorismo» o per tenere a bada le minacce. In anni recenti (e non solo recenti — pensa agli anni Cinquanta, agli anni Venti, o alle leggi sugli stranieri e sulla sedizione del 1790), i cittadini americani hanno mostrato una terrificante indifferenza nei riguardi dell'inosservanza della Costituzione o della soppressione dei diritti da parte del governo, purché non fossero toccati direttamente dai provvedimenti.

Al tempo stesso, però, quegli stessi americani nutrono un'avversione viscerale per l'idea che il governo svolga un ruolo nell'economia o nella loro vita, sebbene, come dicevamo poc'anzi, lo Stato intervenga già nell'economia in un sacco di modi diversi, a loro vantaggio o a vantaggio di qualcuno. In altre parole, è diffusa la sensazione che gli americani siano molto più inclini, almeno nella logica delle loro azioni, ad accettare l'idea di un capitalismo di stampo cinese rispetto all'idea di una socialdemocrazia di mercato in stile europeo. O forse sto esagerando?

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Esiste un altro tipo di risposta all'argomento delle «forze di mercato globali»: alcune cose che possono sembrare concessioni politiche alla classe operaia o ai poveri, in realtà sono giustificabili in termini puramente economici o di bilancio. Una di esse è la sanità pubblica. Lo Stato responsabile dell'assistenza sanitaria riesce (come sappiamo) a tenere bassi i costi meglio del settore privato. E poiché lo Stato ragiona in termini di bilanci a lungo termine anziché di utili trimestrali, la migliore maniera di tenere bassi i costi è mantenere in salute le persone. Così, laddove esiste la sanità pubblica, si presta grande attenzione alla prevenzione.

Avner Offer, l'economista di Oxford, di recente ha scritto un libro molto interessante, nel quale dimostra che quel che affermi è vero anche in molti altri ambiti. Che in realtà sia proprio nell'interesse di un capitalismo stabile e ben regolamentato che occorre limitare le conseguenze del suo successo. Le imprese sono in grado di operare in maniera efficiente soltanto perché esiste l'assistenza sanitaria universale. Possono anche, per quel che vale, licenziare le persone in esubero senza privarle di un livello dignitoso di copertura medica – che la disoccupazione si traduca nella mancanza di accesso all'assistenza sanitaria è una cosa che nessuna società dovrebbe mai accettare.

Nel libro viene altresì dimostrato, e più volte illustrato, che le società con forme estreme di distribuzione anomala del reddito o delle risorse raggiungono condizioni in cui, a un certo punto, l'economia è minacciata dagli squilibri sociali. Sicché è bene, non solo per l'economia o per i lavoratori, ma anche per un'astrazione chiamata capitalismo, evitare di spingere troppo lontano la logica del suo malfunzionamento. In America questo concetto è stato accettato per moltissimo tempo. Negli anni Settanta, il divario tra ricchi e poveri in questo paese non era totalmente sfalsato rispetto a quelli tipici dei paesi più ricchi dell'Europa occidentale.

Oggi lo è. Gli Stati Uniti mostrano un abisso sempre più profondo tra i pochi ricchi e la moltitudine di persone povere o in condizioni precarie: tra l'opportunità e la sua assenza, tra il privilegio e la privazione, e via dicendo, una condizione che come sai ha caratterizzato le società arretrate e decadute nel corso dell'intera storia. Ciò che ho appena detto degli Stati Uniti sarebbe una descrizione accurata del Brasile odierno, per esempio, o della Nigeria (o, per fare un esempio più pertinente, della Cina). Ma non sarebbe una descrizione accurata di qualunque società europea a ovest di Budapest.


La cosa strana a proposito del discorso morale nell'America contemporanea è che parte dal punto sbagliato. Dovremmo chiederci che cosa vogliamo come nazione, che cosa sia un bene sociale, e poi valutare se possa essere prodotto o generato meglio dallo Stato o dal mercato. Invece, se il governo fa bene una cosa, viene puntualmente presentato un solido argomento a sostegno del fatto che la tal cosa è contaminata dalla sua associazione con lo Stato. E se partissimo onestamente dalla cosa in sé? La salute, per esempio. A chi non piace la salute?

Il denaro rende misurabili i beni. Offusca qualsiasi discussione riguardo alla loro classificazione nell'ambito di un dibattito etico o normativo sugli scopi sociali. Penso che sarebbe utile «ammazzare tutti gli economisti», per parafrasare Shakespeare: pochissimi, tra loro, accrescono la somma delle conoscenze scientifiche o sociali, ma una maggioranza ben nutrita della categoria contribuisce attivamente a confondere i propri concittadini riguardo a come pensare in termini sociali. Le eccezioni sono note, per cui forse potremmo scagionarle.

La tua osservazione sui beni sociali, però, è interessante. Esistono due tipi di questioni. La prima, ovviamente, è il problema di stabilire che cosa costituisca un bene sociale. Ma una volta che lo si sia stabilito, si pone un'altra questione, cioè quale sia il modo migliore di fornirlo. In linea di principio, è perfettamente coerente decidere che tutti debbano fruire dell'assistenza sanitaria, ma che il settore privato sia in grado di fornirla meglio su un mercato basato sui profitti. Non ne sono affatto convinto, ma la decisione non è incoerente dal punto di vista della logica ed è soggetta a prova.

Ma qual è la maniera esemplare di fornire una cosa, una maniera che non lasci alcun dubbio sul fatto che si tratta di un bene sociale? In seguito alla privatizzazione, il colore uniforme che distingueva i treni britannici è diventato un caleidoscopio di marchi e annunci pubblicitari. Ciò ha reso evidente che il trasporto ferroviario non è un servizio pubblico. Ora, che i treni viaggino tutti in orario o meno, in maniera altrettanto sicura ed efficiente che siano privati o pubblici, non sminuisce il fatto che sia andato perduto il senso del servizio collettivo che appartiene a tutti e del quale tutti beneficiano. Questo è uno degli aspetti di cui tenere conto quando ci domandiamo come andrebbe fornito.

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Questo libro «parla» del ventesimo secolo. Ma perché un secolo? Sarebbe allettante limitarsi ad archiviare il concetto come un comodo cliché, e rielaborare le nostre cronologie in base ad altre considerazioni: l'innovazione economica, il cambiamento politico o le trasformazioni culturali. Ma sarebbe un po' ipocrita. Proprio perché è un'invenzione umana, l'organizzazione del tempo in decenni o in secoli è importante nelle vicende umane. Le persone prendono sul serio i punti di svolta, e di conseguenza tali punti di svolta assumono un certo significato.

A volte succede per caso: gli inglesi del diciassettesimo secolo si resero conto della transizione dal Cinquecento al Seicento perché coincise con la morte di Elisabetta e con l'ascesa al trono di Giacomo I – un momento veramente significativo negli affari politici inglesi. Qualcosa di molto simile avvenne nel 1900. Per gli inglesi soprattutto – l'inizio del nuovo secolo precedette di poco la morte di Vittoria, che aveva regnato per sessantaquattro anni e dato il nome a un'epoca – ma anche per i francesi, profondamente coscienti dei mutamenti culturali che collettivamente e di per sé diedero forma a un'epoca: la fin-de-siècle.

Ma anche se non succede granché, questi giri di boa secolari quasi sempre costituiscono, a posteriori, un punto di riferimento. Quando parliamo del diciannovesimo secolo, sappiamo di che cosa parliamo proprio perché quell'epoca ha assunto un insieme di caratteristiche distintive – e ciò avvenne ben prima della sua fine. Nessuno immagina che «nel o intorno al 1800» il mondo sia cambiato in maniera misurabile. Ma nel 1860 era perfettamente chiaro ai contemporanei che cosa distingueva la loro epoca da quella dei loro progenitori del diciottesimo secolo – e queste distinzioni hanno finito per avere un peso nella comprensione della propria epoca da parte delle persone. Dobbiamo prenderle sul serio.

E il ventesimo secolo? Che cosa si può dire al riguardo – oppure, come si sostiene abbia acutamente osservato Zhou Enlai a proposito della Rivoluzione francese, è troppo presto per pronunciarsi? Non possiamo permetterci di rimandare la risposta, soprattutto perché il ventesimo secolo è stato etichettato, interpretato, citato e castigato più di qualunque altro. Il testo recente più noto — di Eric Hobsbawm — descrive il «secolo breve» (dalla Rivoluzione russa nel 1917 al crollo del comunismo nel 1989) come un'«epoca di estremismi». Questo racconto piuttosto deprimente – o quanto meno disincantato – degli avvenimenti trova eco nell'opera di alcuni giovani storici: si veda come esempio rappresentativo Mark Mazower, che ha intitolato la sua cronaca europea del ventesimo secolo Le ombre dell'Europa.

Il problema con queste sintesi, altrimenti credibili, di un triste passato è proprio il fatto che aderiscono troppo fedelmente alla maniera in cui le persone hanno vissuto gli avvenimenti. Il periodo comincia con una guerra mondiale catastrofica e finisce con il crollo della maggior parte dei sistemi di credenze dell'epoca: non può certo attendersi un trattamento affettuoso a posteriori. Dai massacri degli armeni alla Bosnia, dall'ascesa di Stalin alla caduta di Hitler, dal fronte occidentale alla Corea, il ventesimo secolo è un incessante susseguirsi di sventure umane e sofferenze collettive dalle quali siamo emersi più tristi, ma più saggi.

E se non cominciassimo con un racconto dell'orrore? A posteriori, ma non solo, il ventesimo secolo ha visto uno straordinario miglioramento delle condizioni generali dell'umanità. Come conseguenza diretta delle scoperte nel campo della medicina, dei mutamenti politici e dell'innovazione istituzionale, la maggior parte delle persone nel mondo ha vissuto più a lungo e condotto vite più sane di quanto chiunque potesse prevedere nel 1900. Era anche, per quanto strano possa sembrare alla luce di quanto ho appena scritto, più al sicuro, almeno per la maggior parte del tempo.

Forse questa può essere considerata una qualità paradossale dell'epoca: all'interno di molti Stati consolidati, la vita migliorò nettamente. Ma a causa di un aumento senza precedenti dei conflitti interni, i rischi associati alla guerra e all'occupazione si moltiplicarono. Da un certo punto di vista, quindi, il Novecento non fece altro che dar seguito ai miglioramenti e ai progressi dei quali si era rallegrato l'Ottocento. Ma da un altro punto di vista, fu un ritorno sconfortante al caos e alla violenza internazionale del diciassettesimo secolo – prima che la pace di Vestfalia (1660) stabilizzasse il sistema mondiale per due secoli e mezzo.

Il significato degli avvenimenti allorché si verificavano appariva molto diverso ai contemporanei rispetto a come lo vediamo adesso. Può sembrare ovvio, ma non lo è. La Rivoluzione russa e la successiva espansione del comunismo verso est e ovest crearono una narrazione necessariamente convincente in cui il capitalismo era destinato a essere sconfitto – nel futuro prossimo, oppure in un momento non meglio specificato dell'avvenire. Non sembrava affatto improbabile, neanche a coloro che disperavano di fronte a tale prospettiva, e le sue implicazioni hanno dato forma all'epoca.

Fin qui è abbastanza semplice da capire – il 1989 non è così lontano da farci dimenticare quanto plausibile apparisse a molti la prospettiva comunista (almeno finché la sperimentarono). Ciò che abbiamo completamente dimenticato è che negli anni tra le due guerre l'alternativa più credibile al comunismo non era l'Occidente capitalista e liberale, ma il fascismo – in particolare nella sua espressione italiana, che dava risalto alla relazione tra governo autoritario e modernità, rifiutando (fino al 1938) il razzismo della versione nazista. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, c'erano molte più persone di quanto oggi ci piaccia pensare, per le quali la scelta che contava era tra il fascismo e il comunismo – e il fascismo era un candidato forte.

Poiché entrambe le forme di totalitarismo sono ora defunte (a livello istituzionale, se non intellettuale), facciamo fatica a ricordare un periodo durante il quale erano molto più credibili delle democrazie costituzionali per le quali nutrivano comune disprezzo. Da nessuna parte c'era scritto che queste ultime avrebbero conquistato il favore popolare, tanto meno vinto la guerra. In breve, pur avendo ragione a pensare che il ventesimo secolo sia stato dominato dalla minaccia della violenza e dall'estremismo ideologico, non possiamo comprenderne il senso a meno di accettare che molte più persone di quante ci piaccia immaginare ne erano state attratte. Che il liberalismo a un certo punto sarebbe emerso vittorioso – se pur in larga misura grazie alla sua ricostruzione su fondamenti istituzionali molto diversi – fu uno degli sviluppi veramente inattesi dell'epoca. Il liberalismo – come il capitalismo – si rivelò sorprendentemente adattabile: perché sia andata così è uno dei temi principali del nostro libro.

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