Autore Geert Lovink
Titolo L'abisso del social media
SottotitoloNuove reti oltre l'economia dei like
EdizioneEGEA, Milano, 2016, Frontiere , pag. 272, cop.fle., dim. 15x21x2 cm , Isbn 978-88-8350-241-5
OriginaleSocial Media Abyss [2016]
TraduttoreBernardo Parrella
LettoreGiangiacomo Pisa, 2017
Classe media , sociologia , movimenti , scienze sociali , informatica: reti , informatica: sociologia , informatica: politica












 

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Indice


Introduzione. Prepararsi a partenze insolite                      VII

Ringraziamenti                                                  XXVII


1.  Qual è il sociale dei socia) media?                             1

2.  Dal clamore dei social media al sovraccarico d'informazione    19

3.  Il mondo oltre Facebook: l'alternativa di Unlike Us            35

4.  Ermes sull'Hudson: la teoria dei media dopo Snowden            51

5.  Il modello d'impresa su internet: un'esperienza personale      67

6.  Il progetto MoneyLab: dopo la cultura libera                   85

7.  Per poter vivere, Bitcoin deve morire                         109

8.  Netcore in Uganda: l'esperienza di i-network                  133

9.  Jonathan Franzen come sintomo: il rancore contro internet     157

10. Urbanizzazione come verbo: la mappa non è la tecnologia       187

11. Frammenti di critica della rete                               211

12. Occupy e le politiche delle reti organizzate                  235


Bibliografia                                                      267


 

 

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Pagina VII

INTRODUZIONE
_________________________________________________
PREPARARSI A PARTENZE INSOLITE



Sloganismo: «L'inizio è vicino» (Anonymous) - «Internet somiglia a una rivista trash. La prendo in mano automaticamente nella sala d'attesa del dentista. Θ irresistibile eppure insignificante» (Johanna DeBiase, Pump and Dump) - «Non dovremmo aspettarci cambiamenti duraturi dai giornalisti» (John Young) - «Ma l'ho letto su Facebook!» - «Il tuo peggior nemico non è la persona che ti sta di fronte, ma quella che occupa il posto che faresti di tutto per avere e se ne sta lì a impoltrire» (Georgie BC) - «Gli artisti sopravvivono facendo qualcos'altro» (X) - «Se vuoi trovare l'ago nel pagliaio, prima devi avere un pagliaio» (Dianne Feinstein) - «Tutto quello che è aria si solidifica in istituzioni fossilizzate» - «Indossa la faccia migliore di LinkedIn» (Silvio Larusso) - «La gran parte delle citazioni profetiche che mi sono state attribuite su internet sono robacce che non ho mai affermato» (Albert Einstein - Leggeva soltanto pubblicazioni di scarso impatto) - «Non esiste nessun pranzo gratis, nessun motore di ricerca gratuito, nessun sito web per la mail o servizio di cloud gratuiti» (Mikko Hypponen) - Cyberspazio: la dimora della verità senza senso - «Abbiamo tutti un bel piano prima di beccarci un pugno in bocca» (Mike Tyson) - «A questa conversazione manca la tua voce» (Vimeo) - «Finanziati da solo» (Get Real) - «L'internet dei teppisti» (Christian McCrea) - Teoria operativa della quotidianità catastrofica - «Accelerate l'uscita: le politiche del sistema migratorio» (titolo di un e-book).


L'abisso dei social media descrive la drastica riduzione di un orizzonte, dallo spazio illimitato che una volta definiva internet fino all'odierna manciata di social media. In questa recessione globale, i giganti dell'info-tech come Google e Facebook hanno perso l'innocenza originaria. Gli attuali modelli di governance non possono più contare sul consenso necessario per operare. Dopo Snowden, la Silicon Valley appare profondamente compromessa, intenta a facilitare lo stato di sorveglianza e a rivendere i dati personali dei suoi clienti. Per la prima volta, si ritrova a dover affrontare ondate di attivismo, da WikiLeaks, Anonymous e Snowden alle proteste contro gli autobus di Google, e contro Uber e Airbnb. La marea si è infranta, e a mano a mano che aumentano le negazioni di questa cultura di internet, le controversie vanno tramutandosi in aperti conflitti. Oggi sono in molti a considerare il meme della «sharing economy» nient'altro che un imbroglio. L'ovvia ideologia californiana non funziona più. Trascorsi due decenni dalla pubblicazione dell'omonimo saggio, l'egemonia dei libertari, una volta così potenti, viene finalmente messa sotto accusa — ma cosa arriverà a sostituirla?

Per affrontare la questione sono partito dalle architetture dei social media e dai modelli di business online per arrivare alle questioni organizzative: in che modo i movimenti di protesta, da Occupy a Bangkok, possono prolungare la loro presenza e le loro interconnessioni? Riusciranno questi movimenti a trasformarsi in partiti politici oppure a prevalere sarà l'approccio decentralizzato di stampo anarchico? Sembra di essere tornati allo scenario post-1848. Siamo forse in attesa della nostra versione della Comune di Parigi? Eppure l'attuale stagnazione, interrotta da ondate di dissenso, sembra indicare che ci troviamo in un periodo post-rivoluzionario, dove l'antico regime ha perso ogni legittimità mentre le forze d'opposizione sono ancora alla ricerca di una struttura organizzativa.

All'indomani delle rivelazioni di Snowden, gli utenti di internet si ritrovano in quella situazione di tensione che la pragmatica classe di ingegneri, finora incaricati di assicurarne la gestione, ha sempre cercato di evitare. Siamo tutti sotto sorveglianza, ma presumibilmente non c'è nulla da temere. Gli ultimi anni hanno visto il consolidamento dei social media, mentre il trend generale vede il passaggio dal pc allo smartphone e dai mercati consolidati a quelli emergenti. Il pathos di questa fase potrebbe essere espresso affermando che «internet si è rotto», ma la presa d'atto della sconfitta viene sintetizzato al meglio dalla massima «abbiamo perso la guerra», perché non si sa chi possa ripararlo e come ricostruirlo in modo migliore. Quel genuino tecno-ottimismo tipico dei geek maschi e bianchi — secondo cui l'internet libero e aperto, tenuto insieme dai codici come Linux, continuerà comunque a perseverare — è stato sostituito dalla versione digitale del capitalismo basato sul monopolio di stato, come ebbe a definirlo Lenin. L'età dell'innocenza centrata sul consenso della dottrina del laissez faire è decisamente e veramente qualcosa del passato. Θ lecito aspettarsi che l'infrastruttura del capitalismo venga considerata sufficientemente importante da non essere lasciata alla mercé di un branco di pirati?




L'arrivo del capitalismo-piattaforma


Se gli anni Ottanta hanno portato alla luce la teoria dei media e gli anni Novanta sono stati il decennio delle reti, oggi subiamo il fascino della piattaforma. Come indicano questi stessi termini, la tendenza è quella di spostarsi verso l'alto, e quindi di centralizzare, integrare e sintetizzare. Mentre l'ideologia della rete ne enfatizzava la natura decentralizzata, la cultura della piattaforma annuncia con orgoglio che la Famiglia dell'Uomo ha finalmente trovato la sua dimora comune. In un saggio del 2010, Tarleton Gillespie propone una chiara sintesi dei vari motivi che hanno fatto emergere il concetto di piattaforma all'indomani dello scoppio della bolla dot.com nel 2000. Secondo Gillespie, il termine «piattaforma» venne scelto in maniera strategica per indicare le contraddittorie attività dei servizi online come terreno neutrale per gli utenti interessati al fai-dai-te e per i maggiori produttori di contenuti, ponendo in rotta di collisione la privacy e la sorveglianza, la comunità e gli investimenti pubblicitari. «Piattaforma» suggerisce altresì l'integrazione in una sintesi superiore di e con soggetti diversi, tramite una varietà di applicazioni.

Immaginiamo di avere un'avversione generalizzata. I riformatori positivi faranno di tutto per impedirci di esplorare le forze sotterranee dell'emancipazione negativa. La forza della critica viene rapidamente liquidata come «estremista» (quando non terrorista). La paura della folla che bruscamente smette di seguire fa tornare alla memoria gli antichi traumi di folle violente e populiste — e questa paura a livello di (auto)governo rimane inalterata nell'epoca del capitalismo della piattaforma. Dove andranno a finire le amorfe energie collettive dopo che avremo surriscaldato internet? Perché è così arduo immaginare un mondo in cui ogni piattaforma o «intermediario», quali Google, Facebook e Amazon, sia stata smantellata, non soltanto quelle più datate bensì anche, e soprattutto, le più recenti e accattivanti?

Insieme a molti altri, propongo una teoria critica degli intermediari di natura tecnica, culturale ed economica. Nel saggio intitolato Digital Tailspin, il critico berlinese Michael Seemann fa appello alla «neutralità della piattaforma», pur tenendo a mente le lacune associate con il termine neutralità e sostenendo altresì la «sovranità del filtro» come nuova forma di etica dell'informazione. Sul fronte positivo, Seeman riconosce che «la caratteristica più importante di queste piattaforme sta nei loro potenziali effetti di attivare reti illimitate e molteplici». Nel dibattito sui social media è urgente andare oltre la cultura della lamentela, intrinseca nell'enfasi borghese sulla perdita della privacy. Comprendere meglio l'economia politica dei dati personali è una cosa (utile), e tuttavia potrebbe davvero succedere che ciò non riesca a tradursi automaticamente in un programma politico. Per Seemann, la «perdita di controllo» è un importante punto di partenza per ricontestualizzare il quadro, così da ideare strategie di tipo nuovo. «Il modo più efficace di liberarsi dalla dipendenza dalle piattaforme è costruire piattaforme decentralizzate». Per un certo periodo, WhatsApp è parsa un'alternativa in tal senso, come rifugio nei confronti di Facebook, finché non è stata acquistata da quest'ultimo.

Negli ultimi anni sono stati fatti alcuni tentativi, finora senza gran successo, di lanciare i platform studies come disciplina a sé stante. Ci vorrà ancora parecchio per mettere a punto una teoria esauriente del «capitalismo delle piattaforme». A vent'anni dalla classica trilogia di Manuel Castells sulla network society, riuscirà la platform society a raggiungere il grande pubblico di Thomas Piketty oppure di Naomi Klein? Mentre internet è pienamente integrato nella società, non si può dire altrettanto della produzione accademica in questo campo. In parte ciò è dovuto a certe problematiche istituzionali. Gli internet studies vengono ancora posizionati all'interno di dipartimenti affermati e non è stato consentito di trasformarsi in una disciplina autonoma né di essere entusiasticamente ripresi da altre discipline. Tuttavia, dopo 25 anni, questo campo continua a svilupparsi assai rapidamente, rendendo difficile per gli accademici seguirne gli aggiornamenti in maniera adeguata. Il loro ruolo si limita così a misurare gli effetti dell'avanzare dell'info-tech in una quantità sempre maggiore di settori.

Nell'odierna fase di monopolio, i mercati non sono altro che una finzione e un mero sistema di credenze per estranei disorientati e confusi. Con Wall Street, Silicon Valley e Washington che convergono invece di farsi concorrenza (come proclama tuttora la versione ufficiale), il potere in quanto tale si sta trasformando in una scatola nera, e l'algoritmo ne è l'allegoria perfetta. Gli algoritmi hanno delle conseguenze , come ha descritto Zeynep Tufekci con grande precisione. Le sue analisi sulle proteste avvenute nel 2014 a Ferguson, in Missouri, chiariscono la relazione decisamente contingente tra il filtraggio operato dall'algoritmo di Facebook e il rapporto politico di causa ed effetto, l'impossibilità di applicare le norme sulla neutralità della rete in periodi crisi e la logica strana e incomprensibile alla base di ciò che è e ciò che non è popolare su Twitter.

La digitalizzazione e il networking di ogni settore della vita odierna non accennano a rallentare; ci sono ancora molti contesti «innocenti» e sotto-mediati. Quel che tuttavia preoccupa non poco è l'oscuramento della tecnologia, come descrive assai accuratamente Frank Pasquale nel libro The Black Box Society. L'obiettivo degli studi critici sulla rete, per come vengono portati avanti dall'Institute of Network Cultures di Amsterdam, è andato focalizzandosi su specifici servizi online, tra cui i motori di ricerca, i social media, Wikipedia e i video online. Ma cosa è risultato da queste indagini? Non è che forse ci si limita a risistemare le sedie a sdraio sul Titanic destinato ad affondare? Qual è lo stato della teoria critica alla luce del crescente divario tra le discipline sociali e quelle umanistiche? Possiamo forse confidare nel fatto che la creazione di strumenti nuovi e alternativi sia il modo più efficace per mettere in discussione le piattaforme odierne?

Che sia giunta l'ora del nostro «termidoro» nello sviluppo di internet risulta chiaro anche dalla tecnologia definita con il termine clickbaits (esche digitali): quando una pagina web posta link con titoli accattivanti per incoraggiare l'utente a cliccarvi sopra così da saperne di più, senza offrire ulteriori dettagli sui contenuti successivi. Questa è stampa tabloid 2.0, Gleichschaltung su scala globale. Scopo di questa tecnologia è stimolare curiosità per un genere amorfo. Non si tratta esattamente di notizie, anche se si presentano come tali, essendo formalmente e tecnicamente disseminate tra vari siti d'informazione e social media. Comunque la tecnologia clickbait sembra destinata a sparire, poiché oggi il pubblico online ha capito che si tratta di una tecnica ambigua e finalizzata a incrementare le entrate delle inserzioni online, e le testate mediatiche dovranno presto ricorrere ad altri stratagemmi per attirare gli utenti. Esiste anche una versione Facebook della medesima tecnologia. Ci si è accorti che Facebook ha iniziato a penalizzare le pagine «che pubblicano ripetutamente gli stessi contenuti per incoraggiare il like-baiting, quando cioè un post chiede direttamente a chi legge i news feed di assegnare il "mi piace", commentare o condividere tale post». Nel frattempo le notizie sull'attualità globale sono diventate completamente interattive. Prendiamo il software Taboola, una sorta di aggregatore grazie al quale l'amministratore di un sito può rifinirne al meglio i contenuti. Come spiega lo stesso fondatore: «Anche se qualcuno detesta un certo contenuto, tanti invece l'apprezzano e lo cliccano. Così lo registriamo come un pezzo popolare e lo lasciamo in modo che molti altri possano vederlo. Se invece nessuno lo clicca né lo rilancia su Twitter, ci basta toglierlo dall'elenco dai link proposti».

Recentemente abbiamo assistito alla trasformazione culturale del tipico utente online, da soggetto attivo e autocosciente a soggetto docile e ignorante come un servo. In una variante di quanto scrive Corey Robin sui conservatori, potremmo dire che ci dispiace per questi utenti di internet e che li identifichiamo come vittime. Nell'immaginazione collettiva, l'utente è passato dall'altra parte, tramutandosi da cittadino autonomo e responsabile a perdente senza speranza. Oggi il genere del nostro coinvolgimento è quello della tragedia, ma non siamo sicuri quale sia la trama, le ripetizioni o le storie (si veda Franzen ) che vi si applicano. Gli utenti appaiono contemporaneamente offesi, convinti della giustezza della loro causa e dell'improbabilità di un eroico trionfo. Che sia ricco, povero o una via di mezzo, quest'utente è uno di noi. Ma perché quel che appare incontrovertibile nell'attuale sconfitta dovrebbe dar luogo all'umiltà? La pietà è incompatibile con la dignità. Riuscirà l'utente a riappropriarsi del suo destino in questo «mondo amministrato», riprendendo la terminologia dall'universo di Adorno e Horkheimer? Ciò sarà possibile soltanto procedendo allo smantellamento dell'infrastruttura della sorveglianza. In modo analogo alla minaccia nucleare durante la guerra fredda, oggi è venuto chiaramente allo scoperto il diffuso ricorso a videocamere, bot, sensori e software, come emerso, per esempio, nelle rivelazioni di Snowden. Solo quando questa tecnologia sarà smantellata e neutralizzata la paura collettiva potrà dissiparsi. Un primo passo in questa direzione sta nel «rendere visibili le cose», che è poi quanto stanno facendo Poitras, Greenwald, Appelbaum, Assange e tanti altri. Si tratta della strategia di Berlino attualmente in corso: creare una massa critica di organizzazioni non-profit di tecno-intelligence per importunare implacabilmente la mente borghese con un flusso ininterrotto di rivelazioni.




Silicon Realpolitik


«La guerra è vita, pace è morte» è uno degli slogan orwelliani presenti nella parabola della Silicon Valley proposta da Dave Eggers nel romanzo The Circle. Quale ruolo svolgono simili argomentazioni in quest'epoca di consolidamento monopolista? Nell'era digitale della totale integrazione sono scomparsi i vecchi colossi industriali da abbattere. I baroni odierni vivono a Mountain View e se ne stanno alla larga da guerre e occupazioni imperiali. Al posto dell'immagine di una Bay Area industriale come tecno-evoluzione fortuita di Whole Earth, oggi mutata, cooptata e corrotta, vorrei proporre una diversa lettura della Silicon Valley in quanto degenerazione del conservatorismo libertario, nella direzione opposta alla sua realizzazione. Qui la mia guida è The Reactionary Mind di Corey Robin. Le sue tesi ci costringono a rivedere l'idea di una Silicon Valley frutto di hippy rinnegati che hanno tradito gli ideali progressisti, per riconoscerne piuttosto le concezioni reazionarie, prodotto di menti crudeli, ma innocenti, mirate a rafforzare ulteriormente il potere dell'1 per cento conservatore. I veri hippy sono andati in pensione tanto tempo fa. Θ stato facile cancellarne l'eredità. Questa prospettiva ci offre invece la libertà di rileggere l'era del dot.com come una «fibra morale indebolita», dominata da uno «spirito marziale perduto». Per come lo descrive Robin, il problema della società borghese sta nella sua mancanza d'immaginazione. «La pace è piacevole, e piacere equivale a soddisfazione momentanea». La pace «cancella ogni memoria di accesi conflitti e robusti disaccordi, il lusso di definirci in virtù di chi avevamo contro». Una volta che la Silicon Valley ha perso la sua innocenza, ci vuole un po' di tempo per rendersi conto che ora si sta preparando per la guerra e il conflitto.

Contrariamente alla maggior parte dei think-tank di base a Washington, la Silicon Valley fa i calcoli con, e non contro, l'Apocalisse. Il suo slogan, sempre implicito, è: «Fatevi sotto». Parlando dei neo-con, Robin scrive che «diversamente dal loro obiettivo finale, se mai ne hanno uno, esiste un confronto apocalittico tra bene e male, civilizzazione e barbarie — categorie di conflitto pagano diametralmente opposte alla visione di un mondo senza confini tipica dell'élite americana del libero commercio e della globalizzazione». Un aperto conflitto che è assente nella Silicon Valley. La spiegazione sta tutta nella super-identificazione di Google con il vecchio slogan, poi abbandonato, Don't be evil. Contro questa mentalità iniziale, intenzionata a fare del bene, dobbiamo poter abbracciare la mentalità del guru del venture capital, Peter Thiel, propenso a pensare con il male e uno dei pochi a parlare apertamente delle tendenze autistiche dell'élite high-tech. Nel suo libro From Zero to One, Thiel formula quattro regole per le start-up: «1. Meglio rischiare di essere audaci piuttosto che banali. 2. Un progetto vago è sempre meglio di nessun progetto. 3. I mercati competitivi distruggono i profitti. 4. Le vendite sono importanti tanto quanto il prodotto». Per aver successo, le aziende devono rimanere «snelle», termine in codice per intendere l'assenza di pianificazione. «Meglio non sapere quello che farà la vostra azienda; ogni pianificazione è arrogante e inflessibile. Invece si dovrebbe sperimentare. Bisogna insistere con l'iterazione e trattare l'imprenditoria come un'agnostica sperimentazione». Tutto ciò vale per la logica dell'economia bellica, centrata su un distaccato cinismo che disprezza l'ingenuo idealismo dei sostenitori del libero mercato.

Peter Thiel rimprovera pubblicamente la concezione hobbesiana dello status quo, mentre Frank Pasquale, pur giungendo a conclusioni analoghe, propone un nuovo realismo sociale. Con l'indebolimento della competizione e l'accelerazione della cooperazione, «oggi la gran parte delle start-up punta a entrare nella scuderia di aziende quali Google oppure Facebook, non certo a prenderne il posto. Anziché limitarci a sperare in una competizione che rischia di non materializzarsi, dobbiamo assicurarci che la naturale monopolizzazione nei settori dei motori di ricerca online e dei social network arrivi a un costo troppo alto per il resto dell'economia». La scheda di presentazione del libro di Julian Assange, Quando Google ha incontrato WikiLeaks, sintetizza come segue le prospettive radicalmente opposte che separano l'hacker whistleblower Assange e il presidente di Google, Eric Schmidt: «Per Assange, il potere liberatorio di internet si fonda sulla sua libertà e sull'indipendenza da qualsiasi nazione; per Schmidt, l'emancipazione coincide con gli obiettivi della politica estera statunitense e punta a collegare i paesi non occidentali alle imprese e ai mercati occidentali».




Un rapido aggiornamento sull'attenzione


Passiamo ora a esaminare la produzione degli internet studies negli ultimi anni. Lasciando da parte i soliti tecno-ottimisti e i guru del marketing della Silicon Valley, sono due le traiettorie che meritano di essere segnalate. L'approccio americano — rappresentato fra gli altri da Nicholas Carr , Andrew Keen e Jaron Lanier , che sono soprattutto autori commerciali, non accademici, con l'eccezione di Sherry Turkle — critica i social media per la loro superficialità: gli scambi brevi e rapidi all'interno di circoli auto-gratificanti (che possono avere effetti anche sul cervello, come cerca di dimostrare Carr) finiscono per provocare solitudine e difficoltà di concentrazione. Più recentemente, Petra Lφffler della Bauhaus University di Weimar ha aggiunto una prospettiva storica europea a questi timori, nel suo studio sul ruolo della distrazione nelle opere di Walter Benjamin e Siegfried Krakauer. Il caso discusso più avanti, sul «risentimento della rete» di stampo europeo professato dallo scrittore americano Jonathan Franzen , fa parte di queste posizioni. Gli studi critici su internet non possono far finta di esistere al di fuori di queste preoccupazioni concrete sul sovraccarico d'informazione, sul multitasking, sulla perdita di concentrazione e le relative analisi , come quelle condotte da studiosi quali Trebor Scholz e Melissa Gregg. Tuttavia, a volte fa bene dimenticare simili ansie per concentrare l'attenzione sulle radici di fondo che sottendono alle frenetiche sequenze temporali dei social media.

Diversamente dall'approccio moralista proposto dalle grandi testate statunitensi, gli studiosi europei, tra cui Bernard Stiegler , Ippolita , Mark Fisher, Tiziana Terranova e Franco Berardi (e anche il sottoscritto), rimarcano il più ampio contesto culturale ed economico (e la crisi) del capitalismo digitale, con l'annessa produzione di effetti «farmacologici» (che rimandano direttamente all'auto-regolazione tramite le medicine). Secondo questi autori, c'è bisogno di un approccio articolato per non cadere vittime della semplice rassegnazione a un «romanticismo offline» – posizione assunta fin troppo facilmente quando ci accorgiamo di non poter stare al passo e la routine prende il sopravvento. Le politiche di internet, compresa l'estetica del suo interfaccia, dovrebbero andare oltre l'allenamento mentale proposto da Peter Sloterdijk , scacciando via le tentazioni della tecnologia grazie a specifiche routine per cambiare vita. Le ricette terapeutiche devono sempre combinarsi con una presa di posizione economico-politica sulla finanziarizzazione dell'economia, sugli effetti della disponibilità 24 ore su 24, sulle infrastrutture invisibili e sul ruolo del surriscaldamento globale, mentre lavoriamo attraverso il digitale.

Prescindendo da sentimenti e risentimenti personali contro una tecnologia che ci sommerge sotto una mole impressionate di dati, come ci comporteremo quando, citando David Weinberger , sarà «tutto troppo grande per sapere qualcosa» e neppure le immagini attraenti ma superficiali delle informazioni visualizzate potranno fornirci semplici risposte? Che si voglia sostenere le esigenze dell'industria nord-americana oppure la teoria europea, l'attuale scarsità nella produzione di studi critici sulla distrazione e la disciplina della forza lavoro può significare soltanto che questo quadro è destinato rimanere tale. Pur se non va escluso l'emergere intermittente di qualche meme morale, per esempio la possibilità che dare una sbirciatina allo smartphone in pubblico divenga improvvisamente una pratica poco educata.

Un autore che finora è riuscito a evitare produttivamente la tesi del sovraccarico d'informazione è Evgeny Morozov. Nel suo libro del 2013, Internet non salverà il mondo, ci offre una teoria generale che si lascia alle spalle ogni analisi superficiale sulla rappresentazione e sui media. Elemento centrale della sua critica è la tattica di marketing dell'info-tech che egli definisce «soluzionismo». La riduzione dei costi e la disruption sono divenuti obiettivi (e industrie) in quanto tali, che possono essere (e saranno) applicati a ogni campo della vita quotidiana. Dopo il suo primo libro sulla politica estera statunitense e il programma sulla «libertà di internet» lanciato dall'ex segretario di stato Hillary Clinton, Morozov estende le sue analisi al sistema di assistenza sanitaria (il sé quantificato), alla logistica, alla moda, all'istruzione, alla mobilità e al controllo degli spazi pubblici. Ci mette in guardia sul fatto che la tecnologia non potrà risolvere i problemi sociali, spingendoci a farlo autonomamente. Mostrando scetticismo sulla natura umana, il suo messaggio è che i programmatori dovrebbero tener conto della complessità delle usanze e delle tradizioni umane e smetterla di lanciarsi in affermazioni pericolose.

All'inizio del 2015, Morozov ha proposto un interessante cambiamento di tattica. In un'ampia intervista per il bimestrale britannico New Left Review, la proprietà dell'infrastruttura dell'info-tech viene presentata come un fattore chiave: «Socializziamo i centri di elaborazione dati!», «Metto in discussione l'esistenza di una stessa entità per la gestione e la proprietà sia dell'infrastruttura sia dei dati da questa veicolati, poiché non credo sia possibile accettare il fatto che tutti questi servizi vadano erogati dal mercato siano soltanto successivamente regolamentati». Scartando i tentativi delle autorità europee di regolamentare Google, passa poi a spiegare l'inutilità di un algoritmo di ricerca europeo. «Google continuerà a dominare il settore fintanto che i suoi rivali non avranno lo stesso livello di dati sugli utenti che controlla. L'Europa potrà avere qualcosa da dire soltanto riconoscendo che tali dati, e l'infrastruttura che li produce (sensori, telefoni mobili, e così via), stanno diventando gli elementi chiave per quasi ogni settore dell'attività economica». Il motivo per cui l'Europa non può fare granché contro questa dipendenza dalle aziende americane sta nel fatto che queste misure «andrebbero direttamente contro ciò che l'Europa neoliberista di oggi rappresenta». Morozov suggerisce che a nessuna azienda andrebbe consentito di possedere i dati personali. «Ai cittadini va garantita la proprietà dei propri dati, senza possibilità di rivenderli, in modo da promuovere una maggiore pianificazione comune della propria vita».




Internet come inconscio tecno-sociale


Divenuta un'infrastruttura generale per qualsiasi cosa, oggi internet sta entrando nella fase di maturità. Non è la «reificazione» il problema dei social media; mentre la «razionalizzazione» non riesce a catturare le insidiose sfide che si nascondono nei processi dietro le quinte del nostro tempo. Come sostiene Franco Berardi in The Uprising, «nell'epoca digitale il potere sta tutto nel rendere facili le cose». Lasciandosi alle spalle l'età moderna dell'istruzione di massa e dei compromessi di classe, operando sotto l'ombrello dello stato sociale e della guerra fredda, la datificazione e la finanziarizzazione vanno imponendosi come i due volti della società del controllo neoliberista. Ci deve essere una «ragione universale del digitale», ma in cosa consiste esattamente? In assenza di un piano o di una decisione, il digitale si presenta come la nuova norma generale, confortevole eppure indiscussa. Non c'è più nulla da verificare, niente da vedere (a parte qualche gatto carino). Gli sprovveduti utenti della nuova scuola, tutti presi dalle faccende quotidiane, hanno installato le varie app, creato un account, fatto l'accesso e aderito ai termini e alle condizioni d'uso, per entrare così nel mondo della fluidità. Benvenuti nel regime dei comfort liminali, l'insostenibile leggerezza delle carte di credito, del cliccare e del «mi piace».

Ecco allora la tesi di fondo di questo libro: la sfida di domani non riguarda l'onnipresenza di internet bensì la sua stessa invisibilità. Per questo l'immagine del Grande Fratello è il contesto sbagliato. I social media sono tutt'altro che macchine mostruose. Θ l'occhio dolce dello schermo lo spettacolo che riesce a distrarci così facilmente. Il controllo della mente è più sottile e non si rapprende in immagini e oggetti esemplari. I social media raccolgono influenza nello sfondo. Abbiamo bisogno di una nuova generazione di tecno-psicoanalisti per aggiornare radicalmente la disciplina ormai scomparsa della «psicologia di massa» da Freud e Canetti in avanti, per trovare una spiegazione a questi nuovi stati di inconscio collettivo. A loro volta queste introspezioni andrebbero accoppiate con una serie altrettanto nuova di sociologi capaci di analizzare a fondo l'astrazione del lavoro (dovuta alla digitalizzazione e all'automazione). Come allontanare la sociologia dai big data perché possa tornare a fornire contributi alla teoria critica? C'è forse bisogno di una nuova Methodenstreit oppure è possibile ribaltare in qualche altro modo questa regressiva ossessione dell'analisi quantitativa? Inutile aggiungere che la nostra scienza espressionista deve lasciarsi alle spalle la sua condizione difensiva e depressiva. Un modo per riuscirci sta nel procedere alla radicale rivalutazione della «teoria francese» e della meccanicità con cui si è applicata la teoria nel recente passato. Va benissimo sognare gli sciami e proclamare la moltitudine in rete (e mettere in guardia sui suoi lati oscuri), ma è parimenti importante progettare nuove forme di socialità capaci di sfruttare tali energie, per esempio, in «piattaforme di consapevolezza collettiva» che enfatizzino le collaborazioni a lungo termine rispetto alle riunioni spontanee una tantum. La forza dei concetti che vengono implementati e iniziano a vivere di vita propria rimane comunque imminente, e non mancano certo gli esempi, alcuni presenti anche nel libro.

Dove possiamo trovare i compagni con cui lavorare e vivere insieme, a cui voler bene e di cui prenderci cura? Come poter immaginare nuove forme organizzative sia orizzontali sia verticali, dotate di un braccio esterno e di una ricca struttura interna? Siamo pronti per siti di appuntamenti di stampo politico e per i segnali social iperlocali? Che cosa è un «mi piace» che abbia conseguenze tecniche? Come passare dal semplice «clic-tivismo» tipo Avaaz a organizzazioni locali scalabili, capaci di rispondere a eventi improvvisi pur avendo progetti a lunga scadenza? Come potrebbe esplicitarsi la solidarietà peer-to-peer? Questo il motivo per cui il periodo 2009-12 di Anonymous, accuratamente descritto da Gabriella Coleman, rimane così profondamente sovversivo e ispiratore, nonostante tutti i tragici errori e tradimenti che hanno portato alle pesanti condanne per Barrett Brown e altri. Perciò la domanda «cosa ci resta da fare?» non riguarda soltanto come affrontare i leader mondiali durante i loro summit, bensì anche come progettare una sensibilità digitale in grado di dar vita a coinvolgimenti diretti e continuati con altri individui ancora sconosciuti.

Inoltre, come scrive Michael Seemann: «L'approccio decentralizzato funziona soltanto in presenza degli "open data". Soltanto per questi ultimi è possibile la ricerca centralizzata evitando al contempo ogni appropriazione indebita». Θ forse il «web confederato» un'alternativa sostenibile alla strategia della centralizzazione dello status quo? E cosa s'intende esattamente con questo termine? Ovviamente la federazione è un concetto politico di vecchia data che indica la volontaria associazione in una più ampia unità statale. Nel contesto di internet, ciò va oltre le connessioni dirette, peer-to-peer, per affrontare le questioni dei protocolli e della governance. Ma è possibile prevedere anche una confederazione di capacità? Quando mettiamo insieme dati da fonti diverse per integrarli nel browser ci opponiamo alla logica dei dati centralizzati nei silos. Potrebbe forse essere questa una risposta efficace a fronte dell'incontrastata proliferazione dei centri di elaborazione dati? Θ fin troppo facile liquidare quest'approccio come una veloce soluzione tecnica. La proposta di Smari McCarthy di Engineering Our Way Out of Fascism, riprendendo il titolo di un suo intervento pubblico del 2013, andrebbe considerata un serio contributo strategico. Qui il fascismo viene definito come «la perfetta unione tra stato e imprenditoria», e oggi le questioni relative all'organizzazione politica sono di natura tecnologica. Quanti polemizzano con Machiavelli, Hobbes, Hegel o Schmitt, replicano i problemi delle élite al potere e implicitamente vorrebbero sostituire i movimenti sociali e loro dinamiche con un entità più alta (il Partito) capace di controllare e coordinare il dissenso politico.

La tecnologia è sempre politica; mentre ciò può ottenere un certo consenso, è difficile immaginare che la politica abbia una natura tecnica. Siamo attratti dalla purezza dei regni separati dell'intrigo, dove vigono interessi contrastanti e giochi di potere, anziché metterci di fronte all'eredità di Albert Speer: noi, i programmatori, siamo hacktivisti e geek; il tecnocrate è sempre l'altro.

Dobbiamo passare dall'economia dell'attenzione al web delle intenzioni. La strategia dovrebbe essere quella di cristallizzare il sociale tramite «network with consequences». Le attuali architetture dei social media catturano a malapena il valore (dalla prospettiva commerciale). Monitorano gli eventi e trasformano le notizie in beni di consumo (senza produrle) per pubblici le cui preferenze possano essere vendute al miglior offerente. Θ l'astrazione il nostro buco nero. La soluzione qui proposta è quella dei gruppi di utenti mirati (anche noti come reti organizzate), capaci di operare al di fuori dell'economia del «mi piace» e dei suoi deboli link. Mutuo soccorso al di fuori dell'industria del raccomandato o consigliato. Condivisione al di fuori di Airbnb e Uber. Θ possibile un rinascimento cooperativo su internet. Non dovremmo liquidare i molti tentativi di progettare software generalista e i relativi linguaggi per le macchine, perché sono queste le uniche strategie affidabili contro gli intermediari monopolisti. Saremo chiamati a definire una seducente integrazione tra federalismo e «ri-decentralizzazione», a celebrare l'estetica del collettivo e a sviluppare gli strumenti atti a codificare i principi che apprezziamo nella società. Ciò sarà possibile soltanto quando diremo addio alle procedure gratuite e integrate della contro-monetizzazione a ogni livello, in modo che il dono tornerà nuovamente a imporsi come gesto prezioso, non in quanto opzione predefinita, ambigua e nascosta. Per arrivarci dobbiamo prima riconquistare il network come forma distinta e differente dal gruppo di lavoro, dal partito e dalle vecchie gerarchie all'interno di aziende, eserciti e organizzazioni religiose. Quale è la relazione tra la rete come pratica sociale e le cooperative come strutture legali? Θ grazie a questo tipo di pensiero strategico che potremo liberarci da quel «pessimismo reticolare» perché, secondo Alex Galloway, «non si può sfuggire dalle catene della rete». «Le reti sono una modalità della mediazione, proprio come qualsiasi altra», conclude Galloway. E allora, analizziamo da vicino le imprevedibili possibilità organizzative che abbiamo davanti, all'interno e all'esterno della rete. Cerchiamo di riposizionarci ai suoi margini, per considerare così le reti come nuove forme istituzionali.

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In realtà il computer è stato sempre un ibrido tra il sociale e il post-umano. Fin dagli albori della loro vita industriale come enormi macchine da calcolo, il fatto di collegare tra loro le diverse unità è stato considerato tanto una possibilità quanto una necessità. In un saggio inedito («La trasformazione delle reti informatiche in reti sociali»), Chris Chesher, teorico dei media residente a Sidney, delinea lo sviluppo storico e interdisciplinare — dalla sociometria e dalle analisi delle reti sociali (risalendo alle radici degli anni Trenta), passando per le ricerche di Granovetter sui «link deboli» del 1973, fino alla network society di Castells (1996) e agli attuali tentativi di mappatura portati avanti dai tecno-ricercatori riuniti sotto l'ombrello dell'Actor Network Theory — di una scienza «offline» che studia le dinamiche delle reti umane. Il salto concettuale più rilevante da afferrare riguarda il passaggio da newsgroup, mailing list, forum e comunità online alla responsabilizzazione acquisita dai singoli individui liberamente connessi in rete. Un passaggio che aveva già preso avvio negli anni Novanta neoliberisti, facilitato dalla maggiore potenza di elaborazione e dalla capacità di memorizzazione del computer e dall'ampiezza di banda di internet, di pari passo alla semplificazione delle interfaccia dei dispositivi mobili di dimensioni sempre più ridotte.

Per affrontare adeguatamente la questione del significato concreto del «sociale» nell'odierno panorama dei social media, un punto di partenza potrebbe essere la sua stessa scomparsa, come postula Jean Baudrillard , il sociologo francese che ha teorizzato la transizione da soggetto a consumatore. Secondo Baudrillard, a un certo punto il sociale ha smarrito il suo ruolo storico per implodere nello scenario mediatico. Se il sociale non è più quel miscuglio pericoloso di una volta, composto da proletari politicizzati, disoccupati e sporchi senzatetto che girano per strada, in attesa della prossima opportunità per ribellarsi sotto qualsiasi bandiera, in che modo si manifestano allora gli elementi sociali nell'era della rete digitale?

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[...] Abbiamo bisogno dei contributi critici prodotti dalle discipline sociali e umanistiche in modo da instaurare confronti con l'informatica su basi paritarie. Le iniziative legate ai software studies saranno forse sufficienti per raggiungere questi obiettivi? Solo il tempo potrà dirlo. Finora le discipline umanistico-digitali, con l'enfasi univoca sulla visualizzazione dei dati e ristrette a studiosi a digiuno d'informatica come vittime innocenti, sono partite col piede sbagliato. Quel che serve non sono altri strumenti per persone ignoranti bensì una nuova generazione di scienze umane integrate con la tecnologia. Sono necessari programmi di ricerca che pongano in primo piano la teoria critica e i cultural studies, gestiti da teorici-programmatori, filosofi e critici d'arte finalmente andati oltre la pittura e il cinema. Al contempo, dobbiamo liberarci dell'atteggiamento remissivo dell'ambito artistico e umanistico nei confronti delle scienze naturali e dei relativi settori industriali. Le discipline umanistiche non dovrebbero sottomettersi in modo masochista al regime digitale. Abbiamo bisogno di un'audace contromossa — che però non potrà materializzarsi finché continueremo a guardare altrove.




Filosofia e cyber-identità


Quale il contributo della filosofia a un simile movimento? Non c'è più bisogno di smontare il soggetto maschio occidentale identico a se stesso per metterlo a confronto con la cyber-identità liberata, ovverosia gli avatar che affollano i mondi dei giochi virtuali. Ecco perché cresce l'urgenza di una teoria postcoloniale e rafforzata dall'info-tech relativa alle reti e alle organizzazioni sociali. Qual è il ruolo degli affetti in questo scenario? Per parlare della teoria in modo diretto, dobbiamo estendere le analisi di Derrida sul soggetto occidentale all'agire non-umano del software (come descritto da Bruno Latour e dai seguaci della sua Actor Network Theory). Soltanto allora potremo comprendere meglio la policy culturale degli aggregatori, il ruolo dimenticato dei motori di ricerca e le infinite guerre sulle revisioni all'interno di Wikipedia.

In accordo con i sociologi, l'enfasi sui big data in quanto «rinascimento del sociale» è chiaramente la «scienza positivista della società». A tutt'oggi, però, manca una scuola critica capace di aiutarci a interpretare adeguatamente l'aura sociale di questo cittadino-utente.

[...]

Come scrive Andrew Keen in Vertigine Digitale (2012), il «sociale» dei social media è innanzitutto e soprattutto un contenitore vuoto. Riprendendo il suo fraseggio esemplarmente vuoto, internet «sta diventando il tessuto connettivo della vita nel XX secolo». Secondo Keen, qui il sociale è il maremoto che spazza via tutto quello che si trova davanti. Egli ci ammonisce sull'eventualità di un futuro anti-sociale, caratterizzato dalla «solitudine della persona isolata nel bel mezzo di una folla connessa». Confinati nelle gabbie del software di Facebook, Google e relativi cloni, gli utenti si vedono incoraggiare a ridurre la vita sociale alla «condivisione» di informazioni. Il cittadino auto-mediato trasmette costantemente il suo stato a un gruppo amorfo e intorpidito di «amici». Keen fa parte della crescente schiera di critici (per lo più) statunitensi impegnati a metterci in guardia sugli effetti collaterali dovuti all'uso eccessivo dei social media. Dalle lagnanze di Sherry Turkle sulla solitudine agli avvisi di Nicholas Carr sul calo dell'energia cerebrale e della concentrazione, dalle analisi di Evgeny Morozov sul mondo utopista delle Ong ai timori di Jaron Lanier sulla perdita di creatività, questi autori sono uniti dall'assenza di proposte alternative per il sociale, una volta abbandonato quello definito da Facebook e Twitter. Qui il problema sta nella natura inquietante del sociale stesso, che si riaffaccia come una rivolta basata su un ordine del giorno sconosciuto e spesso indesiderato: vago, populista, islamista, guidato da meme inutili.

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Capitolo 12
OCCUPY E LE POLITICHE DELLE RETI ORGANIZZATE



«Ho dimenticato le mie esternalità di rete» – «Camminiamo lentamente perché andiamo lontano» (adagio zapatista) – «Cercare il significato della vita a livello individuale è un'illusione antropologica» (D'Alisa, Kallis e Demaria) – «Ci serve aiuto, e deve venire da chi indossa giacca e cravatta, ha studiato parecchio, sa esprimersi bene ed è disposto a morire per la causa» Jonathan Brun su Adbusters) – «Mi sento protetto dagli algoritmi inediti» (Johan Sjerpstra) – «Sono sulla lista nera di uno scoiattolo arrabbiato» – Unisciti alle persone orientate all'obiettivo – «Quando la filosofia fa schifo, ma tu no» –«Mi sono fatto riscrivere il profilo per il sito di dating da un ghost-writer» – «Ecco a voi il cocuratore della Costituzione di Idiocracy» – Il complesso militare-imprenditoriale: «Sono sufficientemente incompetenti per farlo, ma sono anche abbastanza folli?» – «Dovrebbe proprio esserci un anti-Kickstarter per le cose che saresti disposti a pagare perché non fossero realizzate» (Gerry Canavan) – «Il declino dei social media: rovinare l'estetica dell'imprenditoria peer-to-peer» (tesi di laurea) –«Lasciamo perdere gli scienziati dei dati, mi serve un ripulitore di dati».


L'attivismo digitale è cresciuto e ha conquistato uno spazio paragonabile ai movimenti per la parità di genere o quelli contro il riscaldamento globale. Siamo nell'epoca di WikiLeaks e di Anonymous, degli attacchi informatici tipo denial-of-service contro infrastrutture vitali e del whistleblower Edward Snowden, tutti soggetti che catturano l'immaginazione globale. Si tratta di un mondo che già da qualche decennio è rimasto terra incognita per le istituzioni pubbliche. Qui la comunicazione non è più un lusso e si ribalta in una questione ben più grande, lasciandosi alle spalle le tattiche già concepite per il ghetto. Ma come misurarne le dimensioni? Non c'è più bisogno di ricorrere agli strumenti analitici dei social media per convincerci della portata del fenomeno. Oggi l'attivismo online collega direttamente l'interazione con l'azione e porta in primo piano la questione organizzativa. Come progettare un coordinamento collettivo? Come andare oltre i «mi piace» e organizzare eventi reali per cambiare le cose? C'è spazio per la tecnologia nel processo decisionale? E come si rapportano questi movimenti trainati dai social media con le forme tradizionali della politica istituzionale, tra cui le Ong e i partiti politici? Riusciranno a imporsi come forma sostenibile di auto-organizzazione?

Stiamo ancora cercando di dare un senso a quanto avvenuto nel corso del 2011 quel tardivo anno della protesta che prese avvio con la primavera araba per culminare con il movimento Occupy, brillantemente sintetizzato da Slavoj Žižek nel libro The Year of Dreaming Dangerously (2012). Come mai tali movimenti sono entrati in scena soltanto tre o quattro anni dopo la crisi economica mondiale? Forse la gente aveva bisogno di un intervallo nel 2012 («Pausa per il popolo»?), prima delle successive ondate di proteste avvenute in Bulgaria, Svezia, Turchia, Brasile e Ucraina? Perché il 2011 non ha prodotto uno slancio politico di maggiori proporzioni? Come mai la passione politica condivisa dalle masse viene così rapidamente neutralizzata e assorbita nello status quo dominante? L'energia dell'attivismo è davvero così incapace di costruire infrastrutture tecno-politiche capaci di sopravvivere al di là dello spettacolo dell'evento? Stiamo forse usando nel modo migliore la nostra intenzionale lentezza per riflettere sulle tattiche del movimento? E come mai è così difficile per i movimenti riorganizzarsi e tornare in scena?

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Gran parte delle analisi critiche dei movimenti sociali sono note, giustificate e prevedibili. Sì, movimenti come Occupy «spendono considerevoli energie nel processo interno di democrazia diretta e nell'autovalorizzazione emotiva al di là dell'efficacia strategica, e propongono frequentemente una variante del localismo neoprimitivista, quasi fosse sufficiente la fragile ed effimera "autenticità" dell'immediatezza comunitaria per contrastare la violenza astratta del capitale globalizzato» (Manifesto per una politica accelerazionista). Una critica forse valida per l'attivismo statunitense, ma che non sembra rispecchiare la situazione in Europa meridionale o in Medio Oriente, dove le sessioni di terapia collettiva non sono certo una priorità. L'attivismo nell'Europa nord-occidentale ha bisogno di maggior dibattito e di un minor livello di consenso. Uno stile di vita esclusivista comunica implicitamente a chi non appartiene alla tribù l'inutilità di provare a farne parte. Il problema con Occupy non riguardava l'ossessione con i rituali del processo decisionale bensì la limitata capacità di creare coalizioni. Il punto è diventato quello della trappola performativa. A un certo punto l'intensità del dibattito interno e dell'affermazione collettiva deve puntare all'esterno e confrontarsi con quel che detesta. Quando l'attivismo si autopromuove in quanto controcultura, la capacità dei suoi meme di viaggiare al di fuori del contesto/questione diventa limitata, e inizia a contrapporsi allo slogan del 99%. Analogo il problema con cui deve confrontarsi la cyber-politica: come disfarsi dell'immagine hipster liberista/liberale e politicizzare le masse di giovani disoccupati sparsi nel mondo che non parteciperanno mai ai profitti dei «loro» Google e Facebook? Quando arriverà il primo sciopero degli utenti che chiedono la fine del libero e gratis?

Attivismo significa dire: «Quando è troppo, è troppo! Dobbiamo reagire e fare qualcosa». Il rifiuto è fondamentale. Dobbiamo solo dire no. Dobbiamo urlare che non se ne può più. Diciamo al mondo che non ce ne importa più nulla. Per la classe professionale-manageriale questa è la parte più difficile, perché preferirebbe evitare quella fascia schizofrenica della società odierna, per aver invece a che fare soltanto con persone ragionevoli ed equilibrate, unite nella volontà di implementare alternative dal basso — esseri umani perfetti per i quali la resistenza è una scelta razionale, non collegata con alcun problema fisico o dubbio esistenziale. Nella visione positivista, la rivoluzione può essere gestita al pari di ogni altro evento che richieda funzioni di logistica, delega e annessi processi. Il timore ancora presente tra noi riguarda il fatto che, in definitiva, ogni emozione porta allo stalinismo o al fascismo. Θ vero che spesso la disperazione del ribelle sfocia in un evento catastrofico e violento, che verrà sempre più stabilito in base al programma altrui.




Autopoiesi dell'assemblea generale


I movimenti sociali che hanno optato per il modello della «assemblea generale» sostengono di aver (re)inventato la democrazia. L'accento è posto sui nuovi modi di raccogliere il consenso tra grandi gruppi di sostenitori che si riuniscono nella vita reale. Le esperienze di assemblea generale hanno creato una scatola nera, specificamente riguardo ai meccanismi concreti che portano alle decisioni collettive. Cosa succede una volta raggiunto il consenso in un «movimento senza organizzazione»? E, punto ugualmente importante, come ne riesaminiamo il percorso a evento concluso? Quando diventa impossibile tenere quelle entusiasmanti ed estenuanti riunioni per via di sfratti o simili emergenze, ci eccitiamo facilmente per la «performatività» del ritornello, per le «concertate azioni del corpo» (nella descrizione di Judith Butler ) e per lo spettacolo dei rituali di un'assemblea pubblica necessari a questo processo decisionale. Anziché criticare la resistenza come intrattenimento e la finta politica di eventi mediatici organizzati, il percorso alternativo qui suggerito è quello di controbilanciare la centralità dell'assemblea ritualizzata con una moltitudine di pilastri organizzativi che rafforzino la struttura portante del movimento stesso.

[...]

L'assemblea generale non è una zona priva di potere. Come in tutti i processi politici, la definizione del programma generale è un punto decisivo, come anche il potere nei confronti dell'apparato esecutivo. Indubbiamente «il bisogno di ascoltarci a vicenda» è un valore in quanto tale — ma soltanto se rappresenta metà della storia. La politica delle assemblee, basata sulla fiducia e sulle emozioni, crea quel senso di socialità andato perduto da tanti anni. La democrazia, per come viene praticata dai movimenti sociali, è prima e soprattutto una questione interna, mirata altresì a impedire l'ascesa, dentro quegli stessi movimenti, di avanguardie implicite e invisibili. L'enfasi va posta sulla democratizzazione degli stessi movimenti sociali, che in passato avevano dovuto fare i conti con «individui disgreganti», con personalità macho e con «la tirannia dell'eccentrico». L'altro assente è qui la maggioranza silenziosa, il mainstream liberale. In molti casi non esiste un chiaro divario tra correnti altrimenti diverse. Θ questa la ragione principale per cui l'assemblea generale vuole raggiungere il consenso — un'uscita dalla nuvola caotica. Il rituale riguarda più l'espressione dell'ovvio che il superamento delle maggiori differenze tra correnti rivali, per non parlare dell'attuazione del programma e dell'infrastruttura sociopolitica che sopravvive dopo l'estasi dell'evento.

[...]

Superare la dicotomia reale-virtuale degli anni Novanta nel contesto delle nuove forme politiche significa rifiutare sia la continua ansia digitale sia il romanticismo offline in quanto soluzioni a basso costo. «Tagliare il guinzaglio elettronico» è il gergo imprenditoriale usato quando si concede qualche giorno di ferie ai lavoratori, non certo una strategia rivoluzionaria. Ma lavorare sul territorio, in luoghi e strutture specifici, con i gruppi locali e darsi da fare per ampliare la cerchia — ciò non è dovuto a qualche nostalgica spinta per riconnettersi con l'altro umano, troppo umano. Ecco come la mette Teo di Salonicco:

Opporsi al fascismo significa uscire in strada, conoscere i vicini, organizzarsi insieme a loro, e portare avanti piccole battaglie per i nostri diritti nel quartiere. Θ questo il primo passo per creare veri e propri rapporti sociali. E sì, ciò vuol dire anche autodifesa contro i fascisti.

Θ questo il compito e la sfida primaria; la partecipazione online è secondaria.

[...]

Due i problemi chiave che oggi i movimenti sociali sono chiamati ad affrontare: la fondamentale mancanza di tempo per consentire agli eventi di evolversi nella loro reale potenzialità e le competenze auto-organizzative per poter dar seguito alle decisioni. In definitiva, si tratta di due aspetti correlati tra loro. Se i movimenti fossero organizzati meglio, in teoria avrebbero maggiori possibilità di resistere alle battute d'arresto e di tornare in scena. A causa delle forme organizzative relativamente uniche (nel senso che non vengono ripetute) attualmente in uso, le reti organizzate non possono risolvere la questione dell'evento come spettacolo concentrato, perché quel che serve è un misto farmacologico di lenta pratica politica, da una parte, e di capacità di accelerare l'azione al momento giusto, dall'altra. Tuttavia le reti organizzate possono far parte di strategie a lungo termine tese a migliorare le forme di auto-organizzazione. I movimenti devono pensare ai tempi lunghi e iniziare a costruire la propria infrastruttura. Nessuno potrà farlo in vece nostra.

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Le reti organizzate come unità fondamentali


                        L'organizzazione, che in fondo non è altro che la
                        pratica della cooperazione e della solidarietà, è una
                        condizione naturale e necessaria della vita sociale.

                                                             Errico Malatesta



Se il XIX e il XX secolo erano tutti presi dalla questione sociale, e recentemente abbiamo faticato a trovare un senso alla questione dei media, il XXI secolo verrà dominato dalla questione dell'organizzazione. Cosa potrà sostituire il triangolo sacro di Partito, Chiesa, Stato e facilitare le aspirazioni di miliardi persone che chattano? Assisteremo a una radicale riedizione del movimento sociale in quanto tale? Sicuramente abbiamo tutti ottime idee sui diversi modi con cui riorganizzare la società, ma come metterle in pratica? Toccherà forse a reti, aziende, gruppi e comunità sostituire le vecchie strutture sociali? Come non ha mancato di far notare il Comitato Invisibile:

Le organizzazioni sono ostacoli per l'auto-organizzazione. In verità, non c'è differenza tra quello che siamo, quello che facciamo e quel che stiamo diventando. Ogni organizzazione - politica o sindacale, fascista o anarchica - inizia sempre separando di fatto questi aspetti dell'esistenza. A quel punto hanno gioco facile a presentare il loro idiota formalismo come l'unico rimedio a questa separazione. Organizzare non significa strutturare la debolezza. Vuol dire soprattutto creare dei legami.

Potremmo chiederci: cosa succede una volta passata la noia? David Foster Wallace ha descritto adeguatamente la fase precedente. Nel suo saggio del 2000 sulla campagna di John McCain per la presidenza, si chiedeva quale fosse la causa del diffuso disinteresse dei giovani alla politica. Osservava che «è praticamente impossibile convincere qualcuno a riflettere sul perché non sia interessato a qualcosa. La noia stessa previene ogni ulteriore passo: il fatto di provare quella sensazione è più che sufficiente». Ciò vale anche per le osservazioni di Jean Baudrillard sul silenzio e l'inerzia delle masse. Ma a un certo punto situazioni di questo tipo arrivano sempre al dunque. Una volta cominciata la festa, è arduo starne fuori. Wallace fa notare che la politica è tutt'altro che stimolante: «Le persone in gamba, interessanti non sembrano essere attratte dal processo politico». Esiste un «profondo disimpegno che spesso è una difesa contro il dolore. Contro la tristezza». La manifestazione che si auto-presenta come un bel festival supera una tale mentalità, creando zone temporaneamente autonome che sono inclusive, ben al di là delle moltitudini del passato. Ciò poggia su una politica degli affetti che è di natura puramente fisica e non scherza più con il linguaggio visivo degli anni Trenta (come problematizzato da Walter Benjamin). Semmai la politica dell'estetica è di natura audio-psichica.

[...]

Le reti organizzate sono una concreta realizzazione, nel software e nella vita tecnica, di quel che la rivista francese Tiqqun definisce un «impegno all'impegno». Gli attivisti sanno che è impossibile trovare la verità negli algoritmi. I modelli sono irrilevanti ed esistono soltanto per amministrare il mondo. Quel che idee come le reti organizzate possono fare è strutturare gli odierni flussi di dati. Paragonabili al potere (potenziale) delle opere d'arte concettuali, simili proposte si mescolano nella titanica lotta contro l'architettura di rete planetaria che caratterizza la nostra epoca. Il codice è necessario per i sistemi operativi; app, database e interfacce dipendono completamente da concetti astratti. Ed è qui che entra in scena il ruolo degli scrittori di fantascienza, dei filosofi, dei critici letterari e degli artisti. Il software non è un dato, una scatola nera aliena che riceve le nostre comunicazioni dallo spazio cosmico — anche se spesso lo sperimentiamo in tal modo. Θ stato creato dal geek che vive nell'appartamento accanto.

Il concetto alla base delle «reti organizzate» è chiaro e semplice: anziché trarre ulteriore vantaggio dai legami deboli dei siti di social network dominanti, le reti organizzate enfatizzano la collaborazione intensiva all'interno di un gruppo limitato di utenti impegnati. Il potenziale di internet non dovrebbe limitarsi alle piattaforme commerciali interessate a rivendere i nostri dati privati in cambio dell'uso gratuito. Un'opzione che crea sistemi pronti per le intrusioni della Nsa. Le reti organizzate non sono né avanguardia né elementi che guardano verso l'interno. Ciò che viene sottolineato è la parola «organo». Con questo, non s'intende un tornare alla natura oppure una regressione al corpo (sociale). Non è neanche un riferimento all' Organon di Aristotele, o all'idea di un «corpo privo di organi» (o l'opposto delineato da Žižek, per quel che vale). L'organo delle reti organizzate è un dispositivo socio-tecnico tramite cui vengono messi a punto i progetti, costruite le relazioni e realizzati gli interventi. Qui stiamo parlando della congiunzione tra le culture del software e i desideri sociali. Cruciale in questo rapporto è la questione delle architetture algoritmiche, circostanza ampiamente sottovalutata da tanti movimenti attivisti che adottano — senza troppe preoccupazioni — piattaforme di social media motivate commercialmente e compromesse politicamente quali Facebook, Twitter e Google+.

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[...] Quello che abbiamo dovuto affrontare negli ultimi 10-15 anni sono stati dei cambiamenti nel «sociale» in quanto tale. C'è ancora bisogno di spazi collettivi quando la gente non si ritrova assieme così spesso? Una volta abbandonate le chiusure dell'identità politica e l'atteggiamento qualunquista dei nichilisti, ci si apre davanti tutta una serie di nuove domande, pronte per essere affrontate. Qual è l'atelier del futuro, oggi che gli artisti lavorano soprattutto con il computer? Come poter partecipare alle discussioni e ai possibili progetti sulle monete alternative? Perché le biblioteche e i caffè sono così popolari in un'epoca in cui nessuno dovrebbe più leggere e le librerie chiudono una dopo l'altra? Riprendendo Richard Sennett , Bernard Stiegler e Peter Sloterdijk , quali sono i futuri mestieri che non guardino con nostalgia al passato? Quali sono le professioni sovversive del domani? Θ possibile andare oltre l'appello alla sostenibilità e integrare pienamente il digitale con il sociale nel tessuto urbano? Riusciremo a creare un'alternativa radicale a Uber, Airbnb e al modello di Starbucks come ufficio? Come inventare forme nuove di produttività che vadano oltre il modello di lavoro senza stimoli, sottopagato e senza sbocchi (il cosiddetto McJob) tipico dell'economia dei servizi ormai in rovina?

Anziché concentrarsi sulla spirale discendente del mondo (auto)amministrato, è ora di lasciarsi alle spalle le tristezze, spazzar via lo stato mentale depressivo associato con i resti visibili delle subculture del passato e capire come poter ricostituire il sociale. Facci vedere il tuo design. Come dovrebbe funzionare la collaborazione? Cosa intendiamo dire con distribuito e federato? Per arrivare a qual punto dobbiamo compiere un passo radicale e, per molti, piuttosto spiacevole: ammettere che il sociale odierno è tecnico. Anche se una interpretazione a livello di economia politica può produrre risultati interessanti (precarietà, declino del ceto medio, globalizzazione della povertà e del lavoro), da un punto di vista organizzativo è cruciale includere le forme mediatiche e le architetture di rete.

La domanda che qui intendo porre è come poter creare forme organizzative slegate dagli eventi, capaci di portare a termine il lavoro sullo sfondo. Lo spettacolo, con la sua intensità emotiva auto-generata, va contro il tempo dell'organizzazione. Il complicato e caotico coordinamento tra livelli e interessi diversi non può battere la diffusione dei meme in tempo reale. Le reti organizzate crescono in risposta alla soluzione universale dell'algoritmo. Ci organizziamo contro l'aggregazione, la moltiplicazione e la scalabilità. Facciamo volontariamente un passo indietro dal modello virale che inevitabilmente culmina nel contraccolpo della vendita e dell'offerta iniziale in borsa (il Termidoro dell'era del dot.com, quando le aziende entravano in borsa pochi mesi dopo il lancio), comprese le acquisizioni interne e le prime ondate di licenziamenti. Attenzione: quante liti possiamo permetterci prima di ritrovarci con nessun amico? Non troppe. Sempre più movimenti eliminano la leadership — e prosperano.

Osservando da vicino le recenti rivolte popolari, notiamo fiammate di attività sui social media. Da Piazza Tahrir a Taksim, da Tel-Aviv a Madrid, da Sofia a San Paolo e al movimento americano «Black Lives Matter», quel che hanno in comune sono i picchi di comunicazione, che tendono a scemare subito dopo l'eccitazione iniziale, in maniera per lo più analoga all'economia da festival che caratterizza la società dell'evento. C'è poi questo peculiare circuito di riscontro dove l'urgenza dell'evento è legata al ciclo dell'informazione di 24 ore delle testate mainstream. Una volta che lo spettacolo è stato filtrato del contenuto degno di diventare una notizia, in qualche modo il coordinamento della passione politica sembra perdere impeto. I social network commerciali come Twitter and Facebook vengono ritenuti utili per diffondere voci, inoltrare fotografie e commentare i media affermati (web compreso). Ma a prescindere dall'intensità di certi eventi di piazza, spesso queste piattaforme non vanno oltre l'attivazione di «legami brevi». Gli spazi temporaneamente autonomi così creati somigliano più ai festival, a rivolte senza conseguenze.

Cresce il malcontento nei confronti dei movimenti centrati sugli eventi. Qui diventa perciò cruciale chiedersi come poter raggiungere la massa critica. Anziché opporsi al modello del partito leninista con la celebrazione anarco-orizzontalista dell'assemblea generale, la proposta delle reti organizzate è quella di integrare l'intelletto comune in rete dentro il dibattito organizzativo. Sono trascorsi oltre 150 anni dalle discussioni sul conflitto Marx-Bakunin. Θ ora di integrare la tecnologia nel tessuto sociale e smetterla di considerare computer e smartphone come strumenti alieni. Il modello delle reti organizzate ha un problema legato all'abbondanza, come la maggior parte delle applicazioni online: corre il rischio di non poter tenere il passo con le (decine di) migliaia di utenti che vorranno essere coinvolti. Θ questa la condizione eccezionale in cui l'evento diventa predominante, quando la storia prende il sopravvento e sperimentiamo i brevi momenti dell'extra-tecnologico. Quello su cui dobbiamo concentrarci nei prossimi anni sono i periodi intermedi, i lunghi intervalli in cui c'è il tempo di costruire reti sostenibili, scambiare idee, avviare gruppi di lavoro e realizzare l'impossibile, qui e ora.

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