Copertina
Autore Marco Revelli
Titolo Finale di partito
EdizioneEinaudi, Torino, 2013, Vele 81 , pag. 138, cop.fle., dim. 10,5x18x1,2 cm , Isbn 978-88-06-21554-5
LettoreRiccardo Terzi, 2013
Classe politica , paesi: Italia: 2010
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


VII Prefazione
    Navigare a vista

    Finale di partito

  3 I.  Vasi infranti. I numeri dell'esodo

  3     Epicentri
 10     Il profilo della diaspora
 15     Politica liquida
 19     Monopolio addio
 24     Voto di sfiducia
 29     Una crisi «globale»

 38 II. Oligarchia come destino?

 38     La legge ferrea dell'oligarchia
 42     Patologie della leadership
 47     Il secolo dell'organizzazione
 52     Sub-politica e post-democrazia

 65 III. Post-fordismo politico

 66     Macchine politiche
 73     Il «paradigma a sistema chiuso»
 84     Costi di organizzazione / costi di transazione
 90     L'anomalia italiana

101 V.  Una democrazia «oltre» i partiti?

101     Tutto o niente? Anatomia di una metamorfosi
105     La «democrazia del pubblico»
114     La «democrazia istantanea»
122     Contro-democrazia. Ovvero la «démocratie de la défiance»


131     Conclusione


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina VII

Prefazione

Navigare a vista


L'amico che ha organizzato il mio viaggio ad Atene e che di prima mattina mi ha accompagnato qui, abbassa il giornale e mi guarda da sopra gli occhiali con sguardo incerto: «Il Pasok è sceso al 5%, secondo l'ultimo sondaggio». Due anni fa aveva vinto le elezioni con il 42% dei voti. Oggi si è polverizzato. Siamo all'ultimo piano di un alto edificio in piazza Sintagma, nel centro della città. Un piccolo bar sul cui terrazzo si può fare colazione guardando di fronte l'Acropoli, e piú lontano, sullo sfondo, il Pireo col mare azzurro e l'isola di Salamina, dove duemilacinquecento anni fa le agili navi greche sconfissero la massiccia flotta di Serse. Tira un vento non freddo, nonostante sia novembre avanzato. Sotto, il traffico scorre rado, a piccoli rivoli (quasi fossimo d'improvviso tornati agli anni Cinquanta), nei grandi viali dove si aprono le vetrine vuote, piene di polvere e rottami come dopo un terremoto, segnate - sembra un lebbrosario - dalle inquietanti strisce di carta gialla con la scritta in rosso «ENOIKIAZETAI» (Affittasi). Il Pasok aveva una lunga tradizione di socialismo mediterraneo. Era stato una costante nella vita politica greca, talvolta all'opposizione, talaltra al governo, ma sempre con un insediamento elettorale - e un corpo militante - solido. Sperimentato. Osservarne il cratere vuoto da questo terrazzo ventoso dà le vertigini.

A poco piú di un'ora di volo, verso occidente, c'è Roma. Dove a franare è l'altra spalla del sistema politico, quella di centrodestra, spappolata dal cedimento strutturale del suo asse portante: costruzione personale e personalizzata travolta dalla caduta pubblica (e dai vizi privati) del suo leader. Partito - anzi di piú: «popolo» - nato con vocazione maggioritaria ed egemonica e finito cosí, con i pezzi lanciati in tutte le direzioni in un'esplosione centrifuga che lascia anche qui un cratere aperto. E un fiume di elettori in fuga, verso ignota destinazione. Quando finalmente all'aeroporto trovo un giornale italiano, un altro sondaggio, al di qua dell'Egeo questa volta, parla di un Pdl sceso sotto la soglia-limite del 15% - dopo aver stravinto le elezioni del 2008 con il 38% -, superato di numerosi punti dal neonato Movimento 5 Stelle, fino a un anno fa sconosciuto.


Navigare a vista. Questa sembra essere diventata la condizione universale. Non solo per i mercati finanziari, ormai imprevedibili per definizione. Per lo spread, dal diagramma simile a un elettrocardiogramma. Per le quotazioni quasi sempre «in picchiata», qualche volta «in volo». Anche per la politica il paesaggio si è fatto incerto, mobile come quello delle nostre città dove sempre piú spesso siamo spaesati. Il barometro politico non sembra diverso da quello atmosferico: impazzito. Con i flussi elettorali in vorticoso movimento, incerti tra improvvisi svuotamenti e repentini riempimenti come quando, appunto, nelle acque fino a poco prima calme si formano i vortici...

La geografia solida che aveva caratterizzato la lunga fase novecentesca della «democrazia dei partiti» si è a poco a poco decomposta nella lunga parentesi della seconda repubblica: nel suo falso bipolarismo e nella sua velenosa personalizzazione. E ci troviamo oggi a viaggiare con mappe scadute e con coordinate mutevoli, in uno scenario liquido, in cui i grandi contenitori di ieri - i partiti politici, le loro strutture organizzative e le loro rappresentanze istituzionali, quelli che costituivano i punti di riferimento fissi - sono divenuti d'un colpo elastici e permeabili. Tendono a rilasciare nell'ambiente il loro contenuto fluido, attraversati da una patologica - e sempre incombente - «crisi di fiducia» (il vero mal du siècle). Da un ritrarsi delle fedeltà e da un senso insidioso di diffidenza.

Condannati a costituire il fondamento pressoché unico della legittimazione politica, i partiti politici non riescono piú a trattenere stabilmente i propri «mandanti» - a garantirsene la delega, a strutturarne con continuità l'appartenenza - trasferendo in misura preoccupante la propria crisi alle stesse istituzioni che dovrebbero, appunto, legittimare. Finendo per smarrire - e tradire - il proprio mandato.


Non è solo un fenomeno italiano, anche se qui si manifesta in forma patologica. Né una questione che riguardi solo i Paesi fragili dell'asse mediterraneo sfidati dall'urto travolgente della crisi. È l'accelerazione - questo sí - e la precipitazione di un processo che investe pressoché tutte le democrazie occidentali e che è iniziato ben prima dello stesso shock dei sub-prime, all'opera sotto traccia da almeno un quarto di secolo: una progressiva e insidiosa «crisi di fiducia» che ha minato lentamente ma inesorabilmente lo zoccolo duro della rappresentanza rendendo instabili i consolidati bacini elettorali dei tradizionali «organizzatori del consenso». Rendendo porosi i loro involucri ed evanescenti i loro confini. Ovunque, nel Regno Unito come in Francia, persino nella tetragona Germania, quello che era stato il protagonista indiscusso dello spazio pubblico novecentesco, il partito politico, è sempre meno presente tra le maglie della società, a strutturarne la vita pubblica, e sempre piú galleggiante sulla superficie con «legami deboli» e forme di loyalty effimere. Ovunque, all'identificazione tende a sostituirsi un senso di estraneità. Alla militanza la diffidenza: un sentimento misto di frustrazione per l'impotenza dei decisori e d'insofferenza per la loro intrusività.

D'altra parte il partito è, per definizione, una forma di organizzazione. Per certi aspetti l'organizzazione per eccellenza: quella su cui poggia il funzionamento strutturale del sistema politico. E i modelli organizzativi hanno subito, nella lunga fine-secolo che ci sta alle spalle, una trasformazione epocale: in qualche misura una «rivoluzione copernicana» che configura un vero e proprio «salto di paradigma», ben visibile nella metamorfosi dell'impresa e delle dinamiche organizzative nel campo della produzione e dell'agire economico con il superamento delle logiche tipiche della produzione di massa standardizzata e del cosiddetto «fordismo». E l'affermarsi di un modello piú interno al carattere «dissipativo» del capitalismo delle reti e dei flussi finanziari. Come pensare che anche la politica non si conformi a questa generale metamorfosi?


In fondo il «partito di massa» novecentesco - quello che ha contrassegnato per quasi un secolo la forma idealtipica della organizzazione politica e della democrazia rappresentativa - si era plasmato sulla matrice delle grandi burocrazie pubbliche: sulla forma di quello Stato nazionale di cui si candidava a costituire il cuore. E sulla struttura dei grandi sistemi produttivi nati a ridosso della seconda rivoluzione industriale. Fabbriche del consenso e della legittimazione, avevano assunto la stessa logica di funzionamento delle grandi fabbriche di prodotti e di servizi, centralizzate e burocratizzate, meccanizzate e standardizzate, rigide e rigorosamente territorializzate, pensate per la programmazione e pianificazione di lungo periodo. Non poteva sopravvivere quel modello di partito - in quell'assetto - nell'epoca della interdipendenza globale e dell'esternalizzazione, dei sistemi reticolari a geometria variabile e della gestione sistematica dell'incertezza e della imprevedibilità. Nell'universo «liquido» dell'ipermodernità post-industriale, per dirla con Zygmunt Bauman.

Il «finale di partito» a cui si allude nel titolo è questo: una lunga metamorfosi, in buona misura già compiuta, che sta cambiando sotto i nostri piedi le forme strutturali della politica. Contaminandola con «fattori di sistema» che riflettono, piú che governare, le tensioni nuove che la tempesta sociale dalla quale siamo trascinati genera. In fondo, a ben vedere, tutte le linee caotiche del «finanzcapitalismo» (felice espressione di Luciano Gallino), che ha sostituito la «geometrica potenza» dell'obsoleto capitalismo industriale, sono parallelamente riconoscibili nella deriva di trasformazione e di crisi dell'organizzazione di partito: l'instabilità e la gestione dinamica del disordine piú che la produzione stabile e artificiale dell'ordine. L'occasionalismo delle decisioni e dei programmi, suscettibili di brusche adozioni e di altrettanto rapidi abbandoni. Il sacrificio delle precedenti logiche «di luogo» per praticare in forma sempre piú spregiudicata dinamiche «di flusso» (il che significa deterritorializzazione della rappresentanza, abbandono della pratica di mandato, separazione netta delle élite decidenti dai propri tradizionali insediamenti sociali). E infine, ultimo ma non di minor peso, il ruolo crescente del denaro come forma diretta di organizzazione, ben misurabile nell'esplosione dei costi della politica e nell'uso massiccio del marketing su cui si sofferma ampiamente il libro.

Se tutto ciò porterà a un nuovo equilibrio o, al contrario, finirà per accentuare l'entropia intrinseca dell'attuale assetto socioeconomico, è questione aperta. Certo è che con questa «tempesta perfetta» nella quale le linee di crisi dei molteplici sottosistemi (economico, sociale, culturale, ambientale e naturalmente politico) s'intrecciano e si sovrappongono, dovremo convivere a lungo.

Torino, 5 dicembre 2012.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 65

Capitolo terzo

Post-fordismo politico


Come ne La lettera rubata di Edgar Allan Poe , anche qui siamo in presenza di uno di «quegli oggetti che sfuggono alle perquisizioni piú minuziose, e che semplicemente sono esposti agli occhi di tutti, passando inosservati, su un caminetto»...

Mi riferisco al fatto che nella affollata recherche sull'ascesa e caduta dei grandi contenitori politici novecenteschi, a molti - potremmo dire a quasi tutti - è sfuggito il banale fatto che essi dovettero la propria fortuna, nel corso del «secolo breve», alla pressoché perfetta identificazione con il modello organizzativo vincente nel lungo ciclo aperto dalla seconda rivoluzione industriale. Quello che ha plasmato la «fabbrica fordista» e la «burocrazia weberiana»: produzione di massa standardizzata e formalizzazione spinta dei ruoli e delle funzioni. Economie di scala ed elevata professionalizzazione delle mansioni. Gigantismo delle unità produttive e integrazione verticale dei sistemi complessi. Era inevitabile che subissero il contraccolpo della «rivoluzione organizzativa» di fine secolo. Della «rottura epistemologica» - per dirla con Kuhn - seguita alla crisi entropica di quel modello. E dell'emergere di un nuovo «paradigma socio-produttivo», strutturalmente diverso - e per certi versi contrapposto - a quello fordista-weberiano, segnato non piú dai grandi processi di centralizzazione e di razionalizzazione ma dal decentramento e dalla delocalizzazione. Dalle esternalizzazioni e dalle reti lunghe di fornitura e subfornitura. Dall'«autonomazione» - per usare il termine introdotto dal padre del «sistema Toyota» - e dalla lean production (dalla produzione leggera) con le sue catene di comando corte o cortissime, i suoi network comunicativi agili, i suoi flussi just in time.


Macchine politiche.

Uno dei pochi ad aver colto la pressoché assoluta consonanza tra le forme organizzative della produzione di massa standardizzata e dell'amministrazione burocratica, da una parte, e il modello organizzativo delle grandi «macchine politiche» (il partito di massa o di «integrazione di massa» novecentesco) dall'altra, è stato proprio Inglehart. Nell'accomunare - nelle prime pagine de La società postmoderna - «la produzione di massa della catena di montaggio e la produzione di massa della burocrazia», e nel considerarli entrambi «strumenti organizzativi chiave della società industriale», sottolineava come essi avessero svolto «un ruolo enorme, rendendo le fabbriche capaci di produrre milioni di unità e i governi di trattare milioni di individui mediante routine standardizzate».

A questa osservazione terminale - formulata al compimento del lungo ciclo della «seconda industrializzazione» - fa riscontro, al capo opposto della parabola, a ridosso del suo foro d'entrata, un'altra intuizione (germinale, questa volta) di un altro grande interprete della modernizzazione - per certi versi il piú grande, quello che di essa ha stilato con maggior precisione i codici fondamentali: Max Weber. In una celebre - e per molti aspetti drammatica, nonostante l'eloquio calmo e impersonale del professore - conferenza tenuta a Vienna di fronte a un pubblico di alti ufficiali dello Stato Maggiore austriaco nell'estate del 1918 (!), Weber si era lasciato andare a un'affermazione «profetica» (lui, cosí ostile al profetismo degli intellettuali!), dichiarando expressis verbis che il modello organizzativo della Burocrazia continentale sarebbe stato inevitabilmente il modello vincente, destinato ad affermarsi in tutto il mondo. Ad esso si sarebbero dovuti arrendere tutti gli altri esperimenti organizzativi - quello «pragmatico» americano dello Spoil system e dell'amministrazione «leggera» cosí come quello «ideologico» bolscevico-sovietico pensato in origine sull'esempio della Comune di Parigi - per la semplice ragione che il «paradigma burocratico-monocratico» è la forma in assoluto piú efficiente di organizzazione. L'unica plasmata sullo statuto della modernità, con le sue ferree esigenze di sincronismo e di razionalizzazione applicate non solo all'Amministrazione pubblica, ma a qualsiasi entità di grandi dimensioni - Impresa, Partito o Chiesa che fosse -, la quale volesse sopravvivere in un mondo massificato e tecnicizzato.

La democrazia moderna - disse allora il vecchio professore a quella platea di uomini in uniforme con la testa volta probabilmente piú ai rovesci della Marna e del Piave che non ai modelli sociologici - «dov'essa è una grande democrazia statale, si trasformerà infallibilmente in una democrazia burocratizzata». E aggiunse, affinché la cosa risultasse ben chiara: «Le cose procedono dappertutto allo stesso modo. È un processo inevitabile, e questa realtà è la prima cosa con cui dovrà fare i conti anche il socialismo: necessità di una lunga preparazione professionale, di una specializzazione sempre piú affinata e di una direzione ad opera di una burocrazia professionale formata con tali criteri». Perché? Perché - fu la conclusione perentoria - «l'economia moderna non può essere guidata diversamente»: l'alto grado di «razionalità strumentale» che essa richiede - la possibilità di combinare una molteplicità di fattori e di inquadrare una grande massa di individui in modo tale da massimizzare i risultati voluti minimizzando gli sforzi - impone procedure certe. Relazioni altamente formalizzate, in grado di eliminare le incertezze derivanti dagli atteggiamenti soggettivi, capaci di permettere una rigorosa programmazione e pianificazione in base a previsioni certe, garantite da regole uniformi, quali solo il modello burocratico altamente centralizzato e professionalizzato può permettere.

Era il modo con cui l'orgoglio tedesco immaginava di potersi riscattare offrendo la forma di organizzazione del proprio esercito sconfitto al resto del mondo, come una sorta di destino. E in effetti, quasi contemporaneamente, a migliaia di miglia di distanza, oltre Atlantico, alla periferia di Detroit, un altro demiurgo, Henry Ford, stava strutturando il proprio «sistema» - non amministrativo, produttivo questo - esattamente su quel codice sorgente che Weber attribuiva alla «burocrazia monocratica», per offrire al gigantesco apparato che andava crescendo intorno alla spina dorsale meccanica dell' assembly line le necessarie garanzie di sincronismo, programmabilità, pianificabilità - in una parola l'indispensabile livello di razionalizzazione - che un meccanismo cosí complesso necessariamente richiedeva. E d'altra parte, negli stessi anni, all'altro capo dell'universo - Ford ne sarebbe stato certamente sconvolto, nello scoprire che il proprio antagonista strategico, la politica, e per di piú la politica nata dalla rivoluzione, condivideva in fondo lo stesso Dna della propria creatura, ma è cosí -, nella Russia dei Soviet, gli uomini che avevano preso il Palazzo d'Inverno si preparavano a strutturare il nuovo, immenso potere conquistato - la loro inedita «fabbrica di uomini» - sul medesimo calco organizzativo della grande produzione di massa standardizzata. E inauguravano la deriva infernale che avrebbe dato vita, appunto, alla piú gigantesca e totalizzante burocrazia che la storia abbia conosciuto: anche qui organizzazione scientifica del lavoro (produttivo e politico), programmazione e pianificazione (piani quinquennali), separazione rigida tra ideazione ed esecuzione, professionalizzazione spinta dei ruoli, assemblaggio di uomini a milioni nelle grandi macchine organizzative strutturate verticalmente secondo piani gerarchici rigidamente definiti.

Ci vorrà però un solitario - una mente separata forzatamente dalla quotidianità del lavoro e della politica - per cogliere, dal fondo di una cella, le assonanze, e rivelare le interdipendenze di modello, tra Fabbrica e Partito. E tra produzione standardizzata di cose e gestione serializzata di uomini... Se si legge in questa luce il celebre paragrafo 70 del quattordicesimo Quaderno dal carcere di Antonio Gramsci, dedicato alla struttura del partito politico «formato» e scritto tra il 1932 e il 1935 - negli stessi mesi, forse negli stessi giorni a cui risalgono gli appunti dell'altrettanto noto quaderno su Americanismo e fordismo - non si può non provare una sorta di soprassalto. È difficile infatti sfuggire al fascino dell'assonanza, in esso stabilita - addirittura dell'identificazione - tra la formula organizzativa del «moderno principe» e i principi scientifici della moderna fabbrica fordista. Tra la «forma-partito» chiamata a guidare e realizzare il processo di trasformazione rivoluzionaria della società e la «forma-impresa» chiamata a strutturare il processo di produzione massificata della merce.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 135

Come che sia, certo è, comunque, che il controllo monopolistico dello spazio pubblico da parte del partito novecentesco è finito. E che quella dell'antico «moderno principe» è ormai, necessariamente - come d'altra parte quella del suo diretto modello ispiratore, lo «Stato nazione» - una sovranità limitata. Molto limitata, perché dipendente - non solo nel contenuto delle proprie decisioni ma nella stessa misura delle proprie dimensioni - dai vertici di un triangolo a geometria variabile che comprende da una parte il potere mediatico: la vera variabile determinante capace di dimensionare, di volta in volta, il perimetro della rappresentanza (riconvertita ormai quasi completamente in rappresentazione) e di assegnare secondo la propria narrativa prerogative e spazi decisionali. E dall'altra parte la coppia antitetica composta verso l'alto dal potere economico e finanziario (i cosiddetti «poteri forti») e verso il basso dai cosiddetti «movimenti» o, piú precisamente, da quel «nuovo popolo» informato, competente ed esigente, che rivendica a sé spazi crescenti di autodeterminazione e seleziona attentamente i livelli della delega. E che va, come si è visto, sotto il nome di «sub-politica».

Dalla risoluzione di quell'equazione a molte incognite dipenderà, in buona misura, il futuro delle nostre democrazie fragili. O, se si preferisce, dal grado con cui la forza di gravità di ognuno di quei vertici del triangolo opererà sulla massa liquida - e talvolta addirittura gassosa - di ciò che resta dei partiti politici dopo la loro metamorfosi radicale. Se, appunto, essi saranno assorbiti senza residui nello spazio mediatico di un «quarto potere» saldamente dominato dal «primo» - dal potere economico che dei media tradizionali ha, in misura crescente, il controllo -; e se dunque si risolveranno in forme ancillari di un potere economico e soprattutto finanziario strabordante e pervasivo, come in parte già accade nella cattiva globalizzazione realizzata e nella nostra malriuscita Europa. Oppure se, al contrario, sarà la forza di attrazione «dal basso» a prevalere, innescando un'interlocuzione dinamica tra le forme di auto-organizzazione della società - alimentate dai new media - e le forme sempre piú leggere della rappresentanza.

Si tratterebbe di un modello di relazione sicuramente diverso da quello «europeo» tradizionale, che continua tuttavia a influenzare le mappe mentali della nostra politica estenuata. Una formula assai piú vicina a quella indicata in un recente scritto da Michael Walzer in cui ai partiti «che raccolgono voti» si relazionano - non necessariamente si contrappongono - i movimenti «che mobilitano potenziali elettori e cercano di modificare i termini della raccolta dei voti». Con gli uni - i movimenti - finalmente in veste di cause (anziché di partner «incompiuti», in attesa di essere sollevati all'altezza del «primato della politica»). E gli altri - i partiti - considerati per quello che sono (o sono diventati): macchine. Strumenti leggeri, effimeri, «testimoni secondari» rispetto ai soggetti e ai luoghi «della vita» in cui si sperimentino e pratichino forme diverse di relazione e di socialità.

| << |  <  |