Autore Enrique Vila-Matas
Titolo Dublinesque
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2010, I Narratori , pag. 248, cop.fle., dim. 14,2x22x1,6 cm , Isbn 978-88-07-01819-0
OriginaleDublinesca
EdizioneSeix Barral, Barcelona, 2010
TraduttoreElena Liverani
LettoreRenato di Stefano, 2011
Classe narrativa spagnola , storia letteraria , libri , citta': Dublino












 

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Pagina 11

Appartiene alla stirpe ormai sempre più rara degli editori colti, letterari. E assiste tutti i giorni commosso allo spettacolo di come il ramo nobile del suo lavoro – editori che ancora leggono e che sono sempre stati attratti dalla letteratura – in questo inizio di secolo vada estinguendosi silenziosamente. Due anni fa ha avuto problemi, ma ha saputo chiudere in tempo la casa editrice che, pur avendo raggiunto un notevole prestigio, procedeva tuttavia con sorprendente ostinazione verso il fallimento. In più di trent'anni di parabola indipendente c'è stato di tutto, successi ma anche pesanti sconfitte. La deriva della tappa finale la attribuisce alla sua resistenza a pubblicare libri di storie gotiche alla moda e altre inezie, e in questo modo trascura parte della verità: che non ha mai brillato per il suo talento nella gestione economica e che, inoltre, probabilmente è stato danneggiato dal suo fanatismo smisurato per la letteratura.

Samuel Riba – per tutti Riba – ha pubblicato molti dei grandi scrittori del suo tempo. Di alcuni solamente un libro, ma tanto basta perché compaiano nel suo catalogo. Anche se non ignora che nel settore onesto della sua professione sono ancora attivi altri valorosi donchisciotte, a volte gli piace vedersi come l'ultimo editore. Influenzato senz'altro dalla battuta d'arresto delle sue attività, ha un'immagine un tantino romantica di se stesso, e vive in una permanente sensazione di tramonto di un'epoca e di fine del mondo. Ha una spiccata tendenza a leggere la sua vita come un testo letterario, a interpretarla con le deformazioni tipiche del lettore incallito quale è stato per tanti anni. Quanto al resto, è in attesa di vendere il suo patrimonio a una casa editrice straniera, ma le trattative si sono arenate da molto tempo. Vive in una potente e angosciosa psicosi da epilogo finale. E nulla e nessuno è ancora riuscito a convincerlo che invecchiare ha il suo fascino. Ce l'ha?


Ora è in visita a casa dei suoi anziani genitori e li sta guardando dall'alto in basso, con curiosità per nulla contenuta. È lì per raccontare loro come è andato il suo recente soggiorno a Lione. Oltre al mercoledì – appuntamento obbligato – conserva la vecchia abitudine di andare a trovarli quando torna da qualche viaggio. Negli ultimi due anni non gli è arrivato neanche un decimo degli inviti all'estero che riceveva prima, ma ha celato questo dettaglio ai suoi genitori, ai quali ha anche nascosto di aver chiuso la casa editrice per non dar loro dei dispiaceri, in considerazione del fatto che hanno un'età troppo avanzata, e visto che, inoltre, è certo che non la prenderebbero per niente bene.

È contento ogni volta che lo invitano da qualche parte anche perché, tra l'altro, ciò gli permette di continuare a interpretare agli occhi dei genitori la finzione delle sue molteplici attività. Nonostante presto compirà sessant'anni, nei loro confronti, come si può notare, ha una forte dipendenza, forse perché non ha figli, e i genitori, dal canto loro, hanno solo lui: figlio unico. È arrivato perfino a compiere viaggi in luoghi che non lo attiravano gran che solo per poter poi raccontare il viaggio ai suoi genitori e preservare la loro convinzione – non leggono i giornali né guardano la televisione – che continui a pubblicare e che sia richiesto in molti posti e che, pertanto, le cose continuino ad andargli molto bene. Ma non è affatto così. Se quando era editore era abituato ad avere una vivace attività sociale, ora a malapena ne ha una, per non dire nessuna. Alla perdita di tante amicizie false si è unita l'angoscia che si è impossessata di lui da quando, due anni prima, ha cominciato ad astenersi dall'alcol. È un'angoscia che proviene sia dalla consapevolezza che, senza bere, sarebbe stato meno audace nel pubblicare, sia dalla certezza che la sua passione per la vita sociale era forzata, per nulla naturale, e che forse derivava solamente dal suo malsano timore per il disordine e la solitudine.

Niente gli sta andando molto bene da quando negli ultimi tempi corteggia la solitudine. Nonostante cerchi di non farlo precipitare nel vuoto, il suo matrimonio traballa non poco, anche se non sempre, perché la sua relazione di coppia passa attraverso i più diversi stadi, dall'euforia e dall'amore all'odio e alla devastazione. Ma ogni giorno si sente più instabile in tutto ed è diventato brontolone e lo infastidisce la maggior parte di ciò che vede durante la giornata. Cose dell'età, probabilmente. La verità è che comincia a sentirsi a disagio nel mondo e la prospettiva di compiere sessant'anni gli dà la sensazione di avere una corda al collo.

I suoi anziani genitori ascoltano sempre con grande curiosità e attenzione i suoi racconti di viaggio. A volte sembrano persino due copie identiche di Kublai Khan che ascoltano le storie raccontate da Marco Polo. Le visite che seguono a un viaggio del figlio sembrano potersi fregiare di un rango speciale, una categoria superiore rispetto a quelle più monotone e abituali di tutti i mercoledì. Quella di oggi ha raggiunto quel rango straordinario. Tuttavia sta succedendo qualcosa di strano, perché si trova da parecchio tempo con loro e non è ancora stato nemmeno capace di avvicinarsi all'argomento Lione. Il fatto è che non può spiegar loro nulla del suo passaggio per quella città, perché lì si è trovato talmente avulso dal mondo e il suo viaggio è stato così selvaggiamente cerebrale che non dispone di un solo aneddoto minimamente umano. Inoltre, la realtà di quanto è successo gli risulta antipatica. È stato un viaggio freddo, gelido, come quei percorsi ipnotici che ultimamente intraprende così spesso davanti al computer.

"E quindi sei stato a Lione" insiste sua madre, ora persino un po' inquieta.

Suo padre ha cominciato lentamente ad accendere la pipa e anche lui lo guarda con stupore, come domandandosi perché non racconti nulla di Lione. Ma che cosa può dir loro della sua permanenza in quella città? Non si metterà di certo a parlare della teoria generale del romanzo che è stato in grado di elaborare da solo, là nell'hotel lionese. A loro non potrebbe interessare minimamente la storia di come ha costruito quella teoria e, inoltre, non crede che sappiano molto bene cosa sia una teoria letteraria. E, supponendo anche che lo sappiano, è certo che il tema li annoierebbe profondamente. E potrebbero persino arrivare a scoprire che, come assicura Celia, negli ultimi tempi è troppo isolato, troppo scollegato dal mondo reale e rapito dal computer o, in sua assenza – come gli è accaduto a Lione –, dai suoi viaggi mentali.

A Lione ce l'aveva messa tutta per non mettersi in contatto con Villa Fondebrider, l'organizzazione che lo aveva invitato a tenere la conferenza sulla grave situazione dell'editoria letteraria in Europa. Forse perché né all'aeroporto né in hotel nessuno era venuto a riceverlo, Riba, quasi per vendicarsi del disprezzo dimostratogli dagli organizzatori, si era rinchiuso nella camera dell'hotel di Lione e li era riuscito a realizzare uno dei sogni di quando era editore e non aveva mai tempo: redigere una teoria generale del romanzo.

Ha pubblicato molti autori importanti, ma solo nel Julien Gracq del romanzo Le rive delle Sirti ha colto uno spirito di futuro. Nella sua camera di Lione, durante un'infinità di ore di reclusione, si era dedicato ad abborracciare una teoria generale del romanzo che, basandosi sugli insegnamenti colti sin dal primo momento in Le rive delle Sirti, individuava i cinque elementi che considerava imprescindibili nel romanzo del futuro. Gli elementi considerati essenziali erano: intertestualità; relazioni con l'alta poesia; coscienza di un paesaggio morale in rovina; leggera superiorità dello stile sulla trama; scrittura vista come un orologio che avanza.

Si trattava di una teoria audace, dato che proponeva il romanzo di Gracq, solitamente considerato antiquato, come il più evoluto di tutti. Aveva riempito un'infinità di fogli commentando i diversi elementi di quella idea di romanzo del futuro. Ma appena finito il suo duro lavoro, si era ricordato del "sacro istinto a non avere teorie" del quale parlava Pessoa , un altro dei suoi autori preferiti di cui aveva avuto l'onore in un certo momento di poter pubblicare L'educazione dello stoico. Si era ricordato di quell'istinto e aveva pensato a quanto a volte siano stupidi i romanzieri, e si era ricordato di diversi scrittori spagnoli dei quali aveva pubblicato storie che erano l'ingenuo prodotto di educate e dettagliate teorie. Che gran perdita di tempo, aveva pensato Riba, impadronirsi di una teoria per scrivere un romanzo. Ora lui poteva dirlo con pieno fondamento, visto che ne aveva appena scritta una.

Perché poi, se uno ha la teoria, aveva pensato Riba, a che scopo fare il romanzo? E nel momento stesso in cui se lo era domandato, e sicuramente per non provare una così forte sensazione di avere perso tempo, ritenendo di perderlo persino nel domandarselo, aveva capito che aver passato tante ore in hotel a scrivere la sua teoria generale in fondo gli aveva permesso di sbarazzarsene. Era forse disdicevole un fatto del genere? Certamente no. La sua teoria sarebbe continuata a essere ciò che era, lucida e audace, ma l'avrebbe distrutta gettandola nel cestino della stanza.

Per la sua teoria e per tutte quelle che c'erano state nel mondo aveva celebrato un segreto e intimo funerale e poi aveva abbandonato la città di Lione senza essersi mai messo in contatto con chi l'aveva invitato per parlare della grave – forse non così grave, aveva pensato per tutto il viaggio Riba – situazione dell'editoria letteraria in Europa. Era uscito dalla porta secondaria dell'hotel ed era tornato in treno a Barcellona, ventiquattro ore dopo il suo arrivo a Lione. A quelli di Villa Fondebrider non aveva lasciato nemmeno una lettera che giustificasse la sua invisibilità a Lione, o la sua strana fuga successiva. Aveva capito che tutto il viaggio era servito solo per mettere in piedi una teoria per poi celebrarne un intimo funerale. Se ne era andato con la fermissima convinzione che tutto quello che aveva scritto e teorizzato riguardo a ciò che doveva essere un romanzo non era stato altro che un verbale redatto con l'unico proposito di liberarsi del suo contenuto. O, per meglio dire, un verbale redatto con il proposito esclusivo di confermare che la cosa migliore al mondo è viaggiare e perdere teorie, perderle tutte.

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Anche se solo molto vagamente, Spider gli ricorda il personaggio di Un uomo che dorme , di Georges Perec , uno dei libri preferiti del suo catalogo. Perché lo attrae tanto la figura di questo Spider, di questo povero disgraziato, malato di mente che vaga confuso e perplesso per una vita che non comprende? Forse perché c'è qualcosa in Spider e in parte anche nel personaggio di Perec che è comune a tutto il mondo, che è comune a tutti. Ciò fa sì che a volte si identifichi con Spider, e altre con "l'uomo che dorme", che a sua volta gli induce il ricordo del Deserto rosso, il film di Antonioni del 1964, in cui Monica Vitti interpretava un personaggio dal profilo errante, uno Spider in versione femminile e avant la lettre, una donna perduta in un paesaggio industriale ermetico nel quale la calma delle apparenze non neutralizzava la sua incapacità di stabilire una comunicazione adeguata con quello che la circondava. Quel naufragio permanente, quel cedimento emozionale, finivano per trasformarla in un essere timoroso che, incapace di affrontare una realtà che sfuggiva totalmente alla sua comprensione, avanzava per spazi vuoti, in un deserto metafisico.

Per quello che sta vedendo, in Spider il clima mentale stabilisce sottili legami – specialmente grazie alla fotografia di Peter Suschitzky, che riflette uno stato d'animo depresso – con lo stile che ha sempre ammirato nel Deserto rosso. Anche qui, come accadeva in quel film, si percepisce l'evidenza che l'inutilità di qualsiasi tentativo di costruire razionalmente il mondo esterno implica necessariamente l'incapacità di creare una propria identità. E, giunto a questo punto, Riba si chiede di nuovo se non sia che lui è Spider. Come lui, a volte ha rapporti con fantasmi.

Quando nella sequenza più memorabile del film, Spider cerca di sapere chi è, lo vediamo arrivare a tessere una rete di corde nella sua stanza, come una ragnatela mentale che sembra riprodurre lo spaventoso funzionamento del suo cervello. A ogni modo, questi difficoltosi tentativi di ricomporre la sua personalità si riveleranno subito inefficaci. Cammina per le strade inospitali del suo East End londinese, per le fredde e vecchie tappe della sua infanzia irrecuperabile: ha perso ogni connessione con il mondo, non sa chi è; forse non l'ha mai saputo.

Ora Riba crede di udire voci nella penombra, e si domanda se non sia il genio dell'infanzia che un giorno sembrò scomparire per sempre. O forse il fantasma dello scrittore geniale che come editore avrebbe sempre desiderato scoprire? Si è trascinato per tutta la vita un profondo malessere per queste assenze. Tuttavia è molto peggio il rumore sordo di certe presenze, il brusio del male dell'autore, per esempio, un ronzio che non cessa, una vera mosca spaccapalle.

Quello strano ronzio è un male naturale per gli editori. Alcuni lo sentono più di altri, ma nessuno se ne libera completamente. Ci sono casi estremi, anche se Riba non è mai stato fra questi. Sono quelli degli editori – quelli che soffrono più acutamente del male dell'autore – che preferivano pubblicare libri che non fossero stati scritti da nessuno, perché così avrebbero evitato il ronzio e già che c'erano avrebbero visto che sarebbe stata solo per loro la gloria per ciò che avevano pubblicato.

Allo stesso modo in cui la morte accoglie al proprio interno il male della morte, vale a dire il suo stesso male, ci sono editori che vengono corrosi dalla loro idra più intima, il male dell'autore, che è un rumore di fondo, il cui suono ricorda il fruscio di foglie secche.

Un giorno, ad Anversa, Riba parlò del fruscio a Hugo Claus. Gli parlò della sua condanna a convivere con il male dell'autore e gli disse che il suo cervello era sempre perforato dalla sofferenza, da quel tenace mostro intimo dal ronzio bastardo, che sembrava essere sempre lì a ricordargli che nella vita non poteva essere nulla senza di lui, senza il male, senza quel rumore di fondo, senza quel fruscio così spietato, implacabile; a ricordargli sempre che il male, il rumore delle foglie secche, era un pezzo imprescindibile del meccanismo diabolico della sua orologeria mentale.

Hugo Claus, così famoso per La sofferenza del Belgio, lo compatì in silenzio e poi si limitò a commentare:

"La sofferenza dell'editore".


L'angoscia che trasmette ogni barlume di pazzia fa sì che si perda in una strana deriva nel pericoloso quartiere infantile che si trova ai confini della sua mente, lì dove sa che in ogni momento può perdersi per sempre. Ma all'ultimo istante riesce a sfuggire al pericolo cambiando pensieri, ricordando, per esempio, di avere un'intelligenza morale, anche se a volte gli sembra molto poco avere solo questo e altre volte molto. E alla fine sfugge al pericolo anche ricordando che il mese prossimo andrà a Dublino. E ricordando una frase di Monica Vitti nel Deserto rosso, una frase che a dire il vero — ora se ne rende conto — è pericolosa quasi quanto può esserlo per chiunque l'East End più delirante e più ossessivamente privato:

"Mi fanno male i capelli".

Anche lui ora potrebbe dire la stessa cosa. Spider sicuramente la direbbe. Spider, che vaga così perso per la vita, non sa che potrebbe imitarlo e ricostruire la sua personalità adattando i ricordi di altre persone, potrebbe trasformarsi in John Vincent Moon, un eroe di Borges , per esempio, o in un conglomerato di citazioni letterarie; potrebbe trasformarsi in un'enclave mentale dove potrebbero rifugiarsi e convivere diverse personalità e riuscire così, forse senza nemmeno troppo sforzo, a configurare una voce strettamente individuale, supporto ambiguo di un profilo eteronimo e nomade...

Non c'è dubbio che, forte dell'immaginazione e del pensiero, abbia una certa facilità a prendere la tangente e a complicarsi la vita. Sembra un discepolo di Carlo Emilio Gadda , lo scrittore italiano di cui ha pubblicato tre libri, che fu un nevrotico ammirevole decisamente fuori dal comune: si riversava interamente sulla pagina che stava scrivendo, con tutte le sue ossessioni. E tutto gli rimaneva incompleto. In un testo breve sul "risotto alla milanese" si complicò tanto la vita che finì per descrivere i chicchi di riso, uno per uno – persino quando ognuno di loro era ancora avvolto dal suo involucro, il pericarpio –, e non riuscì ovviamente a finire mai l'articolo.

Riba ha la tendenza a leggere la vita come un testo letterario e a volte a vedere il mondo come un groviglio o un gomitolo. E in quel momento, non appena Celia interrompe il film e la sua riflessione su Gadda e il risotto e la sua digressione su John Vincent Moon per dire, nel tono più prosaico possibile, che poi scalderà in forno le patate gratinate con la besciamella che sono avanzate dal pranzo, gli viene in mente una citazione di Jules Renard, un frammento perfetto: "Una ragazza di Londra lasciò l'altro giorno questa lettera: 'Vado a suicidarmi, il pranzo di papà è in forno'".

Gli sembra che Celia si comporti già come se fosse buddhista, e anche come se fosse convinta che tutto ciò che lui pensa lo porti a perdersi pericolosamente ai confini del suo East End.

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Pagina 56

Si considera tanto lettore quanto editore. Lo ha costretto a ritirarsi dall'editoria fondamentalmente la salute, ma gli sembra che in parte sia stato anche il vitello d'oro del romanzo gotico, che ha forgiato la stupida leggenda del lettore passivo. Sogna il giorno in cui la rottura dell'incantesimo del best-seller lascerà spazio alla ricomparsa del lettore di talento e al siglare di nuovo i termini del contratto morale tra autore e pubblico. Sogna il giorno in cui potranno respirare di nuovo gli editori letterari, quelli che si fanno in quattro per un lettore attivo, per un lettore sufficientemente aperto da comprare un libro e permettere che nella sua mente si faccia strada una coscienza radicalmente diversa dalla sua. Ritiene che se si pretende talento da un editore letterario o da uno scrittore, lo si deve pretendere anche dal lettore. Perché non ci si deve ingannare: il viaggio della lettura passa molte volte attraverso strade impervie che esigono la capacità di emozione intelligente, il desiderio di comprendere l'altro e di avvicinarsi a un linguaggio diverso da quello delle nostre tirannie quotidiane. Come dice Vilém Vok, non è così semplice percepire il mondo come lo percepì Kafka , un mondo in cui si nega il movimento e in cui risulta impossibile persino andare da un villaggio all'altro. Le stesse capacità necessarie per scrivere, sono necessarie per leggere. Gli scrittori deludono i lettori, ma succede anche il contrario e i lettori deludono gli scrittori quando in loro cercano solo la conferma del fatto che il mondo è come lo vedono...

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Pagina 79

Un'ora dopo tutti i movimenti sono già stati disposti. Meglio così, pensa. Meglio così, con i soldi divisi invece che in un solo posto. Sale su un altro taxi e torna a casa. Si sente mezzo sfinito, perché erano due anni che non faceva transazioni né metteva piede in una banca. Gli sembra di avere fatto uno sforzo sovrumano stamattina. Comincia a notare di avere una sete infinita. È stanco e ha molta sete. Sete di male, di alcol, di acqua, di tranquillità, di essere di nuovo a casa, soprattutto sete di male e di alcol. Gli piacerebbe farsi un goccetto e lanciarsi sulla cattiva strada. Dopo due anni di astinenza, sta confermando un vecchio sospetto: il mondo è molto noioso o, ed è la stessa cosa, ciò che vi accade manca di interesse se non c'è un bravo scrittore a raccontarlo. Ma era un vero sbattimento dover andare a caccia di quegli scrittori, e per di più non trovarne mai uno che fosse autenticamente geniale.


Qual è la logica tra le cose? Davvero nessuna. Siamo noi a cercarne una tra un segmento e l'altro di vita. Ma questo tentativo di dare forma a ciò che ne è privo, di dare forma al caos, sanno condurlo in porto solo i buoni scrittori. Per fortuna è ancora in amicizia con alcuni di loro, anche se è altrettanto vero che ha dovuto organizzare il viaggio a Dublino per non perderli. Dal punto di vista amicale e creativo, è con l'acqua alla gola da quando ha chiuso la sua attività. In fondo gli manca il contatto continuo con gli scrittori, quegli esseri così assurdi e strani, così egocentrici e complicati, nella maggior parte dei casi così imbecilli. Ah, gli scrittori. Sì, è vero che gli mancano, anche se erano molto pesanti. Tutti così ossessivi. Ma non si può negare che lo abbiano sempre intrattenuto e divertito molto, soprattutto quando – e qui sorride maliziosamente – pagava anticipi più bassi di quelli che poteva dare loro contribuendo così a renderli ancora più poveri. Maledetti disgraziati.

Ora ne ha bisogno anche più di prima. Gli piacerebbe che qualcuno si ricordasse e lo chiamasse per la presentazione di qualche romanzo, o per un congresso sul futuro del libro, o semplicemente per interessarsi a lui. L'anno scorso c'è stato ancora qualcuno che si è disturbato a chiamarlo (Eduardo Lago, Rodrigo Fresàn, Eduardo Mendoza), ma quest'anno neanche uno. Lui si guarderà bene dal chiederlo in ginocchio, sarebbe l'ultima cosa che farebbe in vita sua. Implorare che gli permettano di partecipare a qualche presentazione o a qualche nuovo canto del cigno del libro! Ma crede che siano molti quelli che gli devono parte del loro successo e che potrebbero ricordarsi di lui per qualche evento di questo tipo o per qualsiasi altra cosa. Anche se si sa: gli scrittori sono frustrati, gelosi fino alla malattia, sempre senza soldi e comunque sommamente ingrati, tanto se sono poveri quanto se sono poverissimi.

Siccome non beve più, non c'è pericolo che diventi loquace e divulghi in giro qualcuno dei suoi segreti. Quello meglio nascosto di tutti è con quanta soddisfazione si sente stronzo ogni volta che intimamente si vanta e si compiace della quantità di anticipi diminuiti ai romanzieri, soprattutto a questi, ai romanzieri, che sono di gran lunga i più insopportabili – più dei poeti o dei saggisti – quando decidono di diventare veramente intollerabili. È evidente che se diminuì gli anticipi fu perché gli sembrava che, data la sua scarsa propensione per le questioni finanziarie, se non contrattava e non si guadagnava la fama di taccagno, si sarebbe rovinato ancora di più. Se non avesse messo freno all'alcol e agli affari, sarebbe andato di certo verso una fine come quella di Brendan Behan: povero in canna e perennemente ubriaco. Pensa a quello scrittore irlandese e ai bar di New York che frequentava. E torna a pensare che oggi, dopo tutta quella attività bancaria, se non fosse che l'ha proibito a se stesso, ora, così su due piedi, si prenderebbe un bicchiere del liquore più forte.

"Liquori forti / come metallo fuso" diceva Rimbaud, certamente il suo scrittore preferito.

È stato un impulso suicida, ma cosa ci può fare se la sete è grande e lunga l'ombra della tentazione. E lunga ancora la vita così breve.

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Sono già anni che conduce una vita da catalogo. E difatti gli risulta ormai molto difficile sapere chi è veramente. E, soprattutto, quel che è ancora più difficile: sapere chi avrebbe realmente potuto essere. Chi era l'uomo che stava lì prima che iniziasse a fare l'editore? Dove si trova quella persona che gradualmente era rimasta nascosta dietro al brillante catalogo e la sistematica identificazione con le voci più attrattive dello stesso? Gli vengono ora in mente alcune parole di Maurice Blanchot, parole che da tempo conosce molto bene: "E se scrivere fosse, nel libro, farsi leggibili per tutti, e indecifrabili per se stessi?".

Della sua attività di editore, ricorda un punto di inflessione il giorno in cui lesse queste parole di Blanchot; a partire da quel momento, cominciò a osservare come i suoi autori, pubblicando libro dopo libro, si facevano sempre più drammaticamente indecifrabili per se stessi mentre al contempo diventavano sporcamente molto visibili e leggibili per il resto del mondo, a cominciare da lui, il loro editore, che vedeva nel dramma dei suoi autori un'ulteriore conseguenza dei rischi del mestiere, in questo caso, dei rischi del pubblicare.

"Ah," disse loro un giorno, con grande cinismo, a una riunione a cui partecipavano quattro dei suoi migliori autori spagnoli, "il vostro problema è stato pubblicare. Siete stati molto insensati a farlo. Non so come non abbiate presentito che pubblicare vi avrebbe reso indecifrabili a voi stessi e vi avrebbe inoltre collocato sulla strada di un destino da scrittore, che nel migliore dei casi contiene sempre le strane sementi di una sinistra avventura."

Dietro a queste ciniche parole, Riba nascondeva il suo dramma personale. Condurre una vita da editore gli aveva impedito di sapere chi era la persona che gradualmente rimaneva sempre più nascosta dietro al brillante catalogo.

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Di notte, gli viene in mente una frase di Mark Strand che potrebbe aggiungere in quel documento world in cui annota ciò che desta la sua attenzione durante il giorno, un documento che cresce quasi a sua insaputa, come se le frasi che trova sul suo cammino cadessero come fiocchi di neve, "come di neve in Alpe sanza vento", con le parole di Dante nell' Inferno.

La frase di Mark Strand recita così: "La ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere". Lui cerca davvero la leggerezza? Quando si rende conto che tutti i suoi movimenti di questa notte sembrano dirigersi verso una perdita di gravità e orientati verso il momento stesso in cui si deciderà a prendere una boccata d'aria e a compiere definitivamente il leggero salto inglese, comprende che in realtà si è trasformato in colui che attende quel salto, che all'inizio era solo un'immagine gentile, una figura retorica.

Imbocca il corridoio di casa sua, va a consultare un libro di Italo Calvino , dove pure si parla della leggerezza. E lì trova l'episodio del salto del poeta Cavalcanti. In questo caso, un salto italiano. Rimane piuttosto impressionato dalla relativa coincidenza, e letteralmente inchiodato davanti alla libreria. E quando finalmente riesce a muoversi, va a sedersi con il libro sulla grande poltrona, la sua preferita. Celia dorme, probabilmente felice, se si attiene alle ultime parole che gli ha detto: "Tu mi devi amare sempre come oggi".

Non ricordava il salto di cui l'agile poeta fiorentino Guido Cavalcanti è protagonista in un episodio del Decameron di Boccaccio, e gli sembra di trovare nella casuale scoperta un impulso in più, nella sua rabbiosa mania e necessità di essere ogni giorno più straniero, per osare fare il salto inglese. Per Calvino, nulla illustra meglio la sua idea che una necessaria leggerezza deve sapersi inscrivere nella vita e nella letteratura come il racconto del Decameron di Boccaccio, che ha per protagonista il poeta Cavalcanti, un austero filosofo che passeggia meditando tra sepolcri di marmo, davanti a una chiesa fiorentina.

Boccaccio racconta che la gioventù dorata della città – ragazzi che cavalcano in gruppo e hanno in antipatia Cavalcanti perché non è mai voluto andare con loro a divertirsi – lo circonda e cerca di prendersi gioco di lui. "Tu rifiuti d'esser di nostra brigata," gli dicono, "ma ecco, quando tu avrai trovato che Idio non sia, che avrai fatto?". In quel momento Cavalcanti, vedendosi circondato da loro, prontamente dice: "Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace". E, mettendo la mano su uno dei sarcofagi, che sono grandi, da agilissimo qual è fa un salto, ricade dall'altra parte e, liberandosi da loro, se ne va.

Lo sorprende quell'immagine visiva di Cavalcanti che si libera d'un salto "sì come colui che leggerissimo era". Lo sorprende l'immagine e il frammento boccacciano gli provoca, oltretutto, un desiderio immediato di cadere dall'altra parte. Gli viene in mente che, se dovesse scegliere un simbolo adatto per affacciarsi ai nuovi ritmi che muovono la sua vita, opterebbe per questo: l'agile salto repentino del poeta filosofo che si alza al di sopra della pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre tutto ciò che molti considerano la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, rabbiosa e assordante, appartiene al regno della morte, come un cimitero di automobili arrugginite.

E poco dopo gli tornano alla memoria le parole di un libro che, come accadde con la raccolta di saggi di Calvino, fu decisivo nei suoi primi anni da lettore. Il libro era Breve lettera del lungo addio di Peter Handke. Lo lesse negli anni settanta, e crede di ricordare che lì trovò il tono di voce della sua generazione, o quanto meno quello che lui desiderava avere una volta che fosse diventato editore, perché già dall'inizio gli era sembrato che non fosse una prerogativa degli scrittori il privilegio della scelta di una voce, e che anche gli editori avessero più che meritato quel diritto ad acquisire un tono determinato e a lasciare che quel tono, quello stile, pervadesse sempre il loro catalogo.

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Pagina 116

Lo affascina la grazia della vita di tutti i giorni. È vero che a volte lo angoscia essere rimasto così bloccato, così autista informatico, ed è anche vero che a volte lo angoscia condurre una vita senza i sussulti di prima. Ma in linea di massima si infonde ogni giorno la parola d'ordine che quanto più insignificante sarà ciò che succede, tanto meglio andranno le cose. Come futuro membro dell'Ordine del Finnegans e presunto buon conoscitore dell'opera di Joyce, sa che il mondo funziona mediante futilità. Dopotutto, la maggior scoperta di Joyce nell' Ulysses fu aver capito che la vita è fatta di cose triviali. Il trucco glorioso che Joyce mise in pratica fu di prendere le cose assolutamente quotidiane per dare loro una base eroica di portata omerica. Fu una buona idea, sì, anche se non ha mai smesso di pensare che si tratti di un inganno. Ma non per questo priverà del suo simbolismo il funerale che vuole organizzare a Dublino, non lo priverà della grandezza che l'occasione richiede. Niente meno che un requiem per la fine di un'epoca in cui proprio Joyce regnò. Senza grandezza, oltretutto, la parodia non si capirebbe. D'altra patte, quell'aspetto magniloquente e simbolico dovrà sicuramente convivere – così come succede anche nell' Ulysses – con la processione mondana di trivialità proprie di ogni viaggio. Tale convivenza può persino cominciare già a immaginarla: lui a Dublino, a congedarsi con un certo impulso eroico e grandezza funerea da un'epoca storica e al tempo stesso lui a Dublino in contatto con la tranquillizzante normalità della quotidianità, vale a dire, lì a comprare magliette nei grandi magazzini, a divorarsi del volgare pollo al curry in un'osteria di O'Connell Street, insomma, a tenere il ritmo grigio della prosaicità.

Grandi contrasti tra la grandezza e la prosaicità, tra l'impulso eroico e il pollo al curry. Gli scappa da ridere. Forse l'impulso eroico oggi è qualcosa di totalmente volgare e normale. Ma allora, cosa deve essere veramente l'impulso eroico? Pensa a quell'impulso come se fosse qualcosa di molto evidente e di fatto non sa bene cos'è.

"Sapevi che uno degli esercizi praticati nei monasteri buddhisti è attraversare ogni momento della vita vivendolo pienamente?" gli domanda Celia.

È entrata nello studio, e a quanto pare il suo primo giorno da buddhista non gli consentirà di comportarsi molto da hikikomori. Riba è colto di sorpresa perché Celia non entra mai in quella stanza senza bussare.

"Nei monasteri buddhisti ti aiutano a pensare" dice Celia con tutta naturalezza, come se, entrando lì, non avesse appena infranto una norma interna della casa.

"Non so di cosa mi stai parlando."

"No? Te lo spiego meglio. Nei monasteri buddhisti ti aiutano a dire a te stesso, per esempio: ora è mezzogiorno, ora sto attraversando il cortile, ora incontrerò il monaco superiore, e al tempo stesso a pensare che il mezzogiorno, il cortile e il monaco superiore sono irreali, sono tanto irreali quanto la persona e quanto i suoi pensieri. Perché il buddhismo nega l' io."

"È qualcosa che io non ignoro."

Si accorge che il conflitto che voleva eludere si sta affacciando, e pensa di nuovo che non vuole assolutamente vivere in un romanzo. Ma la verità è che sta accadendo quel che si temeva: non sarà molto facile convivere con qualcuno che nelle ultime settimane è cambiato molto e che ora ha una visione del mondo marcatamente religiosa e molto diversa dalla sua.

Celia crede di indovinare ciò che pensa, e lo calma. Gli dice che non deve agitarsi, perché il buddhismo è dolce, il buddhismo è buono e, per di più, il buddhismo è solo una filosofia, uno stile di vita, in fondo solo una tecnica di miglioramento personale.

Uno degli argomenti di meditazione del buddhismo, gli spiega Celia, è l'idea che non ci sia soggetto, se non una serie di stati mentali. E un altro degli argomenti è pensare che la nostra vita passata è stata illusoria. Deve calmarsi, gli dice Celia. E lui, siccome non sa cosa risponderle, dice che è disposto a calmarsi ma non dentro a un romanzo.

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