Autore Slavoj Žižek
Titolo Il coraggio della disperazione
SottotitoloCronache di un anno agito pericolosamente
EdizionePonte alle Grazie, Milano, 2017, Saggi , pag. 412, cop.fle., dim. 13,8x20,5x3,5 cm , Isbn 978-88-6833-670-7
OriginaleThe Courage of Hopelessness: Chronicles of a Year of Acting Dangerously
EdizionePenguin, London, 2017
TraduttoreValentina Salvati, Valentina Paradisi, Vincenzo Ostuni
LettoreGiorgia Pezzali, 2017
Classe politica , filosofia , sociologia , economia , religione , psicanalisi , movimenti , globalizzazione , storia contemporanea












 

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Indice


    Introduzione. V per vendetta, parte II                                7


    PARTE PRIMA. Alti e bassi del capitalismo globale

1.  Il disagio del capitalismo globale                                   25

    — Perturbazioni sotto una campana, p. 25
    — La campana, Oriente e Occidente, p. 32
    — La campana truccata I: perché un cane si lecca le palle?, p. 39
    — La campana truccata II: accordi di «libero scambio», p. 41
    — La campana truccata III: una discesa nel Maelstrφm, p. 46
    — Il progresso verso la schiavitù e il precariato, p. 50
    — Faire Bouger les Choses, p. 52
    — Non sottosvalutate il feticcio della democrazia!, p. 56
    — Oltre il capitalismo, p. 62
    — I commons cooperativi, p. 67

2.  Syriza, l'ombra di un Evento                                         79

    — Una rinascita di Syriza?, p. 79
    — I problemi della governabilità di sinistra, p. 84
    — Indebitati, sì, ma non colpevoli!, p. 88
    — Da Syntagma a Paradigma, p. 95
    — Referendum, p. 102
    — L'apocalisse, p. 109
    — Una preghiera per il socialismo burocratico, p. 119

3.  La religione e i suoi contenuti                                     133

    — La modernità alternativa della Cina, p. 133
    — Cina, religione e ateismo, p. 154
    — Ateismo, quale tipo di ateismo?, p. 161
    — Che ne sarà del sionismo?, p. 168
    — Islamocentrismo? No, grazie!, p. 177
    — Le radici musulmane della modernità?, p. 183
    — Il ritorno della religione?, p. 187


    PARTE SECONDA. Il teatro d'ombre dell'ideologia

4.  La «minaccia del terrorismo»                                        193

    — Forme di solidarietà falsa, p. 193
    — Il fondamentalismo è premoderno o postmoderno?, p. 202
    — Femminismo colonialista, antifemminismo anticolonialista, p. 209
    — «Béte et méchant», p. 215
    — Terroristi dal volto umano, p. 223
    — La risposta di Ciacco, o, stranieri in una terra straniera, p. 233

5.  Il sesso (non) è politica                                           244

    — Le trappole del politicamente corretto, p. 244
    — Uniti contro l'eterosessismo, p. 256
    — Un caso di pseudo-lotta, p. 262
    — Differenza sessuale, gerarchia o antagonismo?, p. 268
    — Le impasse del transgender, p. 276
    — L'interpellare mancato, p. 286
    — Antagonismo universale, p. 293

6.  La tentazione populista                                             303

    — La semplice arte di defecare in pubblico, p. 303
    — L'inizio di una bella amicizia?
      Quando la sinistra scopre l'appartenenza, p. 313
    — Una crisi nella fabbrica del consenso, p. 324
    — Brexit, o, la confusione sotto il cielo, p. 325
    — Una forza di legge che si auto-annulla, p. 330
    — I volti del deficit democratico, p. 332
    — Un trionfo dell'ideologia, p. 341
    — Clinton Duterte Trump, p. 346
    — Che fare, di Trump e di noi?, p. 363


    Gran finale: la solitudine del poliziotto globale                   376

    Note                                                                391


 

 

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L'operazione ideologica di base compiuta da Stalin consisté proprio nel rigirare la lettura della situazione che Lenin aveva fornito: Stalin presentò l'isolamento dell'Unione Sovietica come la possibilità straordinaria di costruire il socialismo in un solo Paese. In quella situazione storica, la formula di Stalin esprimeva una speranza. E però, il decennio successivo mise in evidenza il prezzo pagato per provare a mantenersi all'altezza di quella speranza: purghe, carestie, ecc. La lezione del comunismo novecentesco è questa: dobbiamo raggranellare le forze necessarie ad accettare la disperazione. In un'intervista, Giorgio Agamben ha dichiarato che «il pensiero è il coraggio della disperazione», un'intuizione che si adatta in misura particolare al nostro momento storico, in cui persino la diagnosi più pessimista si conclude con l'edificante allusione all'una o all'altra proverbiale versione della luce in fondo al tunnel. Il vero coraggio non sta nell'immaginare un'alternativa, ma nell'assumere le conseguenze del fatto che non è chiaramente discernibile alcuna alternativa: il sogno di un'alternativa è segno di vigliaccheria teorica, funziona come un feticcio che ci impedisce di pensare fino in fondo lo stallo in cui versiamo. In breve, il vero coraggio è ammettere che la luce alla fine del tunnel è probabilmente il faro di un altro treno che ci viene addosso in senso contrario.

Di recente, questo treno ha assunto molte forme diverse. Negli ultimi anni, i problemi nel paradiso del capitalismo globale sono esplosi a quattro livelli, mostrando quattro figure del nemico: la rinnovata minaccia del terrorismo fondamentalista (la dichiarazione di guerra contro l'ISIS, Boko Haram...); le tensioni geopolitiche fra e verso le nuove potenze extraeuropee (Cina e specialmente Russia); l'ascesa di nuovi movimenti radicali di emancipazione in Europa (Grecia e Spagna, per il momento); il flusso di rifugiati che attraversa il Muro che divide «Noi» da «Loro» e dunque «minaccia il nostro modo di vita». Θ di fondamentale importanza considerare queste minacce nelle loro reciproche connessioni: non nel senso che sono quattro facce dello stesso Nemico, ma nel senso che rappresentano aspetti della stessa «contraddizione» immanente al capitalismo globale. Nonostante il fondamentalismo e il flusso dei rifugiati appaiano i due più minacciosi (l'ISIS non è forse una brutale negazione dei nostri valori?), la tensione con la Russia rappresenta un pericolo molto più grave per la pace in Europa, e i movimenti, come Syriza prima della sua capitolazione, minano dall'interno la versione neoliberista del capitalismo globale. Bando agli equivoci: le potenze occidentali possono benissimo coesistere con i regimi fondamentalisti; mentre nel caso di Putin il problema è, in termini geopolitici, come contenere la Russia (ricordiamoci che la sua ascesa è il frutto della sciagurata e corrotta epoca Eltsin, degli anni in cui i consulenti economici occidentali contribuirono a umiliare la Russia e a portarla alla rovina). E così, nonostante gli Stati Uniti abbiano formalmente dichiarato guerra all'ISIS e non si faccia che parlare del rischio di una nuova guerra con la Russia, il vero pericolo verrebbe dai nuovi movimenti d'emancipazione moderati e «gentili», dalla greca Syriza ai seguaci di Bernie Sanders negli Stati Uniti, e dalla loro presunta radicalizzazione. A causa di questa percezione erronea della politica radicale, viviamo un momento di pseudoconflitti: nel Regno Unito Brexit sì o no, in Turchia l'esercito o Erdogan, in Europa orientale i nuovi fondamentalismi baltici, polacchi e ucraini oppure Putin, in Francia il burkini o il seno nudo, in Siria Assad o l'ISIS... In tutti questi casi, anche se preferiamo leggermente un corno all'altro, l'atteggiamento fondamentale dovrebbe rimanere l'indifferenza, come rende al meglio la riposta di Stalin alla domanda, postagli verso la fine degli anni Venti, su quale fosse peggiore, la deviazione di destra o di sinistra: «Sono peggiori entrambe!» Sotto questi pseudoconflitti si nasconde ancora una possibilità di cambiamento autentico? Sì, perché la funzione di simili pseudoconflitti è proprio di bloccare l'esplosione dei conflitti reali.

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Certo, potremmo sostenere che le ripetute sconfitte della sinistra siano solo tappe in un lungo processo formativo che potrebbe condurre alla vittoria: ad esempio, Occupy Wall Street ha creato le condizioni per il movimento di Bernie Sanders, che è forse a sua volta il primo passo verso un movimento di sinistra ampio e organizzato. E però, il meno che si possa dire è che, a partire dal 1968, il sistema di potere ha dimostrato una straordinaria abilità nell'utilizzare i movimenti di contestazione come fonte del proprio rinnovamento. Ma se il quadro è così desolato, perché non rinunciamo e non ci rassegniamo a un modesto riformismo? Il problema è, semplicemente, che íl capitalismo globale ci mette davanti a una serie di antagonismi che non è possibile controllare e neppure contenere entro la cornice della democrazia capitalista globale. Lo slogan «i robot lavoreranno al posto vostro e lo Stato dovrà pagarvi il salario» è stato escogitato nientemeno che da Elon Musk, personaggio emblematico della Silicon Valley, fondatore di SolarCity e di Tesla:

La forza-lavoro del futuro parrebbero essere i computer, le macchine intelligenti e i robot. E a mano a mano che gli impieghi umani verranno svolti dalle tecnologie, le persone avranno meno da lavorare e finiranno per dovere essere mantenute da trasferimenti governativi, predice Elon Musk. Secondo Musk, non ci sarà altra scelta: «Ci sono ottime possibilità che, per via dell'automazione, finiremo per percepire tutti un reddito di base universale o qualcosa del genere».

Se non è questa la fine del capitalismo, allora qual è? Va anche notato che la proposta di Musk richiede un governo forte, non una qualche forma di rete di cooperative locali. Dunque oggi l'unica vera domanda è questa: sosteniamo la predominante accettazione del capitalismo come fatto di natura (umana), o l'odierno capitalismo globale contiene antagonismi abbastanza forti da impedirne l'indefinita riproduzione? Ci sono quattro antagonismi di questo tipo. Riguardano (1) (1) i beni comuni della cultura nel suo senso più ampio di capitale «immateriale»: le forme immediatamente socializzate di capitale «cognitivo», in primo luogo il linguaggio, i nostri mezzi di comunicazione e istruzione, per non parlare della sfera finanziaria, con le assurde conseguenze della circolazione incontrollata di denaro virtuale; (2) i beni comuni della natura esterna, minacciata dall'inquinamento umano: i vari pericoli specifici – il riscaldamento globale, la moria dei mari, ecc. – sono tutti aspetti del deragliamento del sistema complessivo di riproduzione vitale sulla terra; (3) i beni comuni della natura interna (l'eredità biogenetica dell'umanità): con le nuove tecnologie biogenetiche, la creazione di un Uomo Nuovo – nel senso letterale di un cambiamento della natura umana – diviene una prospettiva realistica; e, da ultimo ma non da meno, (4) i beni comuni dell'umanità stessa, dello spazio condiviso sociale e politico: più globale diventa il capitalismo, più sorgono muri e apartheid, che separano chi è DENTRO da chi è FUORI. La divisione globale viene accompagnata dal nascere di tensioni fra nuovi blocchi geopolitici (lo «scontro di civiltà»). Questo riferimento ai beni «comuni» giustifica la rinascita della nozione di comunismo: essa ci consente di vedere le progressive «recinzioni» dei beni comuni come un processo di proletarizzazione di coloro che vengono così esclusi dalla stessa sostanza della propria vita.

Solo il quarto antagonismo, il riferimento agli esclusi, giustifica il termine «comunismo»: i primi tre riguardano di fatto la sopravvivenza economica, antropologica, persino fisica dell'umanità; il quarto, in ultima analisi, riguarda la giustizia. Ma qui ci imbattiamo nell'antica e noiosa questione del rapporto fra socialismo e comunismo: perché chiamare «comunismo» la meta del processo di emancipazione radicale? Nella tradizione marxista, il socialismo viene notoriamente (e tristemente) concettualizzato come stadio iniziale del comunismo, e si suppone che fra socialismo e comunismo vi sia un «progresso». (C'è poco da meravigliarsi dell'abbondanza di storielle sulla triste realtà della vita sotto il «socialismo reale», come quella, molto famosa, di un gruppo di persone che a Mosca legge un cartello propagandistico: «Fra vent'anni avremo finalmente il comunismo!» Uno di loro comincia a ridere e a saltare di piacere e di gioia, e quando gli altri gliene chiedono il perché risponde: «Ho il cancro! Fra vent'anni sarò morto!»). Tuttavia la realtà fu diversa: i Paesi socialisti cominciarono spesso con qualche versione di comunismo primitivo ma radicale (l'Unione Sovietica nel 1918-20, ecc.) e poi, per poter sopravvivere, dovettero «regredire» e stringere compromessi con la vecchia società: la linea di sviluppo si mosse dunque dal comunismo al socialismo (che combinava vecchio e nuovo). Il peggio che potremmo fare oggi è abbandonare il termine «comunismo» e propugnare una forma annacquata di «socialismo democratico». Il compito che ci troviamo ad affrontare è proprio la reinvenzione del comunismo, un cambiamento radicale che si spinge molto oltre una vaga nozione di solidarietà sociale. Poiché, nel corso del processo storico del mutamento, è il suo stesso scopo a dover essere ridefinito, possiamo dire che il «comunismo» va reinventato in quanto nome di ciò che emerge come scopo dopo il fallimento del socialismo.

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L'approccio al comunismo – per come esposto in parecchi miei libri recenti – è stato fatto oggetto di una serie di critiche. Riassumendo, i miei critici vi identificano cinque peccati principali: il mio (apertamente ammesso) eurocentrismo, vale a dire la mia insistenza sulle radici europee del processo di emancipazione universale; il rifiuto della proposta della Piattaforma di Sinistra greca di rischiare misure più drastiche (Grexit, ecc.) dopo il referendum vinto dal governo di Syriza; la mia critica dell'elevazione di rifugiati e migranti a una nuova sorta di proletariato globale e la mia insistenza sui problemi dell'identità culturale; i miei dubbi su alcune componenti ideologiche del movimento LGBT+; e infine, ultimo ma non meno importante, il mio «sostegno» al «fascista» Donald Trump. Com'era da attendersi, questi rimproveri si combinano nella tesi che io sia di fatto un razzista eurocentrico e omofobico che contrasta ogni autentica politica radicale... Il presente libro affronta puntualmente questi rilievi critici.

Il coraggio della disperazione è certamente un libro dalle tinte fosche, ma preferisco essere un pessimista: non aspettandomi nulla, a tratti vengo piacevolmente sorpreso (di solito, infatti, le cose non vanno così male come potrebbero), mentre gli ottimisti – la cui speranza va ogni volta delusa – finiscono sempre per deprimersi. Le due parti del libro sviluppano la sua tetra diagnosi su due livelli: quello del caos politico-economico in cui ci troviamo – Alti e bassi del capitalismo globale – e quello del teatro ideologico nel quale si combattono le battaglie politiche ed economiche – Il teatro d'ombre dell'ideologia. (Questo teatro ideologico non è affatto un riflesso secondario della «vera» lotta economica, bensì il palcoscenico sul quale si combattono «vere» battaglie). La prima parte fornisce innanzitutto una panoramica dello stallo in cui versa il capitalismo globale; descrive poi il destino di Syriza come tentativo di evasione dall' imbroglio capitalista globale; termina con un riepilogo del modo in cui – dalla Cina a Israele – la religione sta tornando a costituire un fattore politico. La seconda parte comincia con l'analisi della cosiddetta «minaccia terroristica» del fondamentalismo religioso; tratta poi della battaglia mondiale sulla sessualità, che infuria fra i conservatori e le forze del politicamente corretto; termina con la rabbia populista come reazione prevalente a queste situazioni di stallo. Un breve epilogo traccia un quadro ancora più fosco del modo in cui le attuali tensioni geopolitiche potrebbero condurre a una terza guerra mondiale.

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L'eredità dell'Occidente in realtà non si esaurisce nella dominazione (post)colonialista e imperialista, è rappresentata anche dall'analisi critica della violenza e dello sfruttamento perpetrati dall'Occidente a danno del Terzo Mondo. La Francia avrà pure colonizzato Haiti, ma la Rivoluzione francese ha fornito il presupposto ideologico della ribellione che ha liberato gli schiavi e portato all'indipendenza di Haiti; il processo di decolonizzazione si è avviato quando le nazioni colonizzate hanno cominciato a pretendere gli stessi diritti che l'Occidente riservava per sé. Insomma, non bisogna dimenticare che l'Occidente fornisce i criteri effettivi con cui (allo stesso modo di chi lo critica) misura il proprio passato criminale. Affrontiamo qui la dialettica tra forma e contenuto: quando le colonie chiedono l'indipendenza e proclamano un «ritorno alle radici», la forma che assume questo ritorno (quella di uno Stato-nazione indipendente) è a tutti gli effetti occidentale. Nella sua vera sconfitta (la perdita delle colonie), l'Occidente così vince, riuscendo a imporre agli altri la propria forma sociale.

I tre tipi di soggettività che, secondo Alain Badiou , operano nel capitalismo globale non coprono l'intero campo. C'è la soggettività propria della classe media dell'Occidente egemone, ovvero di quanti si ritengono il faro della civiltà; ci sono alcuni che sono ossessionati dal desiderio di Occidente, e altri che, a causa del desiderio frustrato di Occidente, si rivolgono al nichilismo (auto)distruttivo. Ma c'è anche il tradizionalismo capitalista-globale: l'atteggiamento di quanti, pur partecipando appieno alle dinamiche del capitalismo globale, provano a contenerne gli eccessi destabilizzanti ricorrendo a un'etica o a un modo di vita tradizionale (confucianesimo, induismo, ecc.).

L'eredità di emancipazione dell'Europa non può essere ridotta ai «valori europei» nell'accezione imposta dall'ideologia dominante, ovvero a quei valori invocati dai mezzi di informazione nel trattare la minaccia dell'islam ai valori occidentali: al contrario, a minacciare più gravemente ciò che del patrimonio europeo meriterebbe di essere conservato è proprio chi oggi difende l'Europa (incarnando atteggiamenti populisti e xenofobi). Il pensiero di Platone è un evento europeo; l'egualitarismo radicale è europeo; il concetto della soggettività moderna è europeo; il comunismo è un evento europeo, se mai è esistito. Quando i marxisti celebrano il potere del capitalismo di dissolvere le vecchie lealtà, quando intravedono in questa dissoluzione una possibilità per l'emancipazione radicale, essi parlano in nome dell'eredità europea di emancipazione. Ecco perché Walter Mignolo e quanti si attestano su posizioni postcolonialiste anti-eurocentriche criticano Badiou e gli altri sostenitori del comunismo, ritenendoli sin troppo europei: scartano l'idea (giusta) del comunismo, che è europeo, e al posto del comunismo propongono l'adozione di tradizioni asiatiche, sudamericane o africane come fonte di resistenza al capitalismo globale. Va presa una decisione cruciale: resistiamo al capitalismo globale in nome delle tradizioni locali che ne sono minate, oppure accettiamo questa forza disgregante e contrastiamo il capitalismo globale in nome di un progetto di emancipazione universale? La ragione della grande popolarità riscossa dall'anti-eurocentrismo sta nel fatto che il capitalismo globale opera molto meglio quando a regolarne gli eccessi interviene una qualche tradizione antica: il capitalismo globale e le tradizioni locali non sono più in antitesi, sono dalla stessa parte.

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Θ molto semplice, la realtà che emerge è la divisione di classe. Le rivelazioni dimostrano che i ricchi vivono in un mondo separato, regolato da leggi distinte, le azioni legali e le autorità politiche sono gravemente corrotte non solo per tutelare i ricchi, ma anche per piegare sistematicamente lo stato di diritto in un modo che li soddisfi. Non varrà allora lo stesso discorso per la bancarotta di Enron, alla fine del 2001, una specie di glossa ironica, così potremmo interpretarla, al concetto di società a rischio? Le migliaia di dipendenti, che avrebbero perso lavoro e risparmi, erano certamente esposte a un rischio, ma senza alcuna scelta effettiva – il rischio doveva sembrargli una sorte cieca. Quanti invece avevano compreso i rischi, così come la possibilità di intervenire per tempo – i top manager –, hanno ridotto il più possibile il rischio vendendo titoli azionari e opzioni sui titoli prima del fallimento – quindi sarà pur vero che viviamo in una società che richiede scelte rischiose, ma alcuni (i manager di Wall Street) operano le loro scelte, mentre altri (la gente comune che paga il mutuo) si assumono il rischio...

Già in molti nella destra liberale hanno reagito ai Panama Papers incolpando gli eccessi dello Stato sociale (o di quanto ne resta): poiché sui patrimoni gravano imposte pesanti, non ci si meraviglia se i proprietari provano a spostarli dove le tasse sono più basse, una cosa che in definitiva non è affatto illegale. Per quanto sia una scusa ridicola (il fascicolo divulga transazioni che infrangono eccome la legge), questo ragionamento contiene un briciolo di verità e ci permette di soffermarci su due aspetti rilevanti. Innanzi tutto, il confine che separa le transazioni legali da quelle illegali è sempre più sfumato, e sí riduce spesso a una questione di interpretazione. In secondo luogo, quanti posseggono e spostano patrimoni sui conti all'estero e nei paradisi fiscali non sono mostri avidi ma individui che agiscono unicamente come soggetti razionali che provano a salvaguardare le proprie ricchezze. Nel capitalismo, non si può buttare via l'acqua sporca della speculazione finanziaria e tenere il bambino dell'economia reale: l'acqua sporca è a tutti gli effetti il sangue del bambino. Non si dovrebbe temere di andare fino in fondo: lo stesso ordinamento giuridico del capitalismo globale è, quanto al suo principio fondamentale, corruzione legalizzata. Se ci si chiede dove inizia il crimine (quali operazioni finanziarie siano illegali), non si tocca l'ambito legale, trattandosi di una questione eminentemente politica, una questione di potere.

Allora, perché migliaia di uomini d'affari e politici hanno fatto quello che i Panama Papers documentano? La soluzione è la stessa che si dà in risposta al noto indovinello triviale: perché i cani si leccano le palle? Perché possono.

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Non sottosvalutate il feticcio della democrazia!


Tutte queste complicazioni ci insegnano che, parafrasando il presidente Bush, non bisogna assolutamente sottosvalutare il potere distruttivo del capitale internazionale. In condizioni simili, un governo di sinistra «democraticamente eletto» può imporre un cambiamento radicale? La trappola che si cela qui è chiaramente riconoscibile nel saggio di Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo. Secondo Piketty, il capitalismo, l'unica scelta a disposizione che ci resta, va accettato, quindi la sola alternativa praticabile consiste nel lasciare che la macchina capitalista operi nel proprio ambito, che la giustizia egualitaria venga imposta politicamente, per mezzo di un potere democratico che disciplini il sistema economico e garantisca la redistribuzione. Una simile soluzione è utopica nel vero senso della parola. Il modello proposto, Piketty ne è consapevole, potrebbe funzionare soltanto se venisse applicato in tutto il mondo, al di là dei confini degli Stati-nazione (altrimenti il capitale fuggirebbe verso gli Stati che imponessero tasse più basse); l'estensione di questa misura a tutto il mondo presuppone un potere globale preesistente che abbia la forza e l'autorità per farla rispettare. Tuttavia, un potere globale di questa entità è inimmaginabile entro i confini del capitalismo globale odierno e del meccanismo politico che esso comporta – insomma, se questo potere esistesse, il problema di fondo sarebbe già risolto. Poi, quali altri provvedimenti bisognerebbe adottare per imporre a tutto il mondo la tassazione elevata che propone Piketty? Certamente l'unico modo per uscire da questo circolo vizioso è tagliare il nodo gordiano e agire. Non si danno mai le condizioni perfette per l'azione – si direbbe sia sempre troppo presto per agire, è nella natura dell'azione, ma bisognerà pur cominciare da qualche parte; in vista di un determinato intervento, bisogna solo considerare le complicazioni che deriveranno dall'azione. In altre parole, la vera utopia è immaginare un capitalismo globale come lo conosciamo oggi, che funzioni ancora come adesso, ma a cui si aggiunga l'onerosa pressione fiscale proposta da Piketty. Questo stesso utopismo si rileva nell'articolo di Joseph Stiglitz Democrazia nel XXI secolo – il titolo naturalmente allude al saggio di Thomas Piketty, ma con uno scarto importante, l'accento è spostato dal capitalismo al nostro sistema politico liberale democratico. Questa l'argomentazione conclusiva:

Quanto osserviamo – la stagnazione dei salari e l'aggravarsi delle disuguaglianze, proprio in concomitanza con l'aumento della ricchezza – non riflette le dinamiche di una normale economia di mercato, ma di ciò che chiamo «capitalismo surrogato». Il problema non risiede tanto nel modo in cui i mercati dovrebbero funzionare o in effetti funzionano, ma nel sistema politico, che non è riuscito ad assicurare che i mercati fossero concorrenziali e ha concepito delle norme a sostegno delle distorsioni dei mercati che permettono così alle grandi imprese e ai ricchi di sfruttare (come purtroppo accade) chiunque [...] Naturalmente i mercati non possono ignorare il contesto più ampio. Per giocare servono regole, e queste vengono stabilite attraverso processi politici [...] Così, le disuguaglianze ancora marcate previste da Piketty non riflettono inesorabili leggi economiche. Interventi lievi – tassare i capital gain e le successioni, investimenti più consistenti per estendere l'accesso all'istruzione, l'applicazione rigorosa delle leggi antitrust, riforme relative al governo d'impresa con l'obiettivo di contenere le retribuzioni dei dirigenti, e una regolamentazione finanziaria che ponga un freno all'efficienza con cui le banche sfruttano il resto della società – ridurrebbero sensibilmente le disuguaglianze e favorirebbero le pari opportunità. Se capiamo bene le regole del gioco, potremo persino riuscire a ristabilire quella crescita economica rapida e condivisa che ha distinto la classe media della società intorno alla metà del XX secolo. La questione principale che ci si pone oggi non riguarda realmente il capitale nel XXI secolo. Riguarda la democrazia nel XXI secolo.

Da un punto di vista formale, è certamente vero: l'organizzazione di un'economia di mercato è effettivamente possibile solo all'interno di coordinate giuridiche che da ultimo vengono stabilite dal processo politico. Inoltre si giustifica appieno la riflessione di Stiglitz secondo cui, per cambiare concretamente il capitalismo, andrebbe cambiato il modo in cui funziona la democrazia. Ma è a questo punto che arrivano i problemi. In che senso la democrazia costituisce un problema? Secondo Stiglitz, sembra basti far rispettare nuove regole (leggi che disciplinino la vita economica) all'interno di una preesistente cornice democratica – abbiamo bisogno di un governo eletto per approvare alcuni «interventi lievi» come «tassare i capital gain e le successioni, investimenti più consistenti per estendere l'accesso all'istruzione, l'applicazione rigorosa delle leggi antitrust, riforme relative al governo d'impresa con l'obiettivo di contenere le retribuzioni dei dirigenti, e una regolamentazione finanziaria che ponga un freno all'efficienza con cui le banche sfruttano il resto della società». Ma in questo modo riusciamo davvero a immaginare che sia possibile la trasformazione della società? A questo riguardo l'idea portante di Marx resta valida, forse più che mai: secondo Marx, la questione della libertà non dovrebbe essere posta anzitutto sul piano della politica (ci sono elezioni libere nel Paese? I giudici sono indipendenti? La stampa è libera da pressioni nascoste? I diritti umani vengono rispettati?). Piuttosto, l'essenza della libertà vera e propria sta nella rete «apolitica» delle relazioni sociali, dal mercato alla famiglia. Il necessario cambiamento non coincide allora con le riforme politiche ma con una trasformazione delle relazioni sociali di produzione – che implicano appunto la lotta di classe rivoluzionaria anziché elezioni democratiche o qualunque altra misura strettamente «politica». Il nostro voto non riguarda chi possiede cosa, o le relazioni in fabbrica, ecc. – questi temi sono esclusi della sfera politica, ed è un'illusione aspettarsi che si possano cambiare concretamente le cose «estendendo» la democrazia alla sfera economica (magari riorganizzando le banche in modo che siano sotto il controllo popolare). I cambiamenti radicali in questo ambito devono avvenire al di fuori della sfera dei «diritti» legali. Nelle procedure democratiche (che, senza dubbio, possono svolgere un ruolo positivo), a prescindere da quanto sia radicale il nostro anti-capitalismo, si cercano soluzioni unicamente attraverso i meccanismi democratici che formano essi stessi l'apparato dello Stato «borghese» che garantisce la riproduzione indisturbata del capitale. Appunto in questo senso si può ritenere corretta l'affermazione, in apparenza strana, di Badiou: «il nemico oggi non si chiama Impero o Capitale. Si chiama Democrazia». Quando poi Badiou aggiunge che la democrazia è il nostro feticcio, bisogna prenderlo alla lettera, nel senso strettamente freudiano, non solo nel più vago senso secondo cui eleviamo la democrazia ad Assoluto intoccabile: la «democrazia» è l'ultima cosa che vediamo prima di affrontare la «mancanza» costitutiva del campo sociale, il fatto che «non c'è relazione di classe» (se mi è permesso parafrasare la formula di Lacan «non c'è relazione sessuale»), il trauma dell'antagonismo sociale. Θ come se, di fronte alla realtà del dominio e dello sfruttamento, delle lotte sociali brutali, potessimo sempre aggiungere: sì, ma abbiamo la democrazia, che ci lascia la speranza di ricomporre o almeno di regolamentare le lotte, prevenendone gli esiti distruttivi. Θ l'«illusione democratica» – e quindi l'accettare il fatto che siano i meccanismi democratici a fornirci l'unica struttura per qualunque possibilità di cambiamento – che ostacola la trasformazione radicale della società.

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Così, i contatti personali vengono privatizzati da Facebook, i programmi da Microsoft, la ricerca da Google... Per comprendere queste nuove forme di privatizzazione, occorre trasformare criticamente l'apparato concettuale di Marx: avendo trascurato la dimensione sociale del «general intellect» (l'intelligenza collettiva della società), Marx non poteva prevedere la possibilità della privatizzazione dello stesso «general intellect» – il fulcro delle dispute intorno alla «proprietà intellettuale». Antonio Negri ha ragione: all'interno di questa cornice, lo sfruttamento, nell'accezione marxista classica, non è più possibile – perciò deve essere imposto ricorrendo con maggiore frequenza a provvedimenti legali mirati, ovvero, all'intervento di una forza non-economica. Ecco perché oggi lo sfruttamento assume sempre più la forma della rendita: per dirla con Carlo Vercellone , il capitalismo post-industriale è contraddistinto dal «divenire rendita del profitto». Per questo motivo è necessaria un'autorità diretta: ce n'è bisogno per imporre le condizioni legali (arbitrarie) per ricavare la rendita, condizioni che il mercato non genera più «spontaneamente». Forse riposa qui la contraddizione fondamentale del capitalismo «postmoderno» dei nostri giorni: se da una parte segue una logica di deregolamentazione, «anti-statale», nomade/deterritoríalizzante, ecc., la tendenza predominante del «divenire rendita del profitto» segnala il ruolo rafforzato dello Stato, la cui funzione (non soltanto) regolatrice tende a divenire onnipresente. La deterritorializzazione dinamica coesiste ed è sorretta da più cospicui interventi autoritari da parte dello Stato con í suoi apparati normativi e di altro genere. All'orizzonte del nostro divenire storico si può scorgere così una società in cui il libertarismo e l'edonismo personali coesistono con (e sono sostenuti da) una rete complessa di meccanismi regolativi statali. Lo Stato non sta scomparendo, tutt'altro, oggi lo Stato si sta consolidando.

In altre parole, quando, per via del ruolo cruciale svolto dal general intellect (il sapere e la cooperazione sociale) nella creazione della ricchezza, le forme di ricchezza non stanno «in alcun rapporto con il tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione», il risultato non è, come Marx doveva aver immaginato, l'auto-dissoluzione del capitalismo, ma la trasformazione graduale e relativa del profitto generato dallo sfruttamento del lavoro in una rendita che deriva dalla privatizzazione del general intellect. Prendiamo il caso di Bill Gates: come è diventato l'uomo più ricco del mondo? La sua ricchezza non ha nulla a che fare con i costi di produzione dei prodotti venduti da Microsoft (è probabile che i lavoratori intellettuali di Microsoft percepiscano stipendi relativamente elevati), insomma, la ricchezza di Gates non deriva dal successo ottenuto con la produzione di programmi di qualità a un costo inferiore rispetto alla concorrenza, o attraverso un maggiore «sfruttamento» dei dipendenti. Fosse così, Microsoft avrebbe fallito già da tempo: la scelta dei consumatori si sarebbe spostata in maniera compatta su altri programmi che, come Linux, sono gratuiti e, secondo gli esperti, di qualità superiore rispetto a quelli di Microsoft. Allora perché milioni di persone continuano a comprare i prodotti di Microsoft? Perché Microsoft si è saputa imporre come un modello quasi universale, e ha (quasi) monopolizzato il settore, presentandosi come una sorta d'incarnazione del general intellect. Nell'arco di venti anni, Gates è diventato l'uomo più ricco del mondo appropriandosi della rendita generata permettendo a milioni di lavoratori intellettuali di prendere parte alla nuova forma del general intellect che lui privatizza e controlla. Θ vero, allora, che i lavoratori intellettuali di oggi non sono più separati dalle condizioni oggettive del loro lavoro (hanno un proprio computer, ecc.), secondo la definizione che dà Marx dell'«alienazione» capitalista? Sì, ma in fondo no: sono tagliati fuori dal campo sociale del loro lavoro, e da un general intellect che non sia mediato dal capitale privato.

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Ne consegue che, nell'accostarsi al conflitto israelo-palestinese, bisognerebbe attenersi a criteri inflessibili e frenare l'impulso di voler «comprendere» la situazione: bisognerebbe resistere incondizionatamente alla tentazione di «comprendere» l'antisemitismo degli arabi (laddove lo si incontri veramente), d'interpretarlo come una reazione «naturale» alla gravità della situazione palestinese; o di «comprendere» le misure adottate da Israele ritenendole una reazione «naturale» risvegliata dalla memoria dell'Olocausto. Non dovrebbe esserci alcuna «comprensione» per il fatto che in molti (se non quasi in tutti i) Paesi arabi, dall'Arabia Saudita all'Egitto, Hitler viene ancora considerato un eroe; o per il fatto che i libri delle scuole elementari riportano tutti i miti tradizionali dell'antisemitismo, dai Protocolli dei Savi di Sion, notoriamente falsi, alla storia degli ebrei che avrebbero usato il sangue dei bambini cristiani (o arabi) per compiere sacrifici. Con il pretendere che l'antisemitismo appena descritto convogli, spostandola, la resistenza contro il capitalismo, non lo si giustifica affatto: lo spostamento in questo caso non è un'operazione secondaria, ma la manovra fondamentale della mistificazione ideologica. Ciò che realmente implica questa pretesa è l'idea che, a lungo termine, l'unico modo per combattere l'antisemitismo non sarà più l'esortazione alla tolleranza liberale, ecc., non più l'interpretazione complessiva di singole azioni correlate, ma la rimozione dal contesto storico. Quando una protesta pubblica contro le operazioni condotte dalle IDF in Cisgiordania viene additata come un'espressione di antisemitismo, e – perlomeno implicitamente – la si cataloga insieme al negazionismo dell'Olocausto, insomma, quando l'ombra dell'Olocausto viene perennemente evocata per neutralizzare qualunque dissenso nei confronti delle azioni di Israele, non è più sufficiente insistere sulla differenza tra l'antisemitismo e la critica che viene rivolta a specifiche misure adottate dallo Stato di Israele; bisognerebbe fare un passo avanti e affermare che lo Stato d'Israele, in questo caso, profana la memoria delle vittime dell'Olocausto, manipolandole senza pietà, strumentalizzandole per legittimare decisioni politiche adottate nel presente. Significa quindi che è necessario contestare qualunque possibilità di nesso logico o politico tra l'Olocausto e il conflitto attuale tra Israele e Palestina: si tratta di due fenomeni radicalmente diversi, perché uno appartiene alla storia europea della resistenza di destra alle dinamiche della modernizzazione, l'altro è uno degli ultimi capitoli nella storia del colonialismo. D'altra parte, íl compito arduo per i palestinesi è accettare che i loro veri nemici non siano gli ebrei ma quei regimi arabi che manovrano la gravità della situazione con il fine preciso di impedire quello spostamento, ovvero, la radicalizzazione politica proprio al loro interno. La situazione attuale dell'Europa, in effetti, è in parte contraddistinta dall'acuirsi dell'antisemitismo – per esempio, a Malmò, c'è una minoranza aggressiva di musulmani che vessa gli ebrei al punto che questi ultimi hanno paura ormai di camminare per strada indossando í vestiti tradizionali. Un fenomeno del genere dovrebbe essere condannato senza esitazione: la lotta contro l'antisemitismo e la lotta contro l'islamofobia dovrebbero essere viste come le due facce della stessa battaglia.

Quindi, ancora una volta, la soluzione ovvia della tolleranza (il rispetto reciproco per le sensibilità di ciascuno) come c'era da aspettarsi non funziona: se i musulmani pensano che le nostre immagini blasfeme e l'umorismo sconsiderato (che noi consideriamo parte delle nostre libertà) siano «impossibili da sopportare», i liberali dell'Occidente a loro volta trovano che molte pratiche (la subordinazione delle donne, ecc.), che fanno parte della «relazione vivente» dei musulmani, siano «impossibili da sopportare». In conclusione, la situazione esplode quando i membri di una comunità religiosa avvertono come un danno e un pericolo per il loro modo di vivere non un attacco diretto alla loro religione, ma il modo di vivere caratteristico di un'altra religione – come succede in Olanda, Germania e Danimarca, dove vengono attaccati gay e lesbiche, o in Francia, dove agli uomini e alle donne francesi basta vedere il burka indossato da una passante per sentire minacciata la loro identità francese, ed è per questo che trovano «impossibile restare in silenzio» quando tra di loro si aggira una donna velata. Le origini del liberalismo non vanno cercate nell'individualismo portato agli eccessi; all'inizio si è trattato di una soluzione per rimediare a situazioni del genere, alla convivenza di due gruppi etnici o religiosi caratterizzati da modi di vivere incompatibili.

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E non si può dire esattamente lo stesso della paura crescente verso i rifugiati e gli immigrati? Per assurdo: persino se si dimostrasse vera la maggior parte dei nostri pregiudizi su di loro (sotto sotto sono tutti terroristi fondamentalisti, stuprano e rubano), il discorso paranoico sulla minaccia degli immigrati è comunque una patologia ideologica più eloquente riguardo a noi europei che agli immigrati. Il nocciolo della questione non è quindi «Gli immigrati rappresentano una minaccia reale per l'Europa?», ma «Questa nostra ossessione per la minaccia degli immigrati cosa ci dice riguardo alla debolezza dell'Europa?»

Dunque, ci sono due dimensioni che dovremmo tenere distinte. La prima è il clima di paura, la lotta contro l'islamizzazione d'Europa, con il solito corollario di assurdità: i rifugiati in fuga dal terrore vengono equiparati ai terroristi da cui stanno fuggendo. E di conseguenza il luogo comune per cui tra i rifugiati ci sarebbero anche terroristi, stupratori, criminali, ecc., mentre per la maggior parte si tratta di persone disperate in cerca di una vita migliore, prende una piega paranoica – gli immigrati sembrano (o simulano di) essere dei rifugiati disperati, ma in realtà sono l'avanguardia della nuova invasione islamica dell'Europa; e soprattutto, come succede di solito, la responsabilità dei problemi immanenti al capitalismo moderno e globale viene proiettata sull'intruso esterno.

Uno sguardo sospettoso trova sempre quello che cerca; «le prove» sono ovunque, anche se per metà si riveleranno false. Questo punto va evidenziato, specialmente oggi che, ovunque in Europa, la paura che i rifugiati ci invadano sta raggiungendo proporzioni veramente paranoiche. Persone che mai hanno visto un rifugiato in carne e ossa reagiscono con aggressività alla proposta di stabilire nei loro paraggi un centro per l'accoglienza dei rifugiati; le storie di reati colpiscono l'immaginazione, si diffondono a macchia d'olio e persistono addirittura dopo che ne sia stata dimostrata l'infondatezza in maniera irrefutabile. Ecco perché, di fronte alla paranoia razzista contro gli immigrati, la reazione peggiore consiste nell'ignorare gli incidenti e i problemi concreti che riguardano gli immigrati, con la scusa che il minimo cenno critico gioverebbe ai nemici razzisti. Contro questo procedimento, occorre richiamare l'attenzione sul fatto che proprio il nostro silenzio finisce invece per avvantaggiare i nemici razzisti – alimenta all'istante la diffidenza della gente comune («Vedi? Mica ci dicono la verità!»), gonfiando di credibilità le chiacchiere e le bugie razziste.

L'altra dimensione è lo spettacolo infinito e tragicomico dell'auto-colpevolizzazione offerto dall'Europa che, si presume, avrebbe tradito la propria umanità: quell'Europa sanguinaria che lascia annegare migliaia di corpi ai propri confini – un esercizio egotistico privo di qualunque potenziale di emancipazione. Oltretutto, l'enfasi posta sulla catastrofe umanitaria de-politicizza abilmente la situazione. Non stupisce perciò che Angela Merkel, in relazione alla crisi dei rifugiati, abbia detto di recente: «Non si crederà forse che tutti gli Stati dell'Unione che l'anno scorso hanno combattuto strenuamente perché la Grecia restasse nell'eurozona – e noi siamo stati i più rigorosi – possano, un anno dopo, permettere che la Grecia, come dire, precipiti nel caos?» Da questa dichiarazione traspare chiaramente la bugia su cui si fonda la posizione umanitaria della cancelliera: fa parte della strategia del bastone e la carota, e gli aiuti umanitari sono il premio per chi accetta la resa politico-economica.

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Allora anziché riconoscerci negli stranieri e cullarci nella menzogna rassicurante che «loro sono come noi», dovremmo riconoscere lo straniero in noi stessi – qui risiede la dimensione più intima della modernità europea. Il comunitarismo non è abbastanza: il riconoscimento che siamo tutti, ciascuno a suo modo, dei matti bizzarri ci offre l'unica speranza per la co-esistenza tollerabile di diversi modi di vivere. Straniero in terra straniera , il classico della fantascienza scritto da Robert A. Heinlein nel 1961, racconta la storia di un umano che va sulla Terra all'inizio dell'età adulta, dopo che, nato su Marte, era stato cresciuto lì dai marziani. Forse, questa è la situazione di tutti noi.

Quindi significa che dovremmo rassegnarci a una co-esistenza di gruppi isolati di matti, delegando alla legge dello Stato la manutenzione di un qualche tipo di ordine, anche minimo, con l'imposizione di regole per l'interazione? No di certo, ma il paradosso è che dovremmo passare attraverso il punto zero della «de-naturalizzazione» se vogliamo impegnarci in un processo lungo e difficile di solidarietà universale, di costruzione di una Causa che sia abbastanza forte da estendersi attraversando le diverse comunità. Se vogliamo la solidarietà universale, dobbiamo diventare universali in noi stessi, relazionarci a noi stessi come universali acquisendo una distanza dal nostro mondo della vita. Un lavoro duro e gravoso è necessario per conseguire questo scopo, non bastano le sole ruminazioni sentimentali sui migranti come nuova forma di «proletariato nomade».

Quindi, per riprendere la vecchia domanda di Lenin, che fare? Tanto per cominciare, un paio di misure pragmatiche e fattibili. A breye termine: la UE dovrebbe stabilire dei centri per l'accoglienza in luoghi sicuri e che siano il più vicino possibile (Siria settentrionale, Turchia, isole greche...); e poi organizzare il trasferimento diretto dei rifugiati che saranno stati accettati verso le loro destinazioni europee (con traghetti e ponti aerei), in questo modo verrebbero tagliati fuori i trafficanti, i cui affari si aggirano intorno ad alcuni miliardi di dollari, e allo stesso tempo si porrebbe fine alla miseria umiliante delle migliaia di persone che vagano a piedi per l'Europa. Nel medio termine: usare ogni mezzo, pubblico e segreto, dalla guerra di informazione come WikiLeaks al ricatto economico (dell'Arabia Saudita, per esempio); fermare le guerre o almeno ridurre le zone di conflitto. L'unica soluzione a lungo termine è, certamente, il comunismo, ma questa è un'altra storia...

Per concludere, torniamo a uno dei grandi classici. Nel canto VI dell'Inferno (vv 77-87), Dante chiede a uno dei golosi, Ciacco [...]

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La regola «sì significa sì», relativa alla sfera sessuale, rappresenta un caso esemplare della concezione narcisistica della soggettività che si è affermata in questo periodo storico. L'enfasi è posta sulla vulnerabilità del soggetto, che, questa è la percezione, dovrebbe essere protetto grazie a un insieme di regole complesso, e avvisato in anticipo riguardo a ogni possibile intrusione che potrebbe disturbarlo. Quando E.T. uscì nelle sale, venne vietato in Svezia, Norvegia e Danimarca: la rappresentazione severa che offriva degli adulti era stata considerata pericolosa per la relazione tra figli e genitori. (Un dettaglio ingegnoso conferma l'accusa: per i primi dieci minuti del film, tutti gli adulti vengono ripresi dalla cintola in giù, come già nel noto cartone animato gli adulti che minacciano Tom e Jerry...). Dalla prospettiva attuale, possiamo leggere in quella proibizione un segnale precoce che anticipava la stessa ossessione politicamente corretta che oggi vorrebbe preservare gli individui da qualunque esperienza potenzialmente nociva. E non ci si limita alle esperienze di vita reale, persino la finzione può essere censurata, come si rileva da una richiesta inoltrata recentemente dal Comitato Consultivo per gli Affari Multiculturali della Columbia University (MAAB) perché venga applicato un bollino rosso (trigger warning) alle opere d'arte canoniche. (A dimostrazione che, alle volte, le finzioni debbono essere prese più seriamente della realtà). A provocare la richiesta, la lamentela di una studentessa che, avendo subito violenza sessuale, si era sentita «provocata» dalle descrizioni vivide dello stupro nelle Metamorfosi di Ovidio, che doveva studiare. Visto che il professore non aveva accolto la lamentela della studentessa, il MAAB ha anche proposto dei «corsi di formazione alla sensibilità» rivolti ai docenti perché fossero istruiti su come trattare i sopravvissuti a un'aggressione, i neri, o le persone appartenenti alle fasce di basso reddito. Jerry Coyne ha ragione nel sostenere che

la strada che ci ha portati all'adozione del bollino rosso – non solo per segnalare le aggressioni sessuali, ma anche la violenza, il fanatismo e il razzismo – condurrà infine ad additare ogni opera letteraria come potenzialmente offensiva. Allora addio alla Bibbia, addio a Dante, addio a Huck Finn (pieno di razzismo), addio a tutta la letteratura antica, scritta prima che comprendessimo che le minoranze, le donne e i gay non sono persone di seconda categoria. E quanto alla violenza e all'odio, be', sono ovunque, giacché fanno parte tanto della letteratura quanto della vita. Delitto e castigo? Bollino rosso: violenza efferata contro una donna. Il grande Gatsby? Bollino rosso: violenza contro le donne (ricordate l'episodio in cui Tom Buchanan rompe il naso a Mrs Wilson?). L'inferno? Bollino rosso: rappresentazione vivida di violenza, sodomia e tortura. Gente di Dublino? Bollino rosso: pedofilia [...] Alla fine chiunque può dichiararsi offeso o provocato da qualunque cosa: i liberali dalla politica conservatrice, i pacifisti dalla violenza, le donne dal sessismo, le minoranze dall'intolleranza, gli ebrei dall'antisemitismo, i musulmani da qualunque cenno a Israele, i creazionisti dall'evoluzionismo, i fanatici religiosi dall'ateismo, e così via.

E l'elenco potrebbe continuare all'infinito – ricordiamo la proposta di cancellare digitalmente dalle scene dei classici di Hollywood le immagini del fumo... E non sono soltanto le persone con un reddito basso che potrebbero sentirsi ferite – che dire della gente ricca che si chiude nel proprio bozzolo per evitare di sentirsi «provocata» da incontri ravvicinati con le classi più basse? La strategia adottata dai ricchi non è appunto l'isolamento, l'imbozzolarsi in «spazi sicuri»? Ma è il caso della religione a interessarci in modo particolare. Nell'Europa occidentale, i rappresentanti musulmani hanno avviato una campagna per imporre il divieto ufficiale di blasfemia e oltraggio alle religioni. Va bene, ma non dovremmo estendere questo divieto anche agli stessi testi religiosi, vietandoli o imponendo la revisione completa dell'intera Bibbia e del Corano in uno stile politicamente corretto? (E sorvoliamo sul fatto che anche l'oltraggio all'ateismo dovrebbe essere vietato). E – ecco il paradosso ultimo e inesorabile – in quanti si sentirebbero feriti dal dispiegamento universale di bollini rossi, interpretandolo come un regime oppressivo di controllo totale? Dovremmo allora contestare il presupposto su cui poggia la richiesta del MAAB: «Gli studenti hanno bisogno di sentirsi al sicuro in classe...» No, non hanno bisogno di sentirsi al sicuro, devono imparare a confrontarsi apertamente con le umiliazioni e le ingiustizie della vita, e a combatterle. L'intera visione della vita proposta dal MAAB è sbagliata, e anzi «è tempo che gli studenti imparino che la Vita è una Provocazione [...] Rinchiudersi in un Grande Spazio Sicuro per quattro anni ha un effetto regressivo». Dovrebbero insegnarci a uscire dal guscio, dal Grande Spazio Sicuro, a entrare nella vita pericolosa, rischiosa che c'è fuori, e a intervenire lì. Dovrebbero insegnarci che non viviamo in un mondo sicuro – viviamo in un mondo pieno di catastrofi, da quelle ambientali ai possibili nuovi scenari di guerra, alla violenza sociale crescente.

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A un livello metodologico più generale, non si possono distinguere in modo chiaro la dimensione universale del progetto emancipatore e l'identità di un modo di vivere particolare, di modo che, mentre ci stiamo impegnando tutti insieme in una lotta universale, allo stesso tempo rispettiamo pienamente il diritto di ciascun gruppo al suo modo di vivere particolare. Non andrebbe mai dimenticato che, per un soggetto che vive un modo di vivere particolare, tutti gli universali gli appaiono «dipinti» del colore di questo modo di vivere. Ciascuna identità (modo di vivere) racchiude anche un modo specifico di relazionarsi agli altri modi di vivere. Così, quando ci proponiamo il principio secondo cui ciascun gruppo dovrebbe essere libero di rappresentare la propria identità particolare, di mettere in pratica il proprio modo di vivere, sorge immediatamente un problema: dove finiscono i costumi che formano la mia identità e dove inizia l'ingiustizia? I diritti delle donne sono soltanto un nostro costume, o invece la lotta per i diritti delle donne è universale (e parte della lotta di emancipazione, com'era nell'intera tradizione socialista da Engels a Mao)? L'omofobia è una cosa che pertiene a una cultura particolare, da tollerare, quindi, come una componente identitaria? E i matrimoni combinati (che in alcune società sono una pratica centrale nelle strutture di parentela) andrebbero accettati come parte dell'identità culturale? E così via.

Questa «mediazione» tra (il modo di vivere) universale e il particolare è valido per tutte le culture, la nostra (occidentale) inclusa, certo. Anche i principi «universali» difesi dall'Occidente sono dipinti del colore del modo di vivere occidentale, pertanto il compito è portare la lotta dentro ogni modo di vivere particolare: ciascun modo di vivere particolare è antagonistico, pieno di tensioni interne e di incoerenza, e l'unico modo di procedere è lavorare per un'alleanza di lotte nelle diverse culture. Prendendo spunto da qui vorrei ora tornare al progetto di alleanza tra le classi medie progressiste e i proletari nomadi: restando ai problemi concreti, significa che la lotta politico-economica contro il capitalismo globale e la lotta per i diritti delle donne ecc. devono essere concepite come due momenti della stessa lotta di emancipazione per l'uguaglianza.

[...]

Questi due aspetti – l'imposizione di valori occidentali come diritti umani universali, e il rispetto per le culture diverse a prescindere dagli orrori che possono nascere in seno alle culture – sono le due facce della stessa mistificazione ideologica. La difesa multiculturalista e anticolonialista della molteplicità dei modi di vivere è anch'essa falsa: insabbia gli antagonismi all'interno di ciascun modo di vivere particolare, giustificando atti di brutalità, sessismo e razzismo come espressioni di una cultura particolare che non avremmo il diritto di giudicare impiegando i valori occidentali, estranei a quelle culture.

Questo aspetto non dovrebbe in alcun modo essere liquidato come marginale: da Boko Haram e Mugabe a Putin, le critiche anticolonialiste all'Occidente si definiscono sempre di più come un rifiuto della confusione «sessuale» dell'Occidente e un ritorno auspicabile alla gerarchia sessuale tradizionale. Θ certamente vero che l'esportazione diretta del femminismo occidentale e dei diritti umani individuali può fungere da strumento del neo-colonialismo ideologico ed economico (tutti ricordiamo come alcune femministe americane abbiano sostenuto l'intervento degli Stati Uniti in Iraq, con il pretesto della liberazione delle donne, mentre si è ottenuto un risultato diametralmente opposto). Ma, allo stesso tempo, si dovrebbe evitare di trarne la conclusione che la sinistra occidentale dovrebbe fare un «compromesso strategico», tollerando tacitamente i «costumi» che umiliano le donne e i gay, nell'interesse della «più grande» lotta anti-imperialista.

Tuttavia, l'opposizione tra la politica sessuale del fondamentalismo religioso (i cui casi estremi sono l'ISIS e Boko Haram) e il radicalismo del movimento LGBT+ forma un asse di eccessi che dovremmo distinguere da un altro asse, l'opposizione tra le due posizioni «normali» (e predominanti), l'ideologia della famiglia «normale» e conservatrice, che è pronta a deplorare gli eccessi estremisti, e la posizione «normale» del permissivismo liberale, che sostiene i diritti di donne e gay ma beffardamente preferisce respingere gli eccessi della cultura LGBT+. L'asse fondamentale è questo, e ciascuno di questi due poli opposti tende a respingere la propria versione radicalizzata (la subordinazione estrema delle donne tipica dei musulmani viene rigettata dai musulmani moderati e conservatori; le misure eccessive sostenute dalla cultura LGBT+ vengono analogamente rigettate dalla corrente dominante che pure si batte per i diritti delle donne e dei gay). Ciascuna parte rigetta questi estremi come fossero escrescenze patologiche, come qualcosa che appartiene a chi ha perso la misura propriamente umana.

La lotta comunista per l'emancipazione universale è una lotta che incide ogni identità particolare, dividendola dall'interno. Laddove c'è razzismo, o la sottomissione delle donne, questi rientrano sempre e integralmente in un «modo di vivere» particolare, sono il rovescio della medaglia di una cultura particolare. Nel mondo occidentale «sviluppato», la lotta comunista assume il significato di una lotta brutale e di principio contro tutte le forme ideologiche che, malgrado si presentino come «progressiste», rappresentano un ostacolo all'emancipazione universale (femminismo liberale, ecc.); non significa solo attaccare il nostro stesso fondamentalismo religioso e razzista, ma anche mostrare come scaturisca dalle incoerenze del liberalismo predominante. E nei Paesi musulmani, la strategia comunista non dovrebbe in alcun modo appoggiare il «modo di vivere» tradizionale, che prevede il delitto d'onore, ecc.; non solo dovrebbe collaborare con le forze che in questi Paesi combattono il patriarcato tradizionale, ma dovrebbe fare un passo decisivo in avanti e mostrare come, lungi dall'operare come un elemento di resistenza al capitalismo globale, l'ideologia tradizionale sia uno strumento diretto del neo-colonialismo imperialista.

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Trump è l'espressione più pura della tendenza allo svilimento della vita pubblica. Cosa fa per «rubare la scena» nei dibattiti pubblici e nelle interviste? Offre una miscela di volgarità «politicamente scorrette»: sparate razziste (contro gli immigrati messicani), sospetti sulla città natale di Obama, sulla sua laurea, attacchi di cattivo gusto rivolti alle donne, offese agli eroi di guerra come John McCain... Alla metà di dicembre, nel 2015, Trump ha deriso Hillary Clinton, che, dopo la pubblicità, tardava a riprendere il dibattito perché era andata al bagno: «Cosa le è successo? Sto guardando il dibattito e sparisce. Dov'è finita?!» ha detto in un comizio nel Michigan, e ha proseguito: «Lo so io dove. Θ disgustoso. Non ne voglio neanche parlare». C'è un mistero nelle sue parole: perché mai andare al bagno sarebbe disgustoso? Non lo facciamo tutti (con l'eccezione di Kim Yong-il, stando ad alcuni mezzi d'informazione ufficiali della Corea del Nord)? Ciò che lo rende davvero disgustoso è parlarne in pubblico – quindi è proprio Trump che si rende disgustoso con i suoi commenti. Con battute simili, prive di gusto, vorrebbe suggerire che non gli interessano le maniere affettate e che «dice apertamente quello che pensa (e che, insieme a lui, pensano molte persone ordinarie)». Insomma, Trump ci tiene a precisare che, a dispetto dei suoi miliardi, resta un tipo volgare e del tutto ordinario come tutti noi, gente comune.

Non ci traggano in inganno queste volgarità: qualunque cosa sia Trump, non è certo un pericoloso outsider. Il suo vero segreto è che, ora che ha vinto, niente cambierà realmente – al contrario di Bernie Sanders, il democratico di sinistra il cui vantaggio determinante sulla sinistra moderata e politicamente corretta degli intellettuali è stato l'aver compreso e rispettato i problemi e le paure di operai (workers) e contadini ordinari. Il duello elettorale veramente interessante sarebbe stato fra Trump come candidato dei repubblicani e Sanders dei democratici.

Tempo fa, Donald Trump è stato paragonato, in modo poco lusinghiero, a un uomo che defecasse rumorosamente in un cantuccio durante un ricevimento elegante – va bene, ma tra i repubblicani c'erano forse dei candidati notevolmente migliori da presentare alle elezioni presidenziali? Tutti ricordiamo, penso, nel film di Buρuel Il fantasma della libertà, quella scena che ribalta il rapporto tra il mangiare e l'evacuare: seduti intorno al tavolo, ognuno sul suo water, gli invitati conversano con garbo, e chi vuole mangiare chiede sottovoce alla domestica: «Scusi, dov'è la sala... da pranzo?», poi sgattaiola in una stanzetta nel retro. I candidati repubblicani – per proseguire con la metafora – non ci ricordano forse gli invitati del film di Buρuel? E non diremmo lo stesso di molti altri leader politici del mondo? Erdogan non stava forse defecando in pubblico quando, in una crisi paranoica, ha accusato di tradimento, di essere una spia dei servizi stranieri chi aveva criticato le sue politiche sui curdi? E Putin, anche lui, non stava defecando in pubblico quando (con una volgarità appositamente studiata per incrementare la sua popolarità in patria) ha minacciato di castrazione medica chi aveva criticato le politiche attuate in Cecenia? E Sarkozy non stava defecando in pubblico quando, nel 2008, di fronte a un contadino che si rifiutava di stringergli la mano è scattato: «Casse-toi alors, pauvre con!» (una traduzione molto attenuata sarebbe: «Vattene, stupido idiota!», ma il vero significato si avvicina molto di più a: «Vaffanculo, coglione!»)? E l'elenco potrebbe continuare – persino la sinistra non è immune da questo svilimento.

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La rabbia popolare da cui è nato Trump ha partorito anche Sanders, e malgrado entrambi esprimano un vasto scontento sociale e politico, lo fanno in modi contrastanti, uno aderendo al populismo di destra e l'altro optando per l'istanza di giustizia della sinistra. Ed ecco il trucco: l'istanza di giustizia della sinistra tende a combinarsi con le lotte per i diritti delle donne e dei gay, per il multiculturalismo e contro il razzismo, ecc., mentre l'obiettivo strategico del consenso che circondava Clinton era chiaramente che l'insieme di queste lotte fosse scisso dall'istanza della sinistra, la giustizia economica.

Chi ha portato agli eccessi una posizione analoga è Madeleine Albright, una grande sostenitrice «femminista» di Clinton. Immaginiamo che, dopo l'uccisione, nel giugno 2016, di quarantanove persone e il ferimento di altre cinquantatré in un locale gay di Orlando, un rappresentante di un'organizzazione fondamentalista musulmana avesse detto che, per quanto deplorevole fosse il gesto, l'azione era giustificabile nell'ottica della guerra contro la decadenza dell'Occidente e in risposta alle aggressioni militari subite dai musulmani – s'immagini quanto scalpore e che rabbia per la follia barbara di un'affermazione talmente aliena dalla cultura giudeo-cristiana. Ma, un momento, nel programma della CBS 60 Minutes (12 maggio 1996), ad Albright, all'epoca ambasciatrice degli Stati Uniti all'ONU, viene rivolta questa domanda sulla guerra in Iraq: «Abbiamo sentito che sono morti mezzo milione di bambini. Insomma, ne sono morti di più che a Hiroshima. E, be', non si paga un prezzo troppo alto?», Albright ha risposto: «Credo sia una scelta molto difficile, tuttavia il prezzo – non pensiamo sia troppo alto». Sorvoliamo su tutte le domande che questa risposta solleciterebbe (compreso il passaggio interessante da «io» a «noi»: «Credo sia una scelta molto difficile» ma «non pensiamo sia troppo alto»), e concentriamoci su un unico aspetto: riusciamo a immaginare l'inferno che sarebbe scoppiato se a dare la stessa risposta fosse stato Putin o íl presidente cinese o quello iraniano? Non sarebbero finiti immediatamente sulle prime pagine dei giornali, linciati come mostri barbari e spietati? Mentre si spendeva per la campagna di Hillary Clinton, Albright ha detto: «All'inferno c'è un posto speciale per le donne che non si aiutano a vicenda!» (alludendo alle donne che avrebbero votato per Sanders invece che per Clinton). Forse la dichiarazione andrebbe emendata: all'inferno c'è un posto speciale per le donne (e per gli uomini) che considerano la morte di mezzo milione di bambini un prezzo ragionevole per un intervento militare che rovina un Paese, mentre loro a casa sostengono con convinzione i diritti delle donne e dei gay... Le parole di Albright non sono infinitamente più oscene e indecenti delle banalità sessiste di Trump?

Trump non è l'acqua sporca che dovremmo buttare via per salvare íl bambino della democrazia statunitense; Trump è proprio il bambino sporco che andrebbe gettato via per svelare l'acqua davvero sporca delle relazioni sociali che creano il consenso attorno a Clinton. Ecco il loro messaggio per la sinistra: potete prendervi tutto, a noi basta tenere le cose essenziali, un funzionamento scorrevole del capitale globale. Lo slogan di Obama «Yes, we can!» assume adesso un nuovo significato: sì, riconosciamo tutte le vostre istanze culturali... senza compromettere l'economia di mercato globale – così non c'è alcun bisogno di misure economiche radicali. O, per dirla con Todd McGowan: «Il consenso dei 'benpensanti' che si oppongono a Trump è spaventoso. Θ come se la smodatezza di Trump autorizzasse la comparsa del vero consenso capitalistico globale e questo si compiacesse della propria franchezza».

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