Copertina
Autore Corrado Augias
Titolo Leggere
SottotitoloPerché i libri ci rendono migliori, più allegri e più liberi
EdizioneMondadori, Milano, 2007, Frecce , pag. 120, cop.ril.sov., dim. 12x19,5x1,8 cm , Isbn 978-88-04-57324-1
LettoreFlo Bertelli, 2007
Classe libri , scrittura-lettura
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Indice


  3 I nomi delle cose
 17 Come ho cominciato a leggere
 41 La carta contro la pietra
 55 Quando s'affaccia Eros
 71 Ancora Eros: trasgressione e routine
 85 Quando la lettura fa male
 99 Quando la lettura fa bene
111 E per concludere

117 Indice dei nomi e delle opere


 

 

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Pagina 3

I nomi delle cose



Molti anni fa lessi una frase di Marcel Proust che mi parve subito assai bella ma, per dire la verità, anche un po' eccessiva. Era il periodo in cui, come scrive il poeta Giorgio Caproni, la vita s'avverte in modo più intenso: «Oh, altezza / mai più raggiunta dal fuoco del cuore». Le parole di Proust, allora, mi sembrarono troppo lontane da quel «fuoco del cuore». Dicevano: «Non esistono forse giorni della nostra infanzia che abbiamo vissuto intensamente quanto quelli che crediamo di aver perduto senza viverli, i giorni trascorsi in compagnia di un libro molto caro».

È passato parecchio tempo e quelle parole mi sono tornate spesso alla mente con un sapore sempre più intenso di verità. Non perché il «fuoco del cuore» abbia attenuato le sue fiamme, che sarebbe una ragione troppo biografica e un po' scontata; piuttosto, perché la lettura tende con gli anni a diventare una specie di doppio dell'esistenza, anzi, un concentrato di esistenza raramente eguagliato, per intensità, nell'ordinario scorrere delle giornate.

Ho letto molti libri, alcuni per intero, altri parzialmente. Qualcuno l'ho tralasciato dopo le prime pagine, qualche altro l'ho detestato. Con l'esperienza ho imparato, credo, a riconoscere i libri che mi piacciono, i soli che valga la pena di leggere per davvero. Diceva Franz Kafka: «Se il libro che stiamo leggendo non ci colpisce come un soffio di vento nel cranio, perché annoiarsi leggendolo? ... Un libro dev'essere l'ascia che spezza il mare ghiacciato che è dentro di noi».

A dispetto di questa mia lunga esperienza, se dovessi rispondere alla domanda del perché si legga, la ribalterei cominciando dalla domanda opposta: perché si scrive?

La risposta più semplice è quella razionale: la scrittura è la forma migliore di comunicazione, una forma, per ora, insuperata. Il mezzo è duttile, adatto alla riflessione come all'impeto, si conserva nel tempo, consente approfondimenti, richiami, citazioni altrui, sopporta qualunque indugio, purché sapiente. Insomma, quanto di meglio per diffondere informazioni, suggerire emozioni, stimolare reazioni d'ogni genere. Ma la scrittura, ecco il punto, è anche una forma artificiosa di comunicazione, diciamo pure la più innaturale: una superficie, in genere bianca, viene ricoperta di piccoli segni, in genere neri, che per convenzione hanno un certo suono e che, raggruppati in parole e poi in frasi, assumono un certo significato. Si tratta, com'è evidente, di un'attività puramente mentale, quanto di più lontano dalla naturalezza.

In quest'ottica, leggere fa parte della stessa operazione mentale: trasferendola in termini fotografici potremmo dire che si tratta del «positivo» rispetto al «negativo» della scrittura. Il bello di quei piccoli segni neri è che, scorrendoli con gli occhi (come state facendo ora), restituiscono il valore che chi li ha scritti ha inteso dar loro. Lo restituiscono in misura maggiore o minore obbedendo a una certa quantità di parametri, alcuni dei quali tenterò d'illustrare in questa breve chiacchierata.

Nel suo Jacques il fatalista a un certo punto Denis Diderot fa pronunciare al suo personaggio le parole: «Ma chi sarà il padrone? Lo scrittore o il lettore?». Una prima risposta legittima è: entrambi. Alla libertà dello scrittore di mettere su carta ciò che vuole (là dove abbia la possibilità di farlo senza pericoli, beninteso) corrisponde, infatti, la libertà del lettore di interpretare come meglio crede ciò che legge. Come si usa dire, e non si tratta di una battuta, l'autore di un romanzo non è il suo miglior critico, anche se non bisogna mai dimenticare che, fra le tante cose utili alla comprensione di un testo, bisogna mettere pure ciò che Tommaso d'Aquino definiva quem auctor intendit, le intenzioni dell'autore.

All'inizio degli anni Sessanta Umberto Eco, autore di precoce ingegno, pubblicò un saggio dal titolo Opera aperta, che indicava come caratteristica dell'opera d'arte la sua «apertura interpretativa». Se si può rispondere alla domanda di Diderot sulla «proprietà» di un testo dicendo «entrambi», Eco spingeva invece la questione al suo limite, teorizzando il paradosso secondo il quale il vero padrone è in realtà l'interprete, cioè il lettore, o l'osservatore nel caso di un'opera visiva. Tutte le grandi opere d'arte, sosteneva, non solo quelle moderne, sono «aperte» a diverse possibilità di lettura, suscettibili cioè di essere interpretate nei modi più vari.

Tipico della modernità è, però, che le opere sono spesso «aperte» in maniera programmatica, dunque consapevole, fin dall'inizio voluta. Negli anni Sessanta erano in gran voga le avanguardie, e l' Opera aperta colse un immediato e largo successo, fu il classico cacio sui maccheroni per un movimento che cercava un suo «vangelo» e che in quelle pagine lo trovò. Per la verità, quanto a opere prodotte, quel movimento non andò poi molto più in là del «vangelo» iniziale, ma questa, come si usa dire, è un'altra storia.


Che cosa succede in realtà quando ci si lascia andare al piacere, o al dovere, della lettura? Quali meccanismi emotivi si attivano? Quali frutti se ne ricavano?

La lingua che suggiamo insieme al primo latte si chiama, non a caso, «madre»; non è infatti meno madre delle mammelle (o del biberon) dalle quali traiamo alimento. Il nostro grande umanista Leon Battista Alberti esortava le donne che hanno cura dei bambini, madri o balie, a insegnare il prima possibile l'alfabeto, anche in forma puramente visiva, associando ogni lettera al suono. La lingua è «madre» perché ci permette d'intrattenere rapporti con gli altri; ma, prima ancora, perché ci consente di pensare noi stessi come individui, di capire (chi più, chi meno) chi siamo, in definitiva di esistere in quanto esseri pensanti. Se il pollice opponibile ha messo in grado il genere umano di arrivare per evoluzione all' Homo faber, il linguaggio articolato, i nomi delle cose hanno permesso la comparsa dell' Homo cogitans.

Nella sterminata bibliografia sul linguaggio che va da Aristotele a tutti i grandi logici del Novecento, mi limito a citare l'opera di un filosofo per il quale nutro viva e crescente simpatia. Si tratta di John Locke, fondatore dell'empirismo inglese, uno dei grandi teorici del liberalismo, autore di quella Lettera sulla tolleranza che, insieme al saggio Sulla libertà di John Stuart Mill, resta quanto di meglio la cultura occidentale abbia prodotto sul tema dei diritti individuali e della convivenza civile.

Secondo Locke, le parole sono segni delle idee e poiché ogni idea è segno di una cosa, le parole sono segni dei segni delle cose. Gioco di parole piacevole ma anche pregnante. Locke ci dice che il linguaggio, segno convenzionale delle idee, è lo strumento attraverso il quale l'uomo indica il proprio pensiero e contrassegna la realtà. Con il tempo questo strumento si è perfezionato grazie all'acquisita capacità di trasferirlo su un supporto materiale, dal rotolo di un papiro allo schermo di un computer, insomma di renderlo permanente, scrivendolo.

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Pagina 26

Mi sono inoltrato, quasi senza avvedermene, lungo il tortuoso sentiero del romanzo poliziesco o giallo. Ho una certa inclinazione per quel tipo di narrativa e potrei anche riempire il resto di queste pagine divagando sul tema. Ovviamente non lo farò, ma qualche cosa in più devo aggiungere e non solo perché amo questo genere narrativo, piuttosto per il fatto che il romanzo poliziesco offre numerosi buoni esempi di che cosa voglia dire trovarsi a metà strada fra invenzione letteraria e durezza della cronaca, fra divagazione, sogno, fantasia e realtà.

Qualche pagina fa ho citato la frase di Stéphane Mallarmé: «Il mondo è fatto per finire in un bel libro». Posso citare un'altra sentenza di significato opposto, pronunciata da Franz Kafka, che un giorno, conversando con un amico, disse: «Un libro non può sostituire il mondo. Un uomo, per esempio, non può approfondire le proprie esperienze attraverso la personalità di un altro. È questo il rapporto fra il mondo e i libri». Chi dei due è nel giusto? Credo entrambi. Kafka aveva ragione perché di qualunque cosa parli nei suoi romanzi, parla in realtà solo di se stesso, racconta il mondo per raccontarsi, descrive, per esempio, un'America che non ha mai visto, un puro portato della sua immaginazione.

Dunque, il grande praghese ha ragione ad affermare che fra un libro e il mondo non c'è sostituzione possibile. Quando però leggo in Delitto e castigo la descrizione dell'assassinio, che cosa devo pensare? Rivediamo insieme queste poche righe, che rappresentano l'apice criminale del romanzo di Dostoevskij. Il protagonista Raskòl'nikov uccide per motivi abietti la vecchia Aléna Ivànovna:

La vecchia era come sempre a capo scoperto. I capelli chiari e brizzolati di lei, unticci, che secondo la sua abitudine portava cosparsi di grasso, erano legati in una sorta di treccina a coda di topo, e raccolti con un frammento di pettinino di corno, che le sporgeva sulla nuca. Il colpo la colse proprio in cima alla testa, anche a causa della bassa statura di lei. La vecchia si lasciò sfuggire un grido, ma molto debole, e all'improvviso s'accasciò al suolo, anche se fece in tempo a sollevare entrambe le braccia verso la testa. ... A quel punto, con tutte le sue forze, egli le assestò un secondo colpo, e poi un altro, tutti di piatto, e tutti sulla sommità del capo. Il sangue cominciò a zampillare come da un bicchiere rovesciato, e il corpo si rovesciò sulla schiena. Egli arretrò, lasciò che cadesse e subito si buttò verso il volto di lei; era già morta. Gli occhi erano sbarrati, sul punto di schizzar fuori dalle orbite, mentre la fronte e tutta la faccia erano raggrinzite e stravolte da uno spasimo.

Poco, molto poco, differenzia la scena immaginata da Dostoevskij da una buona ricostruzione di cronaca nera. Quando si raccontano certe cose, le possibilità di variare stilisticamente sono minime e perfino la genialità dello scrittore russo si deve arrendere di fronte alla necessità di dover riferire certi dettagli: «Il colpo la colse proprio in cima alla testa...», «all'improvviso s'accasciò al suolo...» eccetera. Sono proprio queste necessità di «servizio» che confinano la maggior parte della narrativa poliziesca al livello che i tedeschi chiamano Triviallitteratur, cioè letteratura media.

Aveva ragione Kafka a dire che non c'è modo di ridurre il mondo in una pagina, ma aveva ragione solo dal suo punto di vista, perché Raymond Chandler è riuscito, al contrario, a concentrare nel suo protagonista Marlowe l'essenza di quello che erano allora (e certamente sono oggi) la California e l'America: la durezza dei gangster, la febbre del denaro, la corruzione delle menti prima di quella del portafogli.

Si tratta, appunto, di atmosfere, di sfondi; si tratta di inquadrare una società, un clima, certe tipologie umane. Un delitto, invece, resta, preso in sé e per sé, solo un delitto: alzare un'arma e colpire, l'eterno gesto di Caino, immutato nei secoli, immutabile nella descrizione. Ho amato molto Conan Doyle e il suo immortale Sherlock Holmes, ma quale maggior grado di verità, quanto più «mondo» ho trovato nelle pagine dei polizieschi americani. Nell'attraversare l'Atlantico il romanzo giallo ha trovato la sua consistenza reale, ha acquistato una dimensione che non aveva nelle prove di Conan Doyle, tanto meno, sia detto con il massimo rispetto, in quelle di Agatha Christie.

Per contro, la narrazione di un delitto, il modo e le ragioni per le quali viene commesso sono spesso un eccellente strumento per cercare di capire che cosa una società sia diventata. Quale che sia l'arma usata, un'ascia di pietra o una pistola a raggio laser, in un omicidio si ripete sempre lo stesso meccanismo: qualcuno alza un'arma e con quella colpisce un suo simile. Ciò che cambia sono i moventi per i quali si uccide, e proprio a questi mutamenti, tumultuosi nelle fasi di passaggio di una società, dobbiamo la possibilità di trasformare ciò che si nasconde dietro un omicidio in una chiave potente, e precisa, per capire il paese in cui si vive.

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Pagina 35

Mi rendo conto che in queste pagine m'imbarco spesso in digressioni sul tema, spero almeno che si possa intravedere un metodo in questo disordine. Ne approfitto comunque per ricordare un altro libro che, nella ridotta dimensione italiana e nel ristretto orizzonte degli anni Sessanta del Novecento, aiutò a capire meglio il mondo e almeno un po' a cambiarlo. Nel maggio 1967 uscì Lettera a una professoressa scritto da don Lorenzo Milani, prete scomodo, che la curia fiorentina aveva «esiliato» a Barbiana, sperduta località del Mugello, e ancora oggi guardato con grande sospetto dalle gerarchie.

Il libro, un atto d'accusa contro il sistema educativo ebbe un successo immediato e mirato. Insieme a L'uomo a una dimensione di Herbert Marcuse fu il saggio che in quegli anni conobbe la maggiore diffusione. Il testo di Marcuse denunciava l'uomo alienato dalla società industriale, il libro di don Milani denunciava «la scuola di classe» che bocciava i figli dei contadini e degli operai. Entrambi divennero testi di riferimento di quella stagione, confusa e vitale, che si usa chiamare «il Sessantotto».

Dalla pedagogia di don Milani sono derivate molte conseguenze, non tutte positive. Per esempio, l'abolizione di ogni criterio di merito, vale a dire l'esatto contrario di quanto si è tornati a sostenere nei nostri anni, in cui proprio il merito viene invocato come la meno ingiusta delle discriminanti.

Di questo prete straordinario, che aveva tolto il crocefisso dalla scuola, ma si dedicava ai suoi alunni con totale ed «evangelica» dedizione, voglio ricordare l'importanza che attribuiva alla padronanza della lingua, alla ricchezza del vocabolario. Un concetto che Dario Fo avrebbe poi ribadito nel titolo di una delle sue commedie: L'operaio conosce trecento parole, il padrone mille, per questo lui è il padrone. Don Milani voleva che i suoi alunni padroneggiassero almeno il vocabolario corrente, diciamo l'italiano dei giornali quotidiani, per arrivare a capire, leggendoli, i meccanismi politici ed economici che avrebbero determinato la loro vita. Aveva individuato uno dei punti cruciali della nostra condizione, noi che viviamo circondati, assordati, dal linguaggio televisivo, giustamente definito da Vittorio Sermonti «ridicolo, orrendo, miserabile e scadentissimo».

Il linguista Tullio De Mauro ha sottolineato questo aspetto in occasione dei quarant'anni anni della Lettera: «Don Milani aveva capito l'immenso valore dell'educazione al linguaggio, della lingua che "fa uguali"». Cito De Mauro perché è in un suo saggio famoso (Storia linguistica dell'Italia unita del 1963) che ho afferrato per la prima volta la vastità e l'importanza cruciale di questo problema nel nostro paese. Non a caso la Lettera a una professoressa e la Storia linguistica sono usciti all'incirca negli stessi anni.

Nel prezioso volumetto di De Mauro si leggeva, per esempio, a proposito dei dialetti: «L'ampio uso dei dialetti al momento dell'unificazione [1861] non aveva radice in ciò che di vitale poteva esservi stato nella storia italiana ma, al contrario, era conseguenza del ristagno plurisecolare della vita economica, sociale e intellettuale del paese». Quando nacque il Regno d'Italia, solo il 2,5 per cento della popolazione sapeva esprimersi nella lingua nazionale. Il disastro, nonostante Dante e Machiavelli, era dovuto al fatto che per secoli la nostra lingua, unica fra quelle europee, era sopravvissuta quasi soltanto come lingua di eruditi, ridotta, come s'è detto, a un gergo da prefettura.

Quando nel 1861 venne compiuto il primo censimento della popolazione, risultò che gli italiani erano per quasi l'80 per cento analfabeti, cioè incapaci di intendere la lingua scritta, non di rado anche quella orale. Da qui i barocchismi, il «latinorum», il linguaggio forbito fino allo sfinimento che ancora nel XXI secolo si ritrova in certi modi, in una certa sintassi della burocrazia e della magistratura. Era quest'angustia a spingere Carlo Gozzi e Ugo Foscolo a definire l'italiano «una lingua morta», Leopardi a rilevarne l'aridità, mentre i dialetti, per converso, avevano acquistato piena dignità sociale.

Bisogna stare attenti a fare l'apologia del dialetto. I dialetti italiani sono una ricchezza, basti pensare al teatro e alle sue maschere, alla poesia di Giuseppe Gioachino Belli e di Carlo Porta, che nei rispettivi dialetti hanno descritto i popolani di Roma e di Milano con risultati fra i massimi della poesia ottocentesca. (Proprio con un sonetto del Belli vorrei chiudere, a sorpresa, questo piccolo libro.) Ma i dialetti possono diventare una trappola nel momento in cui sostituiscono la lingua nazionale e ostacolano la piena capacità di farsi intendere al di fuori d'una cerchia locale.

Il dialetto va bene, anzi benissimo, per i momenti dell'intimità, dell'affetto, per una battuta scherzosa fra amici. Ma va male, anzi malissimo, quando si tratta di cercare lavoro, di avere un colloquio professionale, di chiedere un parere, di uscire dall'Italia. Sembra ovvio? Non lo è. Molte volte, nei momenti in cui ho avuto incarichi di responsabilità, mi è capitato d'incontrare giovani candidati a un'assunzione incapaci di esprimersi in corretto italiano. Mi sono chiesto quali occasioni, quale scuola, quale famiglia avevano mancato di metterli al riparo da quell'handicap, relegandoli a un'etnicità di così scarso orizzonte. Un giovane che voglia avere davanti a sé una ragionevole porzione di futuro dovrebbe dominare (dico «dominare», non balbettare) almeno tre livelli linguistici: il dialetto locale, quando c'è; la lingua nazionale; una lingua straniera.

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Pagina 45

I libri sono per loro natura strumenti democratici e critici: sono molti, spesso si contraddicono, consentono di scegliere e di ragionare. Anche per questo sono sempre stati avversati dal pensiero teocratico, censurati, proibiti, non di rado bruciati sul rogo insieme ai loro autori. Non è stata solo la santa Inquisizione romana a perseguitare le idee contenute nei libri. Anche Paolo di Tarso era favorevole al fatto che i libri venissero bruciati in piazza; secondo una leggenda araba il califfo Omar avrebbe ordinato la distruzione delle preziose collezioni di libri di Alessandria perché «inutili» se conformi, nel contenuto, a quanto già si può leggere nel Corano; dannosi se in contrasto con esso. Dunque, in un caso e nell'altro, via.

Del resto negli anni più roventi della Révolution cominciata nel 1789, migliaia di testi ecclesiastici (messali, breviari) vennero dati alle fiamme, senza troppo badare, in quella furia, al fatto che la rivoluzione stessa aveva trovato proprio in un libro, l' Encyclopédie (1751-52), la sua ragion d'essere, il suo motore. Episodi analoghi si verificarono dopo la Rivoluzione d'ottobre (1917) in Unione Sovietica, quando si pensò di eliminare i libri e il loro contenuto. Lo studio della storia doveva cominciare con la Comune di Parigi, «inutili» essendo tutti gli avvenimenti precedenti.

Nel 1953 uscì un romanzo scritto da Ray Bradbury destinato non solo al successo, ma a diventare addirittura esemplare. S'intitolava Fahrenheit 451, vale a dire la temperatura a cui la carta brucia. L'azione era ambientata in un ipotetico futuro nel quale leggere i libri, proprio in quanto strumenti democratici atti a stimolare il pensiero, era diventato un'attività proibita: un apposito corpo di polizia è incaricato di dare alle fiamme tutti i volumi sui quali si riesca a mettere le mani.

Le possibili fonti ispiratrici di quel romanzo sono state verosimilmente due. La prima è il fenomeno del maccartismo, dal nome del senatore repubblicano del Wisconsin Joseph McCarthy che aveva scatenato negli Stati Uniti un'autentica caccia ai simpatizzanti comunisti, veri o presunti, ovunque si annidassero, in particolar modo fra gli intellettuali e i divi di Hollywood. La seconda è la pubblicazione, avvenuta nel 1949, di un altro romanzo, che possiamo includere nel genere «sociologia utopica», vale a dire 1984 di George Orwell. In entrambe le opere il controllo sui cittadini è ottenuto con la manipolazione dei media, «aggiustando» continuamente le varie notizie secondo l'ideologia dominante ovvero eliminando totalmente ogni altra possibile risorsa informativa per impedire raffronti con il passato. In entrambi i romanzi la sola «verità» accessibile è la televisione.

Il protagonista immaginato da Bradbury è un vigile del fuoco che si chiama Guy Montag. Agente modello, un giorno Montag commette un'imprudenza: violando le regole, legge il brano di un libro che dovrebbe bruciare. Attirato da quella prima fugace lettura comincia di nascosto a leggere altri libri, poi conosce una ragazzina, sua vicina di casa, Clarisse, che alla sera non guarda la televisione come fanno tutti. Clarisse e la sua famiglia la sera conversano, partecipando della stessa allegria. In breve: nella società immaginata da Ray Bradbury i pochi libri superstiti vengono imparati a memoria e tramandati a voce.

Quel romanzo dice molte cose su una possibile società del futuro. Purtroppo, però, anche del presente. Tempo fa, per esempio, leggevo che nei paesi islamici il romanzo di Flaubert Madame Bovary viene pubblicato senza la scena dell'adulterio, e il povero traduttore è stato costretto a sostituire lo «champagne» dell'autore con un miscuglio di yogurt e acqua frizzante. La persecuzione contro i libri è propria di tutti i regimi dispotici, e basterebbe questo per farci amare la lettura.

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