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| << | < | > | >> |IndiceAmericani 11 Introduzione a Bartleby lo scrivano 39 Mark Twain e l'invenzione dell'americano 57 Traducendo Jack London 65 Storie di solitari americani Francesi 119 Introduzione alla Certosa di Parma 151 Musica di Céline 179 L'isola-Céline 195 Presentazione di Henri Michaux 225 Georges Perec e l'uomo che dorme Irlandesi 241 Gulliver l'antropologo 277 Swift, profetico trattato sull'epoca moderna 297 Omaggio a Flann O'Brien 319 La vita qualsiasi. O'Brien, Joyce, Beckett e il loro traduttore 327 Il disordine delle parole. Su una traduzione dell'Ulisse di Joyce 335 Nota ai testi |
| << | < | > | >> |Pagina 11Introduzione a Bartleby lo scrivanoBartleby è lo scrivano che rinuncia a scrivere e rimane immobile a guardare un muro, imperturbabile e laconico, sordo ad ogni ragionevole persuasione, inespugnabilmente mite. È una figura senza nessuna possibile salvezza, figura di ciò che non può essere salvato. Ma si può anche pensare che sia la figura di chi non ha nessuna voglia di farsi salvare, come se la salvezza che gli altri propongono fosse tanto irrimediabile quanto la desolazione a cui si va incontro. La storia di Bartleby ci viene raccontata da un avvocato di Wall Street, all'epoca in cui questa strada all'estremità di Manhattan sta diventando il centro della grande finanza americana, già espansa in tutto il mondo con vari commerci. Su questo sfondo storicamente monumentale, la vicenda dello scrivano è così irrilevante che a malapena si riesce a riassumerla. Forse l'unica cosa che può riassumerla è quell'immagine dell'erba spuntata tra le pietre della prigione, che alla fine l'avvocato nota, come se fosse l'emblema del racconto che ha fatto. Nessuna tragedia vera e propria, nessun fatto avventuroso, soltanto il fruscìo del divenire entro gli stretti limiti del suo luogo d'apparizione. E in questo racconto tutto parla di limiti, di atti minimi; tutto è nel segno d'un abbandono delle aspirazioni di grandezza, d'un lutto per le titaniche ansie di espansione. Lo scrivano Bartleby, pallido, mite, laconico, è l'incarnazione di questo lutto, il propugnatore di un'immobililità simile a quella di certi santi del deserto, è la figura della divina povertà, del poco o del nulla con cui si può sempre sopravvivere. Ma soprattutto è un personaggio con un'estrema scarsità di parole - personaggio strambo e incantato, che riduce tutto il suo parlare a un'unica frase usata come ritornello: «I would prefer not to» (nella mia traduzione: «Avrei preferenza di no»). Se questa vicenda rimane nei nostri pensieri, e anzi ci lascia più pensosi d'ogni altro racconto moderno, è grazie a quel ritornello con cui Bartlebly manifesta la sua maniera d'essere, la sua pazienza che lo rende inespugnabile. E qui sta il bandolo della matassa, il muro contro cui i critici sbattono la testa per carpire il segreto dello scrivano. Però il gioco narrativo consiste anche nel mandare a monte le nostre interpretazioni, portandoci a sorridere di certe battute che scombussolano le aspettative date per scontate; ad esempio l'idea che sia possibile capire gli altri attraverso i ragionevoli accordi. L'avvocato chiede: «Vuoi essere un po' ragionevole?», e lo scrivano risponde tranquillo: «Avrei preferenza a non essere un po' ragionevole». | << | < | > | >> |Pagina 65Storie di solitari americani
Le mutazioni della solitudine
Cosa fosse il vecchio sentimento di solitudine si può immaginarlo attraverso un racconto che le antologie mettono in cima alla tradizione del racconto americano: Rip Van Winkle di Washington Irving , scritto nel 1820. Parla d'una comunità olandese nell'alta valle dello Hudson, dove viveva il detto Rip Van Winkle, con una moglie petulante, un cane fedele, e la voglia di andare a zonzo tutto il giorno. Un bel mattino Rip va a caccia sui monti, si perde, poi sente una voce che lo chiama, trova degli olandesi in abiti antichi, personaggi d'una vecchia leggenda. Beve qualcosa che gli offrono, si addormenta, l'indomani torna al suo villaggio e s'accorge che sono passati vent'anni. Cito il punto dove inizia la sua avventura:
Rip senza accorgersene s'era inerpicato in una delle zone più alte dei Monti
Catskill. Andava dietro al suo svago preferito, la caccia agli scoiattoli, e
quelle immobili solitudini avevano echeggiato e riecheggiato ai colpi del suo
fucile.
La solitudine era questo: il luogo deserto, l'eco nel vuoto delle lontananze, un misterioso incanto che incombe sulla natura, una generica paura di incontri sovrannaturali, e un'idea dell'esperienza individuale basata su esempi leggendari. Washington Irving rievoca epoche in cui l'individuo faceva tutt'uno con il proprio gruppo, e lo spazio esterno era la natura, erano i monti, erano i luoghi dei morti o dei fantasmi. I suoi sono racconti d'integrazione nelle vecchie comunità locali, sul mitico terreno d'origine dell'identità familiare. Quando Rip dopo vent'anni torna al villaggio e trova tutto cambiato, un nuovo ordine politico, sua moglie morta, la propria esistenza dimenticata, sarà reintegrato nel gruppo d'origine subito e senza problemi. Il che lascia intendere che la vecchia comunità locale fosse una specie di roccaforte che resiste a tutti i cambiamenti nella storia del mondo, e dove non potevano esistere separazioni interne né solitudine degli individui. Ci vorrà tempo per accorgersi che esiste un «fuori» dove la solitudine non è l'effetto d'un incanto naturale, ma d'una specie di disincanto che si installa tra gli uomini, nelle sacche di estraneità che si formano all'interno della vita sociale. I suoi sintomi sono legati alla crescita di grandi masse anonime nella vita urbana, dove non si possono più nascondere le distanze assolute che separano gli individui; perché le masse nascono dalla somma di unità separate che resteranno sempre separate, e perciò la solitudine sarà l'esperienza critica più diffusa dei tempi moderni. Più che nella narrativa europea, è nel racconto americano che questo aspetto della vita sociale prende spicco; e il suo fulcro non sta più nel pathos di un'interiorità abbandonata a se stessa, ma nell'esperienza di chi si è lasciato alle spalle i legami protettivi nella comunità d'origine. Queste mutazioni diventano riconoscibili a partire da tre racconti eccezionali, con personaggi che sembrano addirittura dei mostri di solitudine: il Wakefield di Hawthorne , l'uomo della folla di Poe , e lo scrivano Bartleby di Melville. Qui si annuncia una solitudine mai vista prima, o mai tematizzata in modo così estremo. L'individuo assume i tratti della soggettività incondizionata, non più riconducibile a uno scontato tipo sociale, ma anche esposto al mondo esterno come non mai. Ed è il passaggio critico di tutte le narrative moderne, che troveremo in una serie di racconti posteriori. Ma seguendo questa pista, le storie di solitari lasceranno anche trapelare l'uniformazione a cui è soggetto il campo del vissuto americano, e come la singolarità dell'esperienza individuale prenda sempre più l'aspetto d'una anomalia. | << | < | > | >> |Pagina 225Georges Perec e l'uomo che dormeIl primo libro di Georges Perec , Le cose (1965), è una cronaca degli anni Sessanta, quando si diffonde l'irresistibile passione degli acquisti, l'ossessionante desiderio dei prodotti di moda e del comfort d'ordinanza. Il libro inizia con la descrizione della casa ideale, formata da oggetti di tentazione, visti nei cataloghi d'arredamento o nelle vetrine di Parigi. I giovani protagonisti, Jérôme e Sylvie, sognano la bella casa come Madame Bovary sognava l'amore da romanzo. Il tutto raccontato con leggerezza ironica, senza trame di richiamo, quasi sempre col passo svelto d'un racconto quotidiano. Più d'una volta Perec ha fatto notare che Le cose non vuol essere una condanna della passione per gli oggetti, ma il resoconto d'una sua esperienza fatta anni prima. È stato un modo di osservare il ruolo dominante che le cose hanno assunto nelle nostre vite, e di farne un uso letterario:
Le cose ci descrivono. Possiamo descrivere gli uomini attraverso gli
oggetti, attraverso l'ambiente che li circonda e il modo in cui si spostano in
questo ambiente (intervista, in «Littérature», n. 7, 1983).
Le cose prendono il posto della psicologia, ed è il segno d'una mutazione a largo raggio che negli stessi anni tocca filosofia, lettere, arti, cinema. Invece dell'interno dell'uomo, della sua interiorità o coscienza, viene in primo piano lo spazio esterno: l'esteriorità in cui si colloca, con la sua casa, i suoi rituali, la sua lingua, e i processi ambientali in cui è coinvolto, cominciando dal fenomeno dalla vita quotidiana.
Questa apertura di campo è la questione centrale
in Perec. Si tratta di andare verso le cose e interrogarle, accumulare
descrizioni delle loro caratteristiche. Nei testi di Perec tutto diventa
rilevante: mobili, utensili, spazi, cataloghi di acquisti per corrispondenza,
prestiti da altri autori, una raccolta di
cartoline, un elenco dei cibi mangiati in un anno, o
diari come quello preparatorio per
La vita istruzioni per l'uso
- dove annotava qualsiasi cosa gli capitasse tra le mani, da un mazzo di
tuberose a una cartolina dal Massachussetts, che poi entravano pari
pari nelle scene del libro. È l'idea d'un magazzino di
roba qualsiasi, dove anche gli oggetti immateriali, i
ricordi e i pensieri e i sogni, sono trattati come cose
materiali, nell'esteriorità di tutto.
L'esteriorità, sempre disprezzata dai signori dell'umanesimo, diventa l'essenza d'un modo di scrivere. Esteriorità vuol dire eterogeneità, spazio multiforme, mai riducibile a un'unità omogenea, anche se composto di elementi seriali. Con le idee si passa subito alle generalizzazioni, ma davanti alla moltitudine delle cose le generalizzazioni ci lasciano nel buio: per vedere qualcosa bisogna descrivere: «La prima cosa che si può fare è andare a mettere alla prova la propria cecità, cioè la nostra incapacità di vedere. Vedere cosa? Perché all'inizio c'è solo opacità, nomi che non evocano niente», dice Perec in una conferenza (ora in Espace & Représentation, 1982). La mossa successiva è inventariare quello che si è visto. Un inventario è un modo di mettere ogni cosa al suo posto; ed ecco perché Perec diceva che per parlare dei suoi libri bisogna partire dall'idea del puzzle - perché il puzzle è il gioco con cui si mette in ordine un mucchio di ritagli sparsi, fino a ricomporre un'immagine coerente. Si può dire che il suo libro più importante, La vita istruzioni per l'uso (1978) sia un manuale di procedure per affrontare l'esteriorità e tradurla in immagini coerenti - trattando come un puzzle un cumulo di note raccolte nell'arco di dieci anni, su oggetti d'arredamento, utensili, prodotti d'ogni genere, linguaggi speciali, prestiti di storie o spunti narrativi da altri autori, titoli di libri, stampe, varietà di caratteri tipografici, conformazioni delle stanze in un palazzo parigino, piano per piano, dall'atrio alle mansarde.
La vita istruzioni per l'uso
mostra che l'apertura verso l'esteriorità non può darci una rappresentazione
lineare, come quella dei romanzi canonici,
ma solo una descrizione puntiforme, sbriciolata in
dettagli o lampi di visione.
Paul Virilio
vede in questo un effetto dell'accelerazione di tutti i segnali: un
modo di scrivere basato sull'inerzia dei momenti,
sull'urgenza di cogliere ciò che sta per essere cancellato o eroso dalla fuga
del tempo («L'Arc», n. 76, 1979). Ed è un modo di creare una memoria del
mondo che abbraccia anche tutto ciò che è senza
splendore: le pratiche di lavoro, le routine quotidiane, i luoghi qualsiasi,
l'ordinario, il banale, la «vita vuota», seguendo l'avviso di San Paolo: «Il
mondo come lo conosciamo sta passando».
Un uomo che dorme
| << | < | > | >> |Pagina 277Swift, profetico trattato sull'epoca moderna
1.
In quello che molti considerano l'ultimo quadro di Bruegel, si vede una navicella sul mare in tempesta, dove dei marinai stanno gettando una botte a una balena che ha l'aria di attaccarli. In quella che alcuni considerano la più straordinaria opera di Jonathan Swift , A Tale of a Tub (nella mia traduzione Favola della botte ), troviamo la stessa immagine presentata in apertura e offerta come spiegazione del titolo. Quando i marinai sono attaccati da una balena, ci viene detto, le lanciano una botte per distrarla e così evitare il cozzo. Può darsi che l'immagine di Bruegel e il titolo di Swift fossero associati in qualche vecchia stampa, avendo lo stesso sottinteso morale. Nel quadro di Bruegel la botte per distrarre la balena sarebbe un emblema della follia umana - ossia della comune propensione a farsi catturare da attrazioni immediate, così come in un altro quadro di Bruegel c'è una scimmietta che si è lasciata catturare con una nocciolina. Il titolo di Swift allude a qualcosa del genere, perché la vecchia espressione «tale of a tub» corrispondeva a ciò che noi diremmo «frottola», «panzana», «fola»: un racconto per attirare e gabbare i gonzi. La prefazione del libro dice che un alto comitato britannico si è riunito per discutere sui pericoli che vengono dagli intellettuali dell'epoca, i quali con le loro critiche minacciano di recare gravi danni alla Chiesa e allo Stato. Ed ecco cosa sarebbe la balena: sarebbe quel pericolo incombente, ma soprattutto sarebbe il libro di Thomas Hobbes , Leviatano (del 1651), da cui gli intellettuali d'epoca ricavavano le loro armi critiche. Quel libro viene indicato come un mostro che sconvolge ogni tradizionale idea politica, perché propone una teoria materialistica dello Stato, e indica la morale come una pura regola di convenienza. La nave sarebbe qui l'antica nave del consorzio umano-cristiano, minacciata dalla balena mitica dell'Antico Testamento (il Leviatano del titolo di Hobbes). Ma cos'è la botte lanciata alla balena? Sarebbe il libro che stiamo leggendo, scritto per essere gettato in pasto ai begl'ingegni d'epoca, per distrarli e incantarli con le parole, in attesa di altri provvedimenti per stornare il loro assalto alla Chiesa e allo Stato.
Tale spiegazione del titolo porta subito a farsi
un'idea del libro che stiamo leggendo. È una fola
o panzana che serve a svagare la testa a forza di
fatuità e nuovi concetti, come tanti altri libri d'epoca - esempi di trattatismo
modernista, infarciti di panegirici e divagazioni erudite che non portano
da nessuna parte. Il nostro libro infatti è presentato
come l'opera d'uno di quei pennaioli d'epoca, autori di compilazioni di brani
scelti o di volumi scritti per sfruttare una voga; ed è un compendio di richiami
all'attualità, un elogio delle attrattive del nuovo, una dichiarata imitazione
di autori modernisti del suo tempo, scritta per «l'universale progresso
dell'umanità». È la parodia di tanti libri futuri che
vorranno salvare il mondo con una frottola, e anche
un profetico trattato sull'epoca moderna come epoca dell'informe, del disordine
assoluto nello stato delle cose.
2.
La Favola della botte è il primo libro di Jonathan Swift, pubblicato nel 1704, anonimamente come tutti i testi di Swift. Non soltanto per l'attribuzione a un anonimo pennaiolo, anche e soprattutto per l'accumulo di luoghi comuni e fiori di eloquenza libresca, questo sembra un libro che vuol confondersi con la massa di inutili chiacchiere della carta stampata, che vuol sprofondare nel calderone delle vanità letterarie, delle scimmiottature di discorsi sapienziali, dei centoni senza capo né coda. C'è qualcosa di speciale e unico in questo trattato: come il progetto di parlare assolutamente a vuoto, di mostrare fino in fondo la propria inconcludenza, con nugoli di discorsi che girano intorno a un buco, dentro il quale non si scorge il famoso Nulla, bensì il Caos. Si scorge l'informe trambusto di un'epoca che già si vanta d'essere moderna per partito preso. | << | < | > | >> |Pagina 2844.Prendiamo in mano alcune opere di Swift, per farci un'idea dei loro contenuti. Prendiamo un serio discorso che propone di ridurre il cristianesimo a religione puramente nominale: il che, dice il testo, eliminerebbe gli scrupoli di coscienza, ma mantenendo certi aspetti utili della religione, come il gusto piccante del peccato, lo sfruttamento politico dei vescovi, i fruttuosi commerci con popoli pagani. Oppure prendiamo un serio discorso per proporre ai signori inglesi di gustare nei loro pranzi una nuova raffinata vivanda, la carne di bambini irlandesi, fatti arrosto, in fricassea o in salmì - con spiegazioni per dimostrare come ciò sarebbe un modo illuminato di risolvere i problemi della miseria irlandese. Oppure prendiamo un altro serio discorso sulla possibilità di stabilire scientificamente se le merde che si incontrano per le vie di Dublino vengano da deretani irlandesi o britannici. Oppure prendiamo la Favola della botte, di cui sto parlando. Domanda: Swift avrebbe potuto scrivere discorsi del genere se non fossero stati diffusi nell'anonimato delle parole tipografate? Certo, non sarebbe stato comodo autenticarli con la propria firma. Ma, come nota l'estensore della «Apologia», l'anonimato «non è uno spiacevole diversivo, né per l'autore né per il pubblico». Infatti Swift gioca molto con l'anonimato. Sfrutta l'effetto delle parole tipografate che ci arrivano su un supporto anonimo, come un pezzo di muro, un foglio inchiostrato. Il loro senso prorompe in noi lettori come se non fosse più la traccia d'una comune enunciazione, bensì come vertigine di significati al di là di noi, ultrapotenti. Negli scrittori che verranno dopo si perderà il senso di questa vertigine, e delle mille truffe che ci vanno dietro. Il gusto di quell'inganno è ancora fresco in Rabelais , che si fa beffe di tutti gli almanacchi popolari e dei libri dotti che saccheggia. È fresco anche in Cervantes , che ne parla molto nel Don Quijote, e non per niente ha inventato un eroe che non capisce la differenza tra il mondo degli uomini e quello della carta stampata. Si può dire come si vuole: tutte le parole possibili, appena toccate dall'alienità dell'inchiostro tipografico, pare che acquistino il diritto di pretendere da noi attenzione. Questa magia ha il suo risvolto nella Favola della botte. Se tutte le parole stampate possono pretendere la nostra attenzione, tutte diventano simili. Non importa se siano futili, false o plagiate, e neanche se girano a vuoto. Infatti alla fine l'estensore dice che è questo un esperimento «per scrivere su niente, lasciando andare la penna avanti da sola». Nella conclusione è anche detto che un libro è come un viaggio dove ognuno può far sosta quando vuole ad ammirare il paesaggio, scegliendo il sentiero che più gli piace; dove però ogni compagno di viaggio che abbia fretta di arrivare alla meta è un seccatore da scaricare subito. È una parabola che porta un'aria di libertà dagli obblighi della sensatezza, di apertura al puro svago. Ma c'è dell'altro. Il libro divagante come un viaggio senza meta, scritto «su niente, lasciando andare la penna avanti da sola», è come un buco da cui viene su un turbine di parole che non hanno più un centro, nessuna ragione d'essere, nessun fondamento. Sono parole dove non si capisce più se il falso e la futilità possano essere soggetti a imputazioni, o se siano invece l'elemento mercuriale a cui devono affidarsi tutti i nostri concetti. In questo universo ciarliero e volatile, non si sa più dove stia di casa una verità moralmente garantita, nei libri o altrove. Swift era un lettore di Cervantes, e questo mi fa venire in mente un episodio del Don Quijote (parte seconda, cap. LVIII), con una strana discesa agli inferi, in cui si vedono dei diavoli che giocano a palla con libri moderni pieni di stoppa e di vento. E un'immagine che potrebbe essere l'emblema dello scenario swiftiano, dove il sociale è un grande teatro di falsificazioni, e dove tutti i libri stampati, in quanto tramiti del sociale, non possono essere che palloni pieni di stoppa e di vento. | << | < | > | >> |Pagina 287Ma occorre approfondire lo scenario che Swift ci racconta. Un pamphlet swiftiano, L'arte della menzogna politica, pubblicato nel 1710, narra il grande sconvolgimento avvenuto nel mondo con l'entrata in scena della Fama, intesa come il trionfo dei giornali. Questa diventa l'arma fondamentale, non più del Diavolo ma della figura modernissima del Mentitore Politico. Il Mentitore Politico è il rappresentante del regime parlamentare, che parla secondo gli interessi del suo partito; e combinando informazioni e menzogne può sempre «trasformare un ateo in santo, un nero in bianco, o un farabutto in rappresentante dell'onestà». Ma, aggiunge l'autore, il Mentitore Politico deve avere la dote della memoria corta: ossia deve saper dimenticare istantaneamente ogni menzogna che ha detto, ritenendo ogni volta di avere detto la verità, e mentendo di nuovo quando dovrà ridirla, con una menzogna che a sua volta diventerà una verità su cui mentire. Così potrà sempre giurare su entrambi i corni d'una contraddizione, mentendo in ogni caso, ma in più mettendo fuori gioco ogni criterio per distinguere il vero dal falso. Se poi, dice il pamphlet, si abbandona la logica e si accusano i politici di spergiuro, perché invocano sempre Dio e la morale, si sbaglia di nuovo. Infatti loro non credono né all'una né all'altra cosa, dunque non sono neanche spergiuri. E nel caso in cui una menzogna venga pubblicamente smascherata? Se è stata detta al momento opportuno ha già svolto la sua funzione, perché ha un puro valore strategico secondo il luogo e l'attimo in cui è diffusa. La Menzogna vola come il Tempo, mentre la Verità zoppica arrancando per raggiungerla, e quando sta per raggiungerla, quella è già altrove a spandere le sue falsificazioni. Il vecchio motto, secondo cui la Verità trionfa sempre, è passato di moda.| << | < | > | >> |Pagina 327Il disordine delle parole
Su una traduzione dell'Ulisse di Joyce
Ho iniziato la mia traduzione dell' Ulisse di Joyce sette anni fa. Quelli della casa editrice ci avevano messo cinque anni per convincermi ad assumere quel compito. Infine ho detto di sì, con il sentimento di chi si butta in un mare tempestoso senza certezza di potere stare a galla. [...] La regola delle dodici ore al giorno non mi portava molto avanti. Certi giorni riuscivo a tradurre passabilmente tre o quattro pagine, non di più. E i dubbi erano sempre troppi: cioè erano aspetti d'una lingua che capivo solo vagamente, anche aiutandomi con i testi annotati (come Ulysses Annotated di Don Gifford, veramente essenziale). Ma è qui che il libro di Joyce si staccava dal ceppo di tutti gli altri del suo tempo, perché il suo parlare era sempre un gioco, un'acrobazia con generi o pronunce insolite e stravolte. E ho capito per strada che quella dell' Ulisse non era precisamente una lingua, era una stralingua, che prendeva dentro echi d'ogni genere, con un lessico più espanso di tutti i testi che si conoscono. Il suo era un libro irlandese, britannico, gaelico, alieno come le satire di Jonathan Swift quando parla dei signori inglesi, e pacato come la saggezza di Pantagruele, e buffonesco come i nostri eroi maccheronici. E oltre a ciò, comparivano gerghi fossilizzati, stilemi di varie epoche, reminiscenze letterarie e voci antiche - come quella locuzione (Ayenbyte of Inwyt) trovata in un testo trecentesco del Kent, che appare un paio di volte nella mia versione, ma resta nella memoria (l'ho tradotta con una voce latina, Morsura animi, per mantenere il sapore d'una voce antica).
Qui ho capito che dovevo coinvolgermi in simili
azzardi e accettare il disordine delle parole, come le
mescolanze e variabilità delle fantasie. Per questo non
è importante capire tutto: è importante sentire una sonorità che diventa più
riconoscibile proprio quando ci sembra di piombare fra termini incerti - gerghi
fossilizzati, chiacchiere da pub, stele di varie epoche.
Fin dal terzo episodio l'
Ulisse
abbandona la narrativa del naturalismo e lascia emergere un disordine delle
parole, guidato da divagazioni del pensiero
che si coagulano nel cosiddetto
stream of consciousness
o «flusso di coscienza»: un continuo succedersi di pensieri e immagini che
passano per la testa dell'io narrante, si disfano o si richiamano l'uno con
l'altro, quasi senza sosta. Ed è un disordine liberatorio, dove le percezioni
d'un dentro e d'un fuori collimano, scivolando dall'uno all'altro, richiamandosi
a vicenda, dalle vedute attuali al ricordo come una forma di
rêverie
(sogno o fantasticazione). È la base dell'itineranza continua di questi eroi,
comune a Stephen Dedalus e a Leopold Bloom.
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