Autore Carlo Formenti
Titolo Oligarchi e plebei
SottotitoloDiario di un conflitto globale
EdizioneMimesis, Milano-Udine, 2018, Eterotopie 455 , pag. 156, cop.fle., dim. 14x21x1 cm , Isbn 978-88-5754-542-4
LettoreGiangiacomo Pisa, 2018
Classe politica , economia , lavoro , media , paesi: Italia: 2010












 

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Indice


PREFAZIONE                                                 9


ATTI E PAROLE DEI SIGNORI DEL MERCATO                     13

Il prezzo della virtù                                     13
I nuovi schiavi                                           14
Terrorismo biopolitico                                    14
La fine degli spazi pubblici                              15
La bufala delle startup                                   16

L'apocalisse dell'università                              17
Le mani del padrone sulle carceri                         18
I medici strozzini                                        19
Dio ci guardi da quei "rivoluzionari"                     20
Gli economisti intrappolati nella spirale del silenzio    21

Perché sono antiamericano                                 22
Le menzogne degli "esperti"                               23
Do you remember Kossovo?                                  24
Mercatizzare tutto, senza eccezioni                       25
Caccia a Piketty                                          26

Perché non ci amano più?                                  27
A chi giova lo scontro di civiltà                         28
I nuovi lanzichenecchi                                    30
Segreti di Pulcinella                                     31
Il caso Regeni e la realpolitik                           32

Reagan a Pechino                                          33
Cosmopolitismo per ricchi                                 34
Tutto è relativo                                          35
Meno male che c'è il compagno Xi Jinping                  36
Arlecchino e Pantalone                                    37

I costi del low cost                                      39
Milano. Marcia o muori                                    40


ATTACCO AL LAVORO                                         43

La tecnologia non è uguale per tutti                      43
Il libero mercato regala democrazia e benessere. Falso!   44
I poveri della Silicon Valley                             45
Il finto sindacato dei freelance                          46
Lavoratori di serie A e di serie B                        47

Attacco a Walmart                                         48
Taylorismo digitale                                       49
Abbasso la meritocrazia evviva il corporativismo          50
I due volti di Apple: fighetti a Cupertino,
    mostri a Shenzen                                      51
Lager Amazon                                              53

Stati Uniti. Se la lotta di classe riparte dalla
    logistica                                             54
Benvenuti nella società postsindacale                     55
Fiat Chrysler. Un autunno caldo americano                 56
Vuoi fare carriera? Lavora gratis                         57
Addosso ai lobbisti (ma solo ai piccoli)                  58

Divide et impera                                          59
I voucher e le elezioni                                   61
Quando lo sciopero fa paura                               62
Il nostro futuro? Un Paese di operatori turistici         63


QUELLI CHE IL LIBERISMO È DI SINISTRA                     65

Le due destre                                             65
Tutto il mondo è Paese                                    66
Se la stampa inneggia al giovin rottamatore               67
Hollande licenzia i ministri eretici                      68
Utopie neokeynesiane                                      69

Le illusioni delle sinistre europeiste                    71
Tsipras ha vinto ma c'è poco da esultare                  72
Il fronte interno della "guerra al terrore"               73
I Democratici contro Sanders                              76
Per capire la Brexit                                      77

I guasti del liberalismo identitario                      78
Liberi sti al contrattacco                                80
Il manifesto del pensiero unico                           81
Progressismo? Una parola da buttare                       83
Macron, un presidente giovane ma non dei giovani          84

L'autocritica a metà di un liberista                      85
Florida ci ripensa: i creativi non sono così simpatici    86


IL VOLTO OSCURO DELLE NUOVE TECNOLOGIE                    89

Lasciate che i bimbi vengano a me                         89
I droni non rispettano le leggi di Asimov                 90
La Cina è il diavolo                                      92
Jobs santo subito                                         93
Anarcocapitalista a chi                                   93

Noi evasori? Ovvio, siamo capitalisti                     95
Obama e i droni killer                                    95
Libertà e democrazia? Cose nostre sono                    96
Quella finestra sulla complicità fra Stati e corporation  98
Il sesto potere secondo Bauman e Lyon                     99

I microchip nel cervello                                 102
Il capitalismo è finito. Anzi no                         103
La crociata del CEO di Uber contro i tassisti            104
Uberizzazione del lavoro                                 105
Arroganza neocoloniale e odio per la plebe               106

Airbnb e la rendita immobiliare                          107
Gli algoritmi come dispositivi di potere                 108
La privatizzazione del DNA                               110


PLEBI IN RIVOLTA                                         113

Indignati in copertina                                   113
I popoli dell'America Latina contro l'arroganza
    euroamericana                                        114
Correa e Morales: stili diversi ma unità antimperialista 115
Papa Francesco e il bicchiere mezzo pieno della
    rivoluzione correista                                116
Gli spettri ottocenteschi dell'Oregon                    117
Un outsider alla Casa Bianca?                            119
La Nuit Debout                                           120
Imparare da Sanders                                      122
Trump, la rabbia antisistema e l'eutanasia delle sinistre123
Quelli che hanno votato Trump turandosi il naso          125
La globalizzazione è morta. Parola di Linera             126
La svolta di Podemos                                     127
Dalla casta alla trama                                   131
Apologia di Mélenchon                                    133
Le menzogne occidentali sul Venezuela                    134
Corbyn va oltre Sanders                                  135
Il negazionismo delle élite                              137


POLEMICHE                                                141

Dall'utopia al mercato                                   141
Rossobrunista a chi                                      144
Le ideuzze di un globalista                              151


 

 

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ATTI E PAROLE DEI SIGNORI DEL MERCATO





Il prezzo della virtù


Dicembre 2011. Sull'«Economist» leggo un articolo intitolato The high cost of virtue, nel quale si prende atto che, a causa della crisi, i cittadini britannici, sono costretti a rinunciare alle loro cattive abitudini: i fumatori riducono il consumo di sigarette, i bevitori diradano le visite al pub, i giocatori spendono meno soldi per comprare i biglietti delle lotterie o scommettere sulle partite, i pigri rinunciano all'automobile usando le gambe o la bicicletta per percorrere distanze inferiori a due-tre chilometri. A motivare questa conversione a una vita morigerata è il fatto che le tasse sui consumi voluttuari sono in continuo aumento, al punto che delle rinunce appena elencate potrebbero beneficiare i bilanci familiari con risparmi fino a 7.500 sterline l'anno. Per tacere dei vantaggi che questa "moralizzazione" dei costumi apporterebbe alla salute delle persone e all'ambiente.

Tutto bene? No, ribatte l'«Economist»: da questi consumi lo Stato ricava una quota significativa dei propri introiti, per cui l'altra faccia della medaglia di questa virtuosa austerity è la riduzione della capacità statale di erogare quei servizi che i tagli alla spesa pubblica hanno già duramente falcidiato, per cui si renderebbe necessario aumentare le tasse, togliendo dalle tasche dei cittadini i soldi che risparmiano rinunciando ai vizi, e promuovendo pratiche illegali come la vendita di sigarette di contrabbando e le scommesse clandestine, che possono offrire piaceri low cost in quanto non gravate da balzelli. Segue la morale: ogni forma di tassazione altera i naturali equilibri del mercato, e innesca quella spirale perversa per cui ogni tassa crea la necessità di introdurre altre tasse.

E allora? Meglio lasciar fare alle spontanee tendenze della natura umana (che, si sa, è un grumo di vizi). Così come Adam Smith consigliava di affidarsi all'egoistico interesse (e non alla benevolenza) di panettieri e macellai per risolvere le proprie esigenze alimentari, l'«Economist» invita lo Stato a non penalizzare i vizi del cittadino: che i fumatori si distruggano i polmoni, che i bevitori si sfascino i fegati, che i giocatori dilapidino i magri stipendi nella speranza di un'improbabile vincita. che i pigri diventino obesi usando la macchina per accompagnare i figli a poche centinaia di metri da casa; in questo modo continueranno a foraggiare le casse statali e a coltivare quelle piccole distrazioni quotidiane che aiutano a dimenticare le brutture di un sistema economico che periodicamente espone la gente agli effetti di crisi devastanti.

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L'apocalisse dell'università


Febbraio 2013. I dati sull'apocalisse dell'università italiana (17% di iscritti in meno rispetto a dieci anni fa, 22% in meno di docenti negli ultimi sei anni, rapporto medio fra studenti e docenti di 18,7, il più alto di Europa; 19% di laureati nella fascia di età fra i 30 e i 34 anni a fronte di una media europea del 30%) sono deprimenti. Certo ciò dipende da scelte politiche sbagliate, ma è anche dovuto al fatto che molti giovani non credono più che la laurea sia una risorsa strategica per ottenere redditi dignitosi e, quand'anche ne fossero convinti, molti non dispongono più di risorse sufficienti per far fronte ai costi crescenti della formazione universitaria.

È possibile invertire rotta? No, dal momento che questa evoluzione risponde alle nuove esigenze del modo di produzione capitalista. Se lo Stato investe sempre meno nella formazione, e se i media invitano i ragazzi a considerare i vantaggi offerti da mestieri che non richiedono livelli particolarmente elevati di istruzione, è perché nei Paesi sviluppati l'università di massa ha esaurito la propria funzione. Intanto una quota crescente di lavori skilled sta migrando verso i Paesi in via di sviluppo (solo la Cina prevede di sfornare 200 milioni di laureati entro un decennio), seguendo le stesse rotte imboccate dai lavori esecutivi negli scorsi decenni. Inoltre il livellamento verso il basso dei redditi procede a ritmo sostenuto e per molti non vale più la pena — o non è semplicemente più possibile — nuotare contro la corrente che sta trascinando l'università verso il vecchio ruolo di garantire il ricambio generazionale delle élite dirigenti.

Ciononostante c'è chi si ostina a sostenere che la laurea resta un investimento conveniente per chiunque, per cui vale in ogni caso la pena di correre il rischio relativo. La responsabilità del calo delle iscrizioni, secondo costoro, sarebbe dunque la scarsa diffusione di una "sana" cultura del rischio presso i nostri giovani. Peccato che milioni di studenti americani, essendosi assunti il rischio, si trovino oggi a dover far fronte a debiti mostruosi. Ma c'è una soluzione, replicano i nostri: invece di accendere mutui, si potrebbero istituire delle borse di studio che verranno restituite se e quando i titolari avranno raggiunto livelli di reddito sufficienti.

Ovviamente l'opportunità non potrà essere garantita a tutti, ma solo ai più "meritevoli". Forse questa idea non verrà messa in pratica, ma sono pronto a scommettere che, qualora lo fosse, il profilo socioeconomico dei meritevoli difficilmente si scosterà da quello dei rampolli delle élite dominanti, mentre eventuali eccezioni saranno vincolate a chiare garanzie ideologiche e comportamentali (niente rompiscatole che coltivino velleità antisistema!).

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Pagina 26

Caccia a Piketty


Maggio 2014. Che arrivasse un attacco frontale al libro di Thomas Piketty sul capitalismo del XXI secolo e le disuguaglianze era solo questione di tempo: troppo grande la sfida al pensiero unico neoliberista implicita nelle tesi dell'economista francese per non scatenare reazioni. A scagliare la prima pietra ha provveduto Chris Giles, editorialista del «Financial Times». Vediamo l'accusa: i dati che Piketty utilizza per sostenere la tesi secondo cui, negli ultimi decenni, le disuguaglianze fra ricchi e poveri sarebbero aumentate al punto da tornare ai livelli dei primi anni del Novecento, sarebbero stati trascritti in modo scorretto o, in alcuni casi, sbagliati se non intenzionalmente manipolati.

Il giornalista economico del «Corriere della Sera» Danilo Taino ha colto al volo l'occasione per togliersi un sassolino dalla scarpa. Costretto un anno fa a scrivere una imbarazzata difesa d'ufficio degli economisti di scuola liberista Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, pizzicati a usare dati sbagliati per sostenere la tesi secondo cui esisterebbe un rapporto diretto fra dimensioni del debito pubblico e crescita economica, oggi può vendicarsi: visto, gongola, anche il neokeynesiano Piketty manipola le cifre, così i suoi fan di sinistra la smetteranno di celebrarne i meriti.

Peccato che, nel frattempo, le repliche dello stesso Piketty e di altri economisti, come Paul Krugman e Mark Gongloff, abbiano dimostrato: 1) che le accuse di Giles, ove provate, metterebbero in dubbio solo l'analisi delle disuguaglianze in Inghilterra, e non quelle di tutti gli altri Paesi esaminati nel libro; 2) che la novità del lavoro di Piketty consiste nel fatto che analizza periodi storici molto lunghi, non nella tesi dell'aumento delle disuguaglianze che è un dato di fatto appurato e dimostrato da una enorme mole di dati provenienti da fonti indipendenti; 3) che gli errori di Piketty, ove confermati, sarebbero meno gravi di quelli commessi a suo tempo dalla coppia Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, per cui non ne metterebbero in discussione la tesi di fondo. Il vero punto, tuttavia, è che questo dibattito non riguarda la statistica e la scienza economica, bensì la politica, visto che quanto sia aumentata la disuguaglianza, e in che misura tale aumento sia tollerabile, è interrogativo squisitamente politico.

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Pagina 32

Il caso Regeni e la realpolitik


Febbraio 2016. Sergio Romano è una delle firme più prestigiose del «Corriere della Sera», un esponente di quel realismo politico altoborghese che non si nasconde dietro un dito quando si tratta di affrontare temi che riguardano conflitti e rapporti di forza fra nazioni. È anche uno di quei liberali vecchio stile che non negano l'esistenza del conflitto di classe e della competizione fra imperialismi e che, invece di blaterare di principi e valori, di "interesse generale" dell'umanità e con simili motivazioni ideologiche, non nascondono la propria appartenenza di parte e spiegano come la loro parte dovrebbe agire per difendere i propri interessi.

Così, dopo il coro di sdegnate condanne, di ipocrite richieste di "fare piena luce", di inviti a trovare e punire i colpevoli che media e politici hanno intonato dopo l'assassinio di Giulio Regeni da parte della polizia del regime egiziano, ecco finalmente qualcuno che dice la verità: sappiamo benissimo di chi è la responsabilità, ma i nomi dei colpevoli non li sapremo mai, né mai otterremo giustizia perché non è interesse dell'Italia alzare troppo la voce nei confronti di un regime alleato qual è quello di Al Sisi.

Abbiamo forse preteso che il governo britannico rendesse conto dei crimini commessi nel corso della lotta al terrorismo irlandese? O che gli Stati Uniti rispondessero dell'orrore di Guantanámo e delle torture della Cia dopo gli attentati alle Torri Gemelle? La guerra, sembra dirci Romano parafrasando Mao, non è un pranzo di gala, soprattutto se si tratta della guerra contro un "nemico assoluto" qual è il terrorismo islamico. E in guerra capita di dover stringere alleanze imbarazzanti. Al Sisi è un macellaio ma è anche una diga contro l'estremismo islamico in Nord Africa.

E allora? Accetteremo quanto è successo senza fare nulla? Proprio così, ci fa capire Romano, anche se poi non può esimersi dal tributare omaggio ai principi e ai valori occidentali: «Questo non significa che i metodi del governo egiziano debbano essere necessariamente condonati. Oggi abbiamo più che mai il diritto di dire al Cairo che non si vince una guerra, anche contro il peggiore e più crudele dei nemici, senza il sostegno dell'opinione pubblica. È una legge democratica cui neppure l'Egitto può sottrarsi». Detto fuori dai denti: salvate la forma che all'opinione pubblica ci pensiamo noi.

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Pagina 51

I due volti di Apple: fighetti a Cupertino, mostri a Shenzen


Maggio 2015. Nel 1984 un famoso video pubblicitario lanciò il computer Apple Macintosh. Lo spot sfruttava la coincidenza temporale fra l'evento commerciale e la data in cui George Orwell aveva ambientato il suo famoso romanzo distopico: nel video una massa di persone tutte vestite allo stesso modo, i volti immobilizzati in una smorfia di stupore inespressivo, marciano in silenzio fino a sedersi disciplinatamente davanti a uno schermo interamente occupato dal volto di un leader che li arringa. Finché nella sala irrompe una giovane donna — una sorta di icona sexy delle protagoniste dei movimenti studenteschi dei decenni precedenti — che lancia un grande martello contro lo schermo, sfondandolo. Dopodiché la folla imbesuita si trasforma all'improvviso in un'assemblea di persone autonome, ognuna capace di immaginare e plasmare la sua realtà.

"Think different" era in quegli anni lo slogan preferito dalla società fondata da Steve Jobs per promuovere i suoi prodotti, presentati come strumenti di "empowerment" del consumatore, capaci di esaltarne la creatività, in opposizione al grigiore e al conformismo attribuiti ai prodotti della concorrenza (l'idea era: noi siamo i fighetti, quelli della Microsoft i buzzurri). Per la sua insistenza sui valori di stile, eleganza, sofisticazione estetica e tecnologica, Apple è sempre stato il colosso hi-tech che, più di ogni altro, incarna lo stereotipo di quel lavoratore "creativo" che una certa sociologia celebra come protagonista della società della comunicazione. Anche sulla copertina del libro Morire per un iPhone , di Pun Ngai, Jenny Chan e Mark Selden, si vede una folla di volti inespressivi (sono volti di robot "rubati" a un fotogramma del film Io, Robot, di Alex Projas). Volti che evocano i protagonisti dell'altra faccia dell'impero targato Apple: dai fighetti della Silicon Valley, che viaggiano con i loro inseparabili iPhone, ai milioni di operai cinesi che, per fabbricare quegli iPhone, ci lasciano la pelle.

Già in precedenti lavori il team di sociologi guidato da Pun Ngai aveva analizzato le terribili condizioni di lavoro e di vita delle centinaia di milioni di operai cinesi schiavizzati dalle imprese multinazionali attirate in Cina dal basso costo e dalla totale assenza di diritti del lavoro, oltre che dai vantaggi fiscali e infrastrutturali offerti dal governo e dal Partito Comunista cinesi. In questa nuova ricerca l'attenzione si concentra sulla Foxconn, il colosso taiwanese che, in decine di stabilimenti sparsi per tutta la Cina, produce la quasi totalità degli smartphone, computer e tablet che utilizziamo (ed è il contractor pressoché esclusivo di Apple). A Shenzen e in altre città mister Gou, il padre padrone di Foxconn, ha costruito dei veri e propri lager, dove centinaia di migliaia di giovani donne e uomini sono costretti a vivere e lavorare in condizioni di semi schiavitù (orari e ritmi massacranti, paghe irrisorie, disciplina militare).

L'attenzione dei media è stata attirata su questa realtà dai suicidi che, per alcuni lavoratori, sono diventati l'unica possibilità di opporsi alla propria condizione e di rivelarla agli occhi del mondo. Un'arma terribile cui è necessario ricorrere perché nessuno (sindacato, partito, amministrazioni locali, polizia) difende le vittime dai soprusi cui vengono sottoposte, né impone di rispettare le pur permissive regole cinesi in materia di salario minimo, divieto del lavoro minorile, tutela della salute, protezione dagli infortuni ecc. Al contrario: partito, burocrati e funzionari locali collaborano ad "arruolare" migliaia di giovani studenti, spedendoli in fabbrica con la scusa di far compiere loro degli stage di formazione professionale; mentre polizia ed esercito reprimono le rivolte che sempre più frequentemente scoppiano nelle fabbriche.

In Foxconn le regole sono dettate dal libretto dei pensieri di Mister Gou (derisoria parodia del libretto di Mao), pieno di slogan da recitare in coro per rafforzare disciplina e spirito di gruppo, e dalle punizioni con umiliazione pubblica dei colpevoli di "pigrizia". Ma c'è dell'altro: su ogni 100 euro che spendiamo per comprare un prodotto Apple, solo 1,8 euro vanno a chi lo ha fabbricato. Detto altrimenti: i mostri di Shenzen non sono altro che l'altra faccia dei fighetti di Copertino, perché i ritmi spaventosi di lavoro che uccidono gli operai cinesi sono l'effetto collaterale dei tempi di consegna che Apple impone al suo contractor.

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Lager Amazon


Agosto 2015. Ultimamente la stampa americana si è occupata a più riprese delle spaventose condizioni di lavoro che Amazon, il colosso globale del commercio online, impone ai propri dipendenti (per inciso, anche in Europa ci sono state denunce in merito , oltre a diverse vertenze sindacali). Si è venuti a sapere, fra le altre cose, dell'esistenza di "processi" nei confronti dei dipendenti "pigri", istruiti a seguito della delazione da parte di qualche collega, pratica che viene sistematicamente incoraggiata dalla direzione. Che cosa intenda l'azienda per pigrizia lo spiega in un'intervista una ex dipendente: «se non sei in grado di dare assolutamente tutto per ottanta ore settimanali, vieni classificato come un peso da scaricare». Del resto Amazon non fa altro che perfezionare ciò che la cultura americana del lavoro ha creato: un modello di business in cui lavorare giorno e notte è la regola.

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I guasti del liberalismo identitario


Novembre 2016. In un articolo apparso qualche giorno fa sul «New York Times», Mark Lilla, professore di scienze umane alla Columbia University, sostiene che i progetti politici fondati sull'assemblaggio di un mosaico di culture identitarie — cioè la strategia messa in campo dai liberal americani - sono destinati alla sconfitta.

Ci voleva la batosta della vittoria di Donald Trump perché lo capissero, ma la verità è che non sembra l'abbiano davvero capito, visto che giornalisti, politici di "sinistra" ed esperti si arrampicano sugli specchi per sminuire la portata della catastrofe (in fondo la Clinton ha avuto più voti popolari, gli americani e gli inglesi si renderanno presto conto degli errori commessi votando Brexit e Trump e via di questo passo). Forse è per questo che Lilla ci va giù duro: l'ossessione per le differenze identitarie — e la retorica "politicamente corretta" che l'accompagna — che pervade da decenni scuole, media e università americane, scrive, ha prodotto una generazione di progressisti «narcisisticamente inconsapevoli delle condizioni dei soggetti esterni ai loro gruppi autocentrati». Molti di costoro sono convinti che il discorso politico si esaurisca nella narrazione delle diversità e «non hanno praticamente nulla da dire in merito a questioni come le classi sociali, la guerra, l'economia e i beni comuni», anche perché i curriculum scolastici proiettano anacronisticamente nel passato le identità politiche contemporanee, «offrendo una visione distorta dei fattori che hanno plasmato il nostro Paese». Questo atteggiamento ha influenzato a tal punto i giovani giornalisti, intellettuali e operatori della comunicazione da renderli del tutto ciechi di fronte a ciò che non riguarda i temi identitari.

Ma il disastro peggiore, come ha dimostrato la vittoria di Trump, lo ha prodotto in campo politico, alimentando un disprezzo arrogante e aristocratico nei confronti degli strati sociali meno colti e la convinzione che la vecchia destra repubblicana sia destinata a estinguersi spontaneamente, sostituita dalle giovani minoranze etniche dei migranti (salvo scoprire che i giovani latinos non hanno votato in massa per la Clinton). Né le élite liberal si sono rese conto che l'ossessione per le differenze identitarie ha legittimato l'autopercezione dei cittadini bianchi e religiosi delle zone rurali come gruppo svantaggiato la cui identità viene ignorata, se non minacciata di estinzione.

Ma come dovrebbe essere una cultura di sinistra postidentitaria? Qui Lilla dice cose meno convincenti. Va bene quando rilancia un discorso di Sanders , il quale ha affermato che gli americani ne hanno piene le scatole di sentir parlare dei gusti sessuali degli intellettuali di sinistra, ma poi mi pare che riduca il progetto politico di Sanders allo sforzo di essere più inclusivi nella costruzione di una coalizione sociale progressista, di "non dimenticare" la classe operaia e le classi medie proletarizzate e precarizzate. Ma dal momento che si dichiara erede della tradizione socialista e rilancia la necessità di rimettere al centro i temi dell'economia (prima i diritti sociali, poi quelli civili e individuali), credo che Sanders non pensi solo all'allargamento della coalizione, ma anche ad attribuire pesi politici diversi ai soggetti che ne fanno parte: appartenere agli strati sociali sfruttati non è un problema di identità equiparabile all'appartenere a questa o quella fede religiosa o a questo o quel gruppo che condivide certi gusti sessuali.

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Il manifesto del pensiero unico


Febbraio 2017. Nei giorni scorsi è stato lanciato - ottenendo grande rilievo sui media — un Appello per il rilancio dell'integrazione europea firmato da trecento intellettuali fra i quali spiccano Giuliano Amato e Anthony Giddens, fra i massimi esponenti della Terza via e del pensiero unico liberista. Nel testo in questione: 1) si afferma che oggi la Ue è sotto attacco «sebbene abbia garantito pace, democrazia e benessere per decenni»; 2) si esalta l'«economia sociale di mercato», affermando che essa può funzionare solo grazie a una governance multilivello e al principio di sussidiarietà; 3) si rivendica il ruolo di un'Europa cosmopolita nella costruzione di una «governance globale democratica ed efficiente». Il tutto accompagnato dall'invito a legittimare la Ue attraverso elezioni in cui i cittadini del continente possano liberamente sceglierne i vertici.

Proviamo a decodificare il senso di queste affermazioni, sfruttando il contributo di due studiosi che hanno sviscerato i dispositivi della governance ordoliberista, come Dardot e Laval. Una prima considerazione è che l'affermazione secondo cui l'Europa ha garantito pace, democrazia e benessere è falsa: dai Balcani all'Ucraina, passando per la Libia, l'Europa è stata un costante fattore di guerra; quanto alla democrazia chiedete cosa ne pensa il popolo greco; infine il benessere è un miraggio per milioni di cittadini europei che hanno visto peggiorare drasticamente i livelli salariali e di occupazione, oltre a perdere gran parte dei diritti conquistati prima dell'avvio del processo di unificazione.

Seconda considerazione: associare l'economia sociale di mercato all'allargamento della democrazia è una contraddizione in termini. Questo concetto è infatti costitutivo di quel progetto neoliberista che ha sottratto il ruolo della legittimazione al quadro costituzionale-parlamentare per trasferirlo a organismi non eletti che rispondono agli imperativi del mercato. Inoltre la sussidiarietà di cui si parla è consistita nella proliferazione di enti, agenzie e autorità deputati a gestire localmente i bisogni sociali – proliferazione che è proceduta di pari passo con lo smantellamento del welfare e con l'assunzione dell'impresa privata quale modello di regolazione sociale, in base al principio secondo cui non bisogna ostacolare chi potrebbe erogare un servizio migliore del servizio pubblico (pratica che Colin Crouch ha definito come una spoliticizzazione del servizio pubblico attraverso la riduzione del cittadino a cliente).

Infine le reti multilivello, presentate come strumenti di integrazione della società civile nella governance, sono in realtà servite a indebolire quei gruppi intermedi di pressione che rappresentavano e difendevano gli interessi delle classi subordinate. Secondo il dogma ordoliberista, questi gruppi sono di ostacolo alla concorrenza e impediscono la libera formazione dei prezzi (a partire da quello della forza lavoro, che va tenuto il più basso possibile per evitare tensioni inflazionistiche). Sempre secondo tale dogma, vanno contrastate tutte quelle richieste di "elargizioni clientelari" che provocano un aumento della spesa pubblica in materia di previdenza, salute ecc. Non si capisce questa logica se non si comprende che per gli ordoliberisti – al contrario dei liberisti classici – il ruolo dello Stato è fondamentale: sia perché deve costruire l'ordine giuridico che deve assicurare il corretto funzionamento del mercato, sia come garante di un ordine sociale "postideologico" in cui tutti i cittadini devono venire convinti di essere "imprenditori di sé stessi" e di vivere nel migliore dei mondi possibili.

Per concludere: il riferimento alla natura cosmopolita dell'Europa – per inciso smentito dai muri e dalle altre pratiche di contrasto ai flussi migratori, come il vergognoso accordo con il regime turco – è espressione dell'"internazionalismo" delle élite, le quali vogliono schiacciare le resistenze dei popoli alla colonizzazione del mercato globale. Come conciliare tutto ciò con la proposta di legittimare l'oligarchia di Bruxelles sottoponendola al vaglio degli elettori? Ai firmatari dell'appello non mancano gli strumenti concettuali per progettare alchimie tecniche in grado di garantire a priori il trionfo di una grande coalizione europea "antipopulista".

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Il sesto potere secondo Bauman e Lyon


Marzo 2014. Le preoccupazioni per l'uso dei media digitali come strumenti di sorveglianza pervasivi sono aumentate esponenzialmente dopo le rivelazioni di Edward Snowden sulle pratiche di spionaggio messe in atto dai suoi ex datori di lavoro, la NSA, ai danni dei cittadini americani e di tutti gli altri Paesi, nonché di capi di Stato (anche alleati) e imprese pubbliche e private. A mano a mano che Snowden rendeva noti nuovi documenti, i media evocavano il romanzo 1984 di Orwell , o quel Panopticon di Bentham che Michel Foucault ha eletto a emblema di una modernità fondata sul binomio sorvegliare e punire. Ora un libro di David Lyon e Zygmunt Bauman suggerisce una prospettiva diversa.

Lyon, attento analista dei problemi della sorveglianza, e Bauman, il filosofo che ha inventato il concetto di "modernità liquida", ribaltano gli scenari orwelliani e foucaultiani cui contrappongono quattro tesi di fondo: 1) viviamo in un mondo postpanottico, in cui le nuove forme di controllo e sorveglianza assumono le caratteristiche tipiche del consumo e dell'intrattenimento; 2) i principali oggetti al centro dell'attenzione dei sistemi di sorveglianza non sono le persone in carne e ossa, bensì i loro doppi elettronici, cioè i dati che li riguardano; 3) ciò che più dobbiamo temere non è la fine della privacy e dell'anonimato bensì l'inquadramento in categorie in grado di determinare a priori il nostro futuro di consumatori e cittadini; 4) la costruzione di questa macchina infernale procede con la collaborazione spontanea, se non gioiosa, delle sue vittime.

Il concetto di Panopticon, argomentano Lyon e Bauman, implicava la concentrazione dei soggetti sottoposti a sorveglianza in determinati luoghi – carceri, fabbriche, scuole, ospedali ecc. – e sfruttava il "controllo delle anime" come strumento per cambiare comportamenti e motivazioni. Lo sguardo, temuto ma non visto e quindi presunto come costantemente presente, del controllore induce all'autodisciplina lavoratori, prigionieri, pazienti e allievi che si adeguano alle aspettative del sistema di controllo per non subire sanzioni. Queste modalità punitive di controllo, osservano gli autori, riguardano ormai esclusivamente le "zone ingestibili" della società come le prigioni e i campi profughi, sono cioè riservate agli esseri umani dichiarati "inutili" ed esclusi nel senso letterale della parola. Viceversa il nuovo potere globale – che Lyon e Bauman contrappongono al potere politico tradizionale, confinato nel locale – non si esercita erigendo barriere, recinzioni e confini che vengono anzi considerati come ostacoli da superare e aggirare; esso deve poter raggiungere tutti in modo da poterli valutare e giudicare uno per uno e, a tale scopo, fa in modo che tutti si espongano volontariamente al suo sguardo.

Passiamo alla seconda tesi. Lyon e Bauman riprendono un tema già sviscerato in passato da Stefano Rodotà , vale a dire il concetto di "doppio elettronico". La costruzione di veri e propri duplicati delle persone è un processo costantemente in atto a partire dai dati personali che ognuno di noi fornisce continuamente al sistema di sorveglianza navigando in rete, usando la carta di credito, frequentando i social media, usando i motori di ricerca ecc. Ciò di cui non siamo consapevoli è che questi frammenti di informazione, estratti per scopi diversi, vengono remixati e utilizzati per altri scopi, sfuggendo completamente al nostro controllo (la sorveglianza tende così "a farsi liquida", scrive Bauman riproponendo la sua metafora favorita). Ma soprattutto ciò di cui non ci rendiamo conto è che questa informazione sganciata dal corpo finisce per esercitare un'influenza decisiva sulle nostre opportunità di vita e di lavoro. I nostri duplicati divengono infatti oggetto di analisi statistiche che servono a prevedere comportamenti futuri e, sulla base di tali previsioni, a incasellarci in categorie di consumatori appetibili o marginali e di cittadini buoni o "pericolosi".

Arriviamo così alla terza tesi, la più inquietante, secondo cui la nuova sorveglianza si propone di selezionare le persone allo stesso modo in cui, nei campi di concentramento nazisti, si selezionava chi doveva essere eliminato subito e chi poteva ancora tornare utile. Oggi è sparita la violenza omicida, ma non il principio della classificazione come presupposto di un trattamento differenziale. Il marketing ci valuta in base ai nostri profili, cioè ai nostri precedenti comportamenti di consumo; i sistemi di sicurezza non rivolgono più la loro attenzione ai singoli potenziali malfattori ma alle "categorie sospette". Ecco perché le pretese di privacy diventano pericolose. Quante volte vi siete sentiti rispondere da qualcuno a cui ponevate il problema «non mi interessa tanto non ho nulla da nascondere»? Come dire: se qualcuno tiene troppo alla propria invisibilità è lecito dubitare che abbia commesso qualche crimine. Una mentalità che alimenta la delazione: per non essere classificati fra i sospetti puntiamo il dito contro gli altri.

Infine la quarta tesi: esporsi alla sorveglianza è oggi un gesto spontaneo, se non addirittura gratificante. Se il sorvegliato del Panopticon era ossessionato dall'incubo di non essere mai solo, il nostro incubo è diventato al contrario quello di non essere notati da nessuno; vogliamo non sentirci mai soli. Addestrati dai reality show televisivi e dall'esibizionismo dei social media, i nativi digitali considerano l'esibizione pubblica del privato come una virtù, se non come un dovere; diventiamo tutti, al tempo stesso, promotori di merci e le merci che promuoviamo, siamo costantemente impegnati a trasformare noi stessi in una merce vendibile. La seduzione sostituisce la polizia come arma strategica del controllo e ciò non riguarda solo consumi e sicurezza, ma anche la nuova organizzazione del lavoro: i manager si liberano del fardello di controllare una forza lavoro che ormai si autocontrolla h24 perché, come le lumache si portano dietro il loro guscio, ironizzano Lyon e Bauman, noi ci portiamo dietro quei Panopticon personali che sono gli smartphone.

In molti dei concetti del libro di Lyon e Bauman – soprattutto in quest'ultima tesi della collaborazione volontaria delle vittime – ritrovo quanto io stesso scrivevo qualche anno fa, tuttavia mi pare manchi qualcosa. Nel loro discorso l'autonomia della tecnica e la sua capacità di spersonalizzare i sistemi di dominio e controllo vengono presentati come una sorta di destino fatale e immodificabile: «la guerra d'indipendenza delle scuri contro i boia – si legge in un passaggio del libro – ormai si è conclusa con la vittoria delle scuri, ormai sono le scuri a scegliere i fini, cioè le teste da tagliare». Qui il pensiero corre ai droni e alla loro capacità di anestetizzare il senso di colpa di chi li manovra; ma per quanto inquietanti ci appaiano simili fenomeni, credo che non vadano mai rimossi i fattori politici ed economici – le relazioni di potere fra dominati e dominanti – che rendono possibili certi sviluppi tecnici e che, quindi, rappresentano un terreno su cui lottare per cambiare le cose.

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La globalizzazione è morta. Parola di Linera


Gennaio 2017. Il re è nudo. Finalmente qualcuno ha il coraggio di dirlo forte e chiaro: la globalizzazione è morta. Il merito va al vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera. Incapaci di interpretare i sintomi dell'evento, la maggioranza degli intellettuali post e neomarxisti rifiuta di prendere atto di quello che si presenta come un vero e proprio cambio d'epoca. Il paradosso di questa cecità è che quanto sta avvenendo è l'esito inevitabile di processi che loro stessi hanno contribuito ad analizzare: finanziarizzazione dell'economia, de-democratizzazione dei sistemi politici, ristrutturazione tecnologica, guerra di classe dall'alto contro sindacati, movimenti e ogni forma di resistenza organizzata delle classi subordinate, crescita oscena delle disuguaglianze, immiserimento di settori sempre più ampi della popolazione mondiale ecc. Dimenticano, fra le altre cose, di avere scritto e detto che la crisi è un fenomeno eminentemente politico, che si spiega a partire dai rapporti di forza fra classi sociali e non da presunte leggi dell'economia.

Il guaio è che, a causa della insipienza politica e organizzativa delle sinistre radicali (quelle socialdemocratiche sono da tempo passate al nemico), la rivolta avviene sotto le insegne del populismo di destra. Scandalizzati dal tradimento delle masse, i suddetti intellettuali gridano al pericolo fascista e convergono nel "fronte unito contro il populismo" guidato da partiti, istituzioni, media che fino a ieri indicavano al pubblico disprezzo. Così assistiamo a performance imbarazzanti come quella dell'ex nemico pubblico numero uno dell'ordine capitalista, Toni Negri, che, intervistato da "La7", difende una globalizzazione che avrebbe diffuso benessere, uguaglianza e democrazia (su che pianeta vive?), con argomenti analoghi a quelli del "compagno" Xi Jinping che a Davos ha riscosso il plauso delle élite liberiste, dimentiche del totalitarismo del regime cinese.

Tanta confusione mentale nasce dal fatto che post e neomarxisti continuano a concepire la storia come un processo lineare verso il progresso: unificazione dei mercati mondiali = sviluppo delle forze produttive = creazione delle condizioni per la transizione al socialismo. Invece la storia non è un processo lineare e, mentre la mondializzazione accompagna il capitalismo fin dalle sue lontane origini mercantiliste, la globalizzazione nelle forme che ha assunto negli ultimi decenni è una fase contingente destinata a esaurirsi come quella terminata fra fine Ottocento e primo Novecento.

«La globalizzazione – dice Linera – come meta-racconto, come orizzonte politico-ideologico capace di canalizzare le speranze collettive verso un unico destino che permettesse di realizzare tutte le possibili aspettative di benessere, è esplosa in mille pezzi». La subordinazione dei popoli del pianeta alla valorizzazione del capitale, scandita dai cicli egemonici delle nazioni che si sono succedute alla guida del processo, in passato è sempre stata imposta con la forza delle armi, mentre quella attuale è fondata anche su un progetto ideologico, sulla costruzione di un senso comune legittimante (rileggere Gramsci!) cui anche le sinistre hanno attivamente contribuito. Ma l'egemonia, aggiunge Linera, ha iniziato a incrinarsi dopo la nascita dei governi rivoluzionari che in America Latina hanno avviato il tentativo di una transizione, se non al socialismo, verso modelli politici, sociali e culturali postneoliberisti. Dopodiché altre cause di crisi si sono aggiunte in tutto il mondo – dagli Stati Uniti, all'Europa, al vicino e lontano Oriente – fino a determinare il crollo che oggi è sotto i nostri occhi: «Donald Trump non è il boia dell'ideologia trionfalista della libera impresa, bensì il medico legale al quale tocca ufficializzare una morte clandestina». Ecco perché viviamo un tempo di incertezza assoluta, un tempo che può essere fertile nella misura in cui spazzerà via le certezze ereditarie, obbligandoci a costruirne di nuove con le particelle del caos che si lascia dietro la morte delle narrazioni passate.

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