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| << | < | > | >> |IndicePREFAZIONE 9 ATTI E PAROLE DEI SIGNORI DEL MERCATO 13 Il prezzo della virtù 13 I nuovi schiavi 14 Terrorismo biopolitico 14 La fine degli spazi pubblici 15 La bufala delle startup 16 L'apocalisse dell'università 17 Le mani del padrone sulle carceri 18 I medici strozzini 19 Dio ci guardi da quei "rivoluzionari" 20 Gli economisti intrappolati nella spirale del silenzio 21 Perché sono antiamericano 22 Le menzogne degli "esperti" 23 Do you remember Kossovo? 24 Mercatizzare tutto, senza eccezioni 25 Caccia a Piketty 26 Perché non ci amano più? 27 A chi giova lo scontro di civiltà 28 I nuovi lanzichenecchi 30 Segreti di Pulcinella 31 Il caso Regeni e la realpolitik 32 Reagan a Pechino 33 Cosmopolitismo per ricchi 34 Tutto è relativo 35 Meno male che c'è il compagno Xi Jinping 36 Arlecchino e Pantalone 37 I costi del low cost 39 Milano. Marcia o muori 40 ATTACCO AL LAVORO 43 La tecnologia non è uguale per tutti 43 Il libero mercato regala democrazia e benessere. Falso! 44 I poveri della Silicon Valley 45 Il finto sindacato dei freelance 46 Lavoratori di serie A e di serie B 47 Attacco a Walmart 48 Taylorismo digitale 49 Abbasso la meritocrazia evviva il corporativismo 50 I due volti di Apple: fighetti a Cupertino, mostri a Shenzen 51 Lager Amazon 53 Stati Uniti. Se la lotta di classe riparte dalla logistica 54 Benvenuti nella società postsindacale 55 Fiat Chrysler. Un autunno caldo americano 56 Vuoi fare carriera? Lavora gratis 57 Addosso ai lobbisti (ma solo ai piccoli) 58 Divide et impera 59 I voucher e le elezioni 61 Quando lo sciopero fa paura 62 Il nostro futuro? Un Paese di operatori turistici 63 QUELLI CHE IL LIBERISMO È DI SINISTRA 65 Le due destre 65 Tutto il mondo è Paese 66 Se la stampa inneggia al giovin rottamatore 67 Hollande licenzia i ministri eretici 68 Utopie neokeynesiane 69 Le illusioni delle sinistre europeiste 71 Tsipras ha vinto ma c'è poco da esultare 72 Il fronte interno della "guerra al terrore" 73 I Democratici contro Sanders 76 Per capire la Brexit 77 I guasti del liberalismo identitario 78 Liberi sti al contrattacco 80 Il manifesto del pensiero unico 81 Progressismo? Una parola da buttare 83 Macron, un presidente giovane ma non dei giovani 84 L'autocritica a metà di un liberista 85 Florida ci ripensa: i creativi non sono così simpatici 86 IL VOLTO OSCURO DELLE NUOVE TECNOLOGIE 89 Lasciate che i bimbi vengano a me 89 I droni non rispettano le leggi di Asimov 90 La Cina è il diavolo 92 Jobs santo subito 93 Anarcocapitalista a chi 93 Noi evasori? Ovvio, siamo capitalisti 95 Obama e i droni killer 95 Libertà e democrazia? Cose nostre sono 96 Quella finestra sulla complicità fra Stati e corporation 98 Il sesto potere secondo Bauman e Lyon 99 I microchip nel cervello 102 Il capitalismo è finito. Anzi no 103 La crociata del CEO di Uber contro i tassisti 104 Uberizzazione del lavoro 105 Arroganza neocoloniale e odio per la plebe 106 Airbnb e la rendita immobiliare 107 Gli algoritmi come dispositivi di potere 108 La privatizzazione del DNA 110 PLEBI IN RIVOLTA 113 Indignati in copertina 113 I popoli dell'America Latina contro l'arroganza euroamericana 114 Correa e Morales: stili diversi ma unità antimperialista 115 Papa Francesco e il bicchiere mezzo pieno della rivoluzione correista 116 Gli spettri ottocenteschi dell'Oregon 117 Un outsider alla Casa Bianca? 119 La Nuit Debout 120 Imparare da Sanders 122 Trump, la rabbia antisistema e l'eutanasia delle sinistre123 Quelli che hanno votato Trump turandosi il naso 125 La globalizzazione è morta. Parola di Linera 126 La svolta di Podemos 127 Dalla casta alla trama 131 Apologia di Mélenchon 133 Le menzogne occidentali sul Venezuela 134 Corbyn va oltre Sanders 135 Il negazionismo delle élite 137 POLEMICHE 141 Dall'utopia al mercato 141 Rossobrunista a chi 144 Le ideuzze di un globalista 151 |
| << | < | > | >> |Pagina 13Il prezzo della virtù Dicembre 2011. Sull'«Economist» leggo un articolo intitolato The high cost of virtue, nel quale si prende atto che, a causa della crisi, i cittadini britannici, sono costretti a rinunciare alle loro cattive abitudini: i fumatori riducono il consumo di sigarette, i bevitori diradano le visite al pub, i giocatori spendono meno soldi per comprare i biglietti delle lotterie o scommettere sulle partite, i pigri rinunciano all'automobile usando le gambe o la bicicletta per percorrere distanze inferiori a due-tre chilometri. A motivare questa conversione a una vita morigerata è il fatto che le tasse sui consumi voluttuari sono in continuo aumento, al punto che delle rinunce appena elencate potrebbero beneficiare i bilanci familiari con risparmi fino a 7.500 sterline l'anno. Per tacere dei vantaggi che questa "moralizzazione" dei costumi apporterebbe alla salute delle persone e all'ambiente. Tutto bene? No, ribatte l'«Economist»: da questi consumi lo Stato ricava una quota significativa dei propri introiti, per cui l'altra faccia della medaglia di questa virtuosa austerity è la riduzione della capacità statale di erogare quei servizi che i tagli alla spesa pubblica hanno già duramente falcidiato, per cui si renderebbe necessario aumentare le tasse, togliendo dalle tasche dei cittadini i soldi che risparmiano rinunciando ai vizi, e promuovendo pratiche illegali come la vendita di sigarette di contrabbando e le scommesse clandestine, che possono offrire piaceri low cost in quanto non gravate da balzelli. Segue la morale: ogni forma di tassazione altera i naturali equilibri del mercato, e innesca quella spirale perversa per cui ogni tassa crea la necessità di introdurre altre tasse. E allora? Meglio lasciar fare alle spontanee tendenze della natura umana (che, si sa, è un grumo di vizi). Così come Adam Smith consigliava di affidarsi all'egoistico interesse (e non alla benevolenza) di panettieri e macellai per risolvere le proprie esigenze alimentari, l'«Economist» invita lo Stato a non penalizzare i vizi del cittadino: che i fumatori si distruggano i polmoni, che i bevitori si sfascino i fegati, che i giocatori dilapidino i magri stipendi nella speranza di un'improbabile vincita. che i pigri diventino obesi usando la macchina per accompagnare i figli a poche centinaia di metri da casa; in questo modo continueranno a foraggiare le casse statali e a coltivare quelle piccole distrazioni quotidiane che aiutano a dimenticare le brutture di un sistema economico che periodicamente espone la gente agli effetti di crisi devastanti. | << | < | > | >> |Pagina 17L'apocalisse dell'universitàFebbraio 2013. I dati sull'apocalisse dell'università italiana (17% di iscritti in meno rispetto a dieci anni fa, 22% in meno di docenti negli ultimi sei anni, rapporto medio fra studenti e docenti di 18,7, il più alto di Europa; 19% di laureati nella fascia di età fra i 30 e i 34 anni a fronte di una media europea del 30%) sono deprimenti. Certo ciò dipende da scelte politiche sbagliate, ma è anche dovuto al fatto che molti giovani non credono più che la laurea sia una risorsa strategica per ottenere redditi dignitosi e, quand'anche ne fossero convinti, molti non dispongono più di risorse sufficienti per far fronte ai costi crescenti della formazione universitaria. È possibile invertire rotta? No, dal momento che questa evoluzione risponde alle nuove esigenze del modo di produzione capitalista. Se lo Stato investe sempre meno nella formazione, e se i media invitano i ragazzi a considerare i vantaggi offerti da mestieri che non richiedono livelli particolarmente elevati di istruzione, è perché nei Paesi sviluppati l'università di massa ha esaurito la propria funzione. Intanto una quota crescente di lavori skilled sta migrando verso i Paesi in via di sviluppo (solo la Cina prevede di sfornare 200 milioni di laureati entro un decennio), seguendo le stesse rotte imboccate dai lavori esecutivi negli scorsi decenni. Inoltre il livellamento verso il basso dei redditi procede a ritmo sostenuto e per molti non vale più la pena — o non è semplicemente più possibile — nuotare contro la corrente che sta trascinando l'università verso il vecchio ruolo di garantire il ricambio generazionale delle élite dirigenti. Ciononostante c'è chi si ostina a sostenere che la laurea resta un investimento conveniente per chiunque, per cui vale in ogni caso la pena di correre il rischio relativo. La responsabilità del calo delle iscrizioni, secondo costoro, sarebbe dunque la scarsa diffusione di una "sana" cultura del rischio presso i nostri giovani. Peccato che milioni di studenti americani, essendosi assunti il rischio, si trovino oggi a dover far fronte a debiti mostruosi. Ma c'è una soluzione, replicano i nostri: invece di accendere mutui, si potrebbero istituire delle borse di studio che verranno restituite se e quando i titolari avranno raggiunto livelli di reddito sufficienti. Ovviamente l'opportunità non potrà essere garantita a tutti, ma solo ai più "meritevoli". Forse questa idea non verrà messa in pratica, ma sono pronto a scommettere che, qualora lo fosse, il profilo socioeconomico dei meritevoli difficilmente si scosterà da quello dei rampolli delle élite dominanti, mentre eventuali eccezioni saranno vincolate a chiare garanzie ideologiche e comportamentali (niente rompiscatole che coltivino velleità antisistema!). | << | < | > | >> |Pagina 26Caccia a PikettyMaggio 2014. Che arrivasse un attacco frontale al libro di Thomas Piketty sul capitalismo del XXI secolo e le disuguaglianze era solo questione di tempo: troppo grande la sfida al pensiero unico neoliberista implicita nelle tesi dell'economista francese per non scatenare reazioni. A scagliare la prima pietra ha provveduto Chris Giles, editorialista del «Financial Times». Vediamo l'accusa: i dati che Piketty utilizza per sostenere la tesi secondo cui, negli ultimi decenni, le disuguaglianze fra ricchi e poveri sarebbero aumentate al punto da tornare ai livelli dei primi anni del Novecento, sarebbero stati trascritti in modo scorretto o, in alcuni casi, sbagliati se non intenzionalmente manipolati. Il giornalista economico del «Corriere della Sera» Danilo Taino ha colto al volo l'occasione per togliersi un sassolino dalla scarpa. Costretto un anno fa a scrivere una imbarazzata difesa d'ufficio degli economisti di scuola liberista Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, pizzicati a usare dati sbagliati per sostenere la tesi secondo cui esisterebbe un rapporto diretto fra dimensioni del debito pubblico e crescita economica, oggi può vendicarsi: visto, gongola, anche il neokeynesiano Piketty manipola le cifre, così i suoi fan di sinistra la smetteranno di celebrarne i meriti. Peccato che, nel frattempo, le repliche dello stesso Piketty e di altri economisti, come Paul Krugman e Mark Gongloff, abbiano dimostrato: 1) che le accuse di Giles, ove provate, metterebbero in dubbio solo l'analisi delle disuguaglianze in Inghilterra, e non quelle di tutti gli altri Paesi esaminati nel libro; 2) che la novità del lavoro di Piketty consiste nel fatto che analizza periodi storici molto lunghi, non nella tesi dell'aumento delle disuguaglianze che è un dato di fatto appurato e dimostrato da una enorme mole di dati provenienti da fonti indipendenti; 3) che gli errori di Piketty, ove confermati, sarebbero meno gravi di quelli commessi a suo tempo dalla coppia Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, per cui non ne metterebbero in discussione la tesi di fondo. Il vero punto, tuttavia, è che questo dibattito non riguarda la statistica e la scienza economica, bensì la politica, visto che quanto sia aumentata la disuguaglianza, e in che misura tale aumento sia tollerabile, è interrogativo squisitamente politico. | << | < | > | >> |Pagina 32Il caso Regeni e la realpolitikFebbraio 2016. Sergio Romano è una delle firme più prestigiose del «Corriere della Sera», un esponente di quel realismo politico altoborghese che non si nasconde dietro un dito quando si tratta di affrontare temi che riguardano conflitti e rapporti di forza fra nazioni. È anche uno di quei liberali vecchio stile che non negano l'esistenza del conflitto di classe e della competizione fra imperialismi e che, invece di blaterare di principi e valori, di "interesse generale" dell'umanità e con simili motivazioni ideologiche, non nascondono la propria appartenenza di parte e spiegano come la loro parte dovrebbe agire per difendere i propri interessi. Così, dopo il coro di sdegnate condanne, di ipocrite richieste di "fare piena luce", di inviti a trovare e punire i colpevoli che media e politici hanno intonato dopo l'assassinio di Giulio Regeni da parte della polizia del regime egiziano, ecco finalmente qualcuno che dice la verità: sappiamo benissimo di chi è la responsabilità, ma i nomi dei colpevoli non li sapremo mai, né mai otterremo giustizia perché non è interesse dell'Italia alzare troppo la voce nei confronti di un regime alleato qual è quello di Al Sisi. Abbiamo forse preteso che il governo britannico rendesse conto dei crimini commessi nel corso della lotta al terrorismo irlandese? O che gli Stati Uniti rispondessero dell'orrore di Guantanámo e delle torture della Cia dopo gli attentati alle Torri Gemelle? La guerra, sembra dirci Romano parafrasando Mao, non è un pranzo di gala, soprattutto se si tratta della guerra contro un "nemico assoluto" qual è il terrorismo islamico. E in guerra capita di dover stringere alleanze imbarazzanti. Al Sisi è un macellaio ma è anche una diga contro l'estremismo islamico in Nord Africa. E allora? Accetteremo quanto è successo senza fare nulla? Proprio così, ci fa capire Romano, anche se poi non può esimersi dal tributare omaggio ai principi e ai valori occidentali: «Questo non significa che i metodi del governo egiziano debbano essere necessariamente condonati. Oggi abbiamo più che mai il diritto di dire al Cairo che non si vince una guerra, anche contro il peggiore e più crudele dei nemici, senza il sostegno dell'opinione pubblica. È una legge democratica cui neppure l'Egitto può sottrarsi». Detto fuori dai denti: salvate la forma che all'opinione pubblica ci pensiamo noi. | << | < | > | >> |Pagina 51I due volti di Apple: fighetti a Cupertino, mostri a ShenzenMaggio 2015. Nel 1984 un famoso video pubblicitario lanciò il computer Apple Macintosh. Lo spot sfruttava la coincidenza temporale fra l'evento commerciale e la data in cui George Orwell aveva ambientato il suo famoso romanzo distopico: nel video una massa di persone tutte vestite allo stesso modo, i volti immobilizzati in una smorfia di stupore inespressivo, marciano in silenzio fino a sedersi disciplinatamente davanti a uno schermo interamente occupato dal volto di un leader che li arringa. Finché nella sala irrompe una giovane donna — una sorta di icona sexy delle protagoniste dei movimenti studenteschi dei decenni precedenti — che lancia un grande martello contro lo schermo, sfondandolo. Dopodiché la folla imbesuita si trasforma all'improvviso in un'assemblea di persone autonome, ognuna capace di immaginare e plasmare la sua realtà. "Think different" era in quegli anni lo slogan preferito dalla società fondata da Steve Jobs per promuovere i suoi prodotti, presentati come strumenti di "empowerment" del consumatore, capaci di esaltarne la creatività, in opposizione al grigiore e al conformismo attribuiti ai prodotti della concorrenza (l'idea era: noi siamo i fighetti, quelli della Microsoft i buzzurri). Per la sua insistenza sui valori di stile, eleganza, sofisticazione estetica e tecnologica, Apple è sempre stato il colosso hi-tech che, più di ogni altro, incarna lo stereotipo di quel lavoratore "creativo" che una certa sociologia celebra come protagonista della società della comunicazione. Anche sulla copertina del libro Morire per un iPhone , di Pun Ngai, Jenny Chan e Mark Selden, si vede una folla di volti inespressivi (sono volti di robot "rubati" a un fotogramma del film Io, Robot, di Alex Projas). Volti che evocano i protagonisti dell'altra faccia dell'impero targato Apple: dai fighetti della Silicon Valley, che viaggiano con i loro inseparabili iPhone, ai milioni di operai cinesi che, per fabbricare quegli iPhone, ci lasciano la pelle. Già in precedenti lavori il team di sociologi guidato da Pun Ngai aveva analizzato le terribili condizioni di lavoro e di vita delle centinaia di milioni di operai cinesi schiavizzati dalle imprese multinazionali attirate in Cina dal basso costo e dalla totale assenza di diritti del lavoro, oltre che dai vantaggi fiscali e infrastrutturali offerti dal governo e dal Partito Comunista cinesi. In questa nuova ricerca l'attenzione si concentra sulla Foxconn, il colosso taiwanese che, in decine di stabilimenti sparsi per tutta la Cina, produce la quasi totalità degli smartphone, computer e tablet che utilizziamo (ed è il contractor pressoché esclusivo di Apple). A Shenzen e in altre città mister Gou, il padre padrone di Foxconn, ha costruito dei veri e propri lager, dove centinaia di migliaia di giovani donne e uomini sono costretti a vivere e lavorare in condizioni di semi schiavitù (orari e ritmi massacranti, paghe irrisorie, disciplina militare). L'attenzione dei media è stata attirata su questa realtà dai suicidi che, per alcuni lavoratori, sono diventati l'unica possibilità di opporsi alla propria condizione e di rivelarla agli occhi del mondo. Un'arma terribile cui è necessario ricorrere perché nessuno (sindacato, partito, amministrazioni locali, polizia) difende le vittime dai soprusi cui vengono sottoposte, né impone di rispettare le pur permissive regole cinesi in materia di salario minimo, divieto del lavoro minorile, tutela della salute, protezione dagli infortuni ecc. Al contrario: partito, burocrati e funzionari locali collaborano ad "arruolare" migliaia di giovani studenti, spedendoli in fabbrica con la scusa di far compiere loro degli stage di formazione professionale; mentre polizia ed esercito reprimono le rivolte che sempre più frequentemente scoppiano nelle fabbriche. In Foxconn le regole sono dettate dal libretto dei pensieri di Mister Gou (derisoria parodia del libretto di Mao), pieno di slogan da recitare in coro per rafforzare disciplina e spirito di gruppo, e dalle punizioni con umiliazione pubblica dei colpevoli di "pigrizia". Ma c'è dell'altro: su ogni 100 euro che spendiamo per comprare un prodotto Apple, solo 1,8 euro vanno a chi lo ha fabbricato. Detto altrimenti: i mostri di Shenzen non sono altro che l'altra faccia dei fighetti di Copertino, perché i ritmi spaventosi di lavoro che uccidono gli operai cinesi sono l'effetto collaterale dei tempi di consegna che Apple impone al suo contractor. | << | < | > | >> |Pagina 53Lager AmazonAgosto 2015. Ultimamente la stampa americana si è occupata a più riprese delle spaventose condizioni di lavoro che Amazon, il colosso globale del commercio online, impone ai propri dipendenti (per inciso, anche in Europa ci sono state denunce in merito , oltre a diverse vertenze sindacali). Si è venuti a sapere, fra le altre cose, dell'esistenza di "processi" nei confronti dei dipendenti "pigri", istruiti a seguito della delazione da parte di qualche collega, pratica che viene sistematicamente incoraggiata dalla direzione. Che cosa intenda l'azienda per pigrizia lo spiega in un'intervista una ex dipendente: «se non sei in grado di dare assolutamente tutto per ottanta ore settimanali, vieni classificato come un peso da scaricare». Del resto Amazon non fa altro che perfezionare ciò che la cultura americana del lavoro ha creato: un modello di business in cui lavorare giorno e notte è la regola. | << | < | > | >> |Pagina 78I guasti del liberalismo identitarioNovembre 2016. In un articolo apparso qualche giorno fa sul «New York Times», Mark Lilla, professore di scienze umane alla Columbia University, sostiene che i progetti politici fondati sull'assemblaggio di un mosaico di culture identitarie — cioè la strategia messa in campo dai liberal americani - sono destinati alla sconfitta. Ci voleva la batosta della vittoria di Donald Trump perché lo capissero, ma la verità è che non sembra l'abbiano davvero capito, visto che giornalisti, politici di "sinistra" ed esperti si arrampicano sugli specchi per sminuire la portata della catastrofe (in fondo la Clinton ha avuto più voti popolari, gli americani e gli inglesi si renderanno presto conto degli errori commessi votando Brexit e Trump e via di questo passo). Forse è per questo che Lilla ci va giù duro: l'ossessione per le differenze identitarie — e la retorica "politicamente corretta" che l'accompagna — che pervade da decenni scuole, media e università americane, scrive, ha prodotto una generazione di progressisti «narcisisticamente inconsapevoli delle condizioni dei soggetti esterni ai loro gruppi autocentrati». Molti di costoro sono convinti che il discorso politico si esaurisca nella narrazione delle diversità e «non hanno praticamente nulla da dire in merito a questioni come le classi sociali, la guerra, l'economia e i beni comuni», anche perché i curriculum scolastici proiettano anacronisticamente nel passato le identità politiche contemporanee, «offrendo una visione distorta dei fattori che hanno plasmato il nostro Paese». Questo atteggiamento ha influenzato a tal punto i giovani giornalisti, intellettuali e operatori della comunicazione da renderli del tutto ciechi di fronte a ciò che non riguarda i temi identitari. Ma il disastro peggiore, come ha dimostrato la vittoria di Trump, lo ha prodotto in campo politico, alimentando un disprezzo arrogante e aristocratico nei confronti degli strati sociali meno colti e la convinzione che la vecchia destra repubblicana sia destinata a estinguersi spontaneamente, sostituita dalle giovani minoranze etniche dei migranti (salvo scoprire che i giovani latinos non hanno votato in massa per la Clinton). Né le élite liberal si sono rese conto che l'ossessione per le differenze identitarie ha legittimato l'autopercezione dei cittadini bianchi e religiosi delle zone rurali come gruppo svantaggiato la cui identità viene ignorata, se non minacciata di estinzione. Ma come dovrebbe essere una cultura di sinistra postidentitaria? Qui Lilla dice cose meno convincenti. Va bene quando rilancia un discorso di Sanders , il quale ha affermato che gli americani ne hanno piene le scatole di sentir parlare dei gusti sessuali degli intellettuali di sinistra, ma poi mi pare che riduca il progetto politico di Sanders allo sforzo di essere più inclusivi nella costruzione di una coalizione sociale progressista, di "non dimenticare" la classe operaia e le classi medie proletarizzate e precarizzate. Ma dal momento che si dichiara erede della tradizione socialista e rilancia la necessità di rimettere al centro i temi dell'economia (prima i diritti sociali, poi quelli civili e individuali), credo che Sanders non pensi solo all'allargamento della coalizione, ma anche ad attribuire pesi politici diversi ai soggetti che ne fanno parte: appartenere agli strati sociali sfruttati non è un problema di identità equiparabile all'appartenere a questa o quella fede religiosa o a questo o quel gruppo che condivide certi gusti sessuali. | << | < | > | >> |Pagina 81Il manifesto del pensiero unicoFebbraio 2017. Nei giorni scorsi è stato lanciato - ottenendo grande rilievo sui media — un Appello per il rilancio dell'integrazione europea firmato da trecento intellettuali fra i quali spiccano Giuliano Amato e Anthony Giddens, fra i massimi esponenti della Terza via e del pensiero unico liberista. Nel testo in questione: 1) si afferma che oggi la Ue è sotto attacco «sebbene abbia garantito pace, democrazia e benessere per decenni»; 2) si esalta l'«economia sociale di mercato», affermando che essa può funzionare solo grazie a una governance multilivello e al principio di sussidiarietà; 3) si rivendica il ruolo di un'Europa cosmopolita nella costruzione di una «governance globale democratica ed efficiente». Il tutto accompagnato dall'invito a legittimare la Ue attraverso elezioni in cui i cittadini del continente possano liberamente sceglierne i vertici. Proviamo a decodificare il senso di queste affermazioni, sfruttando il contributo di due studiosi che hanno sviscerato i dispositivi della governance ordoliberista, come Dardot e Laval. Una prima considerazione è che l'affermazione secondo cui l'Europa ha garantito pace, democrazia e benessere è falsa: dai Balcani all'Ucraina, passando per la Libia, l'Europa è stata un costante fattore di guerra; quanto alla democrazia chiedete cosa ne pensa il popolo greco; infine il benessere è un miraggio per milioni di cittadini europei che hanno visto peggiorare drasticamente i livelli salariali e di occupazione, oltre a perdere gran parte dei diritti conquistati prima dell'avvio del processo di unificazione. Seconda considerazione: associare l'economia sociale di mercato all'allargamento della democrazia è una contraddizione in termini. Questo concetto è infatti costitutivo di quel progetto neoliberista che ha sottratto il ruolo della legittimazione al quadro costituzionale-parlamentare per trasferirlo a organismi non eletti che rispondono agli imperativi del mercato. Inoltre la sussidiarietà di cui si parla è consistita nella proliferazione di enti, agenzie e autorità deputati a gestire localmente i bisogni sociali – proliferazione che è proceduta di pari passo con lo smantellamento del welfare e con l'assunzione dell'impresa privata quale modello di regolazione sociale, in base al principio secondo cui non bisogna ostacolare chi potrebbe erogare un servizio migliore del servizio pubblico (pratica che Colin Crouch ha definito come una spoliticizzazione del servizio pubblico attraverso la riduzione del cittadino a cliente). Infine le reti multilivello, presentate come strumenti di integrazione della società civile nella governance, sono in realtà servite a indebolire quei gruppi intermedi di pressione che rappresentavano e difendevano gli interessi delle classi subordinate. Secondo il dogma ordoliberista, questi gruppi sono di ostacolo alla concorrenza e impediscono la libera formazione dei prezzi (a partire da quello della forza lavoro, che va tenuto il più basso possibile per evitare tensioni inflazionistiche). Sempre secondo tale dogma, vanno contrastate tutte quelle richieste di "elargizioni clientelari" che provocano un aumento della spesa pubblica in materia di previdenza, salute ecc. Non si capisce questa logica se non si comprende che per gli ordoliberisti – al contrario dei liberisti classici – il ruolo dello Stato è fondamentale: sia perché deve costruire l'ordine giuridico che deve assicurare il corretto funzionamento del mercato, sia come garante di un ordine sociale "postideologico" in cui tutti i cittadini devono venire convinti di essere "imprenditori di sé stessi" e di vivere nel migliore dei mondi possibili. Per concludere: il riferimento alla natura cosmopolita dell'Europa – per inciso smentito dai muri e dalle altre pratiche di contrasto ai flussi migratori, come il vergognoso accordo con il regime turco – è espressione dell'"internazionalismo" delle élite, le quali vogliono schiacciare le resistenze dei popoli alla colonizzazione del mercato globale. Come conciliare tutto ciò con la proposta di legittimare l'oligarchia di Bruxelles sottoponendola al vaglio degli elettori? Ai firmatari dell'appello non mancano gli strumenti concettuali per progettare alchimie tecniche in grado di garantire a priori il trionfo di una grande coalizione europea "antipopulista". | << | < | > | >> |Pagina 99Il sesto potere secondo Bauman e LyonMarzo 2014. Le preoccupazioni per l'uso dei media digitali come strumenti di sorveglianza pervasivi sono aumentate esponenzialmente dopo le rivelazioni di Edward Snowden sulle pratiche di spionaggio messe in atto dai suoi ex datori di lavoro, la NSA, ai danni dei cittadini americani e di tutti gli altri Paesi, nonché di capi di Stato (anche alleati) e imprese pubbliche e private. A mano a mano che Snowden rendeva noti nuovi documenti, i media evocavano il romanzo 1984 di Orwell , o quel Panopticon di Bentham che Michel Foucault ha eletto a emblema di una modernità fondata sul binomio sorvegliare e punire. Ora un libro di David Lyon e Zygmunt Bauman suggerisce una prospettiva diversa. Lyon, attento analista dei problemi della sorveglianza, e Bauman, il filosofo che ha inventato il concetto di "modernità liquida", ribaltano gli scenari orwelliani e foucaultiani cui contrappongono quattro tesi di fondo: 1) viviamo in un mondo postpanottico, in cui le nuove forme di controllo e sorveglianza assumono le caratteristiche tipiche del consumo e dell'intrattenimento; 2) i principali oggetti al centro dell'attenzione dei sistemi di sorveglianza non sono le persone in carne e ossa, bensì i loro doppi elettronici, cioè i dati che li riguardano; 3) ciò che più dobbiamo temere non è la fine della privacy e dell'anonimato bensì l'inquadramento in categorie in grado di determinare a priori il nostro futuro di consumatori e cittadini; 4) la costruzione di questa macchina infernale procede con la collaborazione spontanea, se non gioiosa, delle sue vittime. Il concetto di Panopticon, argomentano Lyon e Bauman, implicava la concentrazione dei soggetti sottoposti a sorveglianza in determinati luoghi – carceri, fabbriche, scuole, ospedali ecc. – e sfruttava il "controllo delle anime" come strumento per cambiare comportamenti e motivazioni. Lo sguardo, temuto ma non visto e quindi presunto come costantemente presente, del controllore induce all'autodisciplina lavoratori, prigionieri, pazienti e allievi che si adeguano alle aspettative del sistema di controllo per non subire sanzioni. Queste modalità punitive di controllo, osservano gli autori, riguardano ormai esclusivamente le "zone ingestibili" della società come le prigioni e i campi profughi, sono cioè riservate agli esseri umani dichiarati "inutili" ed esclusi nel senso letterale della parola. Viceversa il nuovo potere globale – che Lyon e Bauman contrappongono al potere politico tradizionale, confinato nel locale – non si esercita erigendo barriere, recinzioni e confini che vengono anzi considerati come ostacoli da superare e aggirare; esso deve poter raggiungere tutti in modo da poterli valutare e giudicare uno per uno e, a tale scopo, fa in modo che tutti si espongano volontariamente al suo sguardo. Passiamo alla seconda tesi. Lyon e Bauman riprendono un tema già sviscerato in passato da Stefano Rodotà , vale a dire il concetto di "doppio elettronico". La costruzione di veri e propri duplicati delle persone è un processo costantemente in atto a partire dai dati personali che ognuno di noi fornisce continuamente al sistema di sorveglianza navigando in rete, usando la carta di credito, frequentando i social media, usando i motori di ricerca ecc. Ciò di cui non siamo consapevoli è che questi frammenti di informazione, estratti per scopi diversi, vengono remixati e utilizzati per altri scopi, sfuggendo completamente al nostro controllo (la sorveglianza tende così "a farsi liquida", scrive Bauman riproponendo la sua metafora favorita). Ma soprattutto ciò di cui non ci rendiamo conto è che questa informazione sganciata dal corpo finisce per esercitare un'influenza decisiva sulle nostre opportunità di vita e di lavoro. I nostri duplicati divengono infatti oggetto di analisi statistiche che servono a prevedere comportamenti futuri e, sulla base di tali previsioni, a incasellarci in categorie di consumatori appetibili o marginali e di cittadini buoni o "pericolosi". Arriviamo così alla terza tesi, la più inquietante, secondo cui la nuova sorveglianza si propone di selezionare le persone allo stesso modo in cui, nei campi di concentramento nazisti, si selezionava chi doveva essere eliminato subito e chi poteva ancora tornare utile. Oggi è sparita la violenza omicida, ma non il principio della classificazione come presupposto di un trattamento differenziale. Il marketing ci valuta in base ai nostri profili, cioè ai nostri precedenti comportamenti di consumo; i sistemi di sicurezza non rivolgono più la loro attenzione ai singoli potenziali malfattori ma alle "categorie sospette". Ecco perché le pretese di privacy diventano pericolose. Quante volte vi siete sentiti rispondere da qualcuno a cui ponevate il problema «non mi interessa tanto non ho nulla da nascondere»? Come dire: se qualcuno tiene troppo alla propria invisibilità è lecito dubitare che abbia commesso qualche crimine. Una mentalità che alimenta la delazione: per non essere classificati fra i sospetti puntiamo il dito contro gli altri. Infine la quarta tesi: esporsi alla sorveglianza è oggi un gesto spontaneo, se non addirittura gratificante. Se il sorvegliato del Panopticon era ossessionato dall'incubo di non essere mai solo, il nostro incubo è diventato al contrario quello di non essere notati da nessuno; vogliamo non sentirci mai soli. Addestrati dai reality show televisivi e dall'esibizionismo dei social media, i nativi digitali considerano l'esibizione pubblica del privato come una virtù, se non come un dovere; diventiamo tutti, al tempo stesso, promotori di merci e le merci che promuoviamo, siamo costantemente impegnati a trasformare noi stessi in una merce vendibile. La seduzione sostituisce la polizia come arma strategica del controllo e ciò non riguarda solo consumi e sicurezza, ma anche la nuova organizzazione del lavoro: i manager si liberano del fardello di controllare una forza lavoro che ormai si autocontrolla h24 perché, come le lumache si portano dietro il loro guscio, ironizzano Lyon e Bauman, noi ci portiamo dietro quei Panopticon personali che sono gli smartphone. In molti dei concetti del libro di Lyon e Bauman – soprattutto in quest'ultima tesi della collaborazione volontaria delle vittime – ritrovo quanto io stesso scrivevo qualche anno fa, tuttavia mi pare manchi qualcosa. Nel loro discorso l'autonomia della tecnica e la sua capacità di spersonalizzare i sistemi di dominio e controllo vengono presentati come una sorta di destino fatale e immodificabile: «la guerra d'indipendenza delle scuri contro i boia – si legge in un passaggio del libro – ormai si è conclusa con la vittoria delle scuri, ormai sono le scuri a scegliere i fini, cioè le teste da tagliare». Qui il pensiero corre ai droni e alla loro capacità di anestetizzare il senso di colpa di chi li manovra; ma per quanto inquietanti ci appaiano simili fenomeni, credo che non vadano mai rimossi i fattori politici ed economici – le relazioni di potere fra dominati e dominanti – che rendono possibili certi sviluppi tecnici e che, quindi, rappresentano un terreno su cui lottare per cambiare le cose. | << | < | > | >> |Pagina 126La globalizzazione è morta. Parola di LineraGennaio 2017. Il re è nudo. Finalmente qualcuno ha il coraggio di dirlo forte e chiaro: la globalizzazione è morta. Il merito va al vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera. Incapaci di interpretare i sintomi dell'evento, la maggioranza degli intellettuali post e neomarxisti rifiuta di prendere atto di quello che si presenta come un vero e proprio cambio d'epoca. Il paradosso di questa cecità è che quanto sta avvenendo è l'esito inevitabile di processi che loro stessi hanno contribuito ad analizzare: finanziarizzazione dell'economia, de-democratizzazione dei sistemi politici, ristrutturazione tecnologica, guerra di classe dall'alto contro sindacati, movimenti e ogni forma di resistenza organizzata delle classi subordinate, crescita oscena delle disuguaglianze, immiserimento di settori sempre più ampi della popolazione mondiale ecc. Dimenticano, fra le altre cose, di avere scritto e detto che la crisi è un fenomeno eminentemente politico, che si spiega a partire dai rapporti di forza fra classi sociali e non da presunte leggi dell'economia. Il guaio è che, a causa della insipienza politica e organizzativa delle sinistre radicali (quelle socialdemocratiche sono da tempo passate al nemico), la rivolta avviene sotto le insegne del populismo di destra. Scandalizzati dal tradimento delle masse, i suddetti intellettuali gridano al pericolo fascista e convergono nel "fronte unito contro il populismo" guidato da partiti, istituzioni, media che fino a ieri indicavano al pubblico disprezzo. Così assistiamo a performance imbarazzanti come quella dell'ex nemico pubblico numero uno dell'ordine capitalista, Toni Negri, che, intervistato da "La7", difende una globalizzazione che avrebbe diffuso benessere, uguaglianza e democrazia (su che pianeta vive?), con argomenti analoghi a quelli del "compagno" Xi Jinping che a Davos ha riscosso il plauso delle élite liberiste, dimentiche del totalitarismo del regime cinese. Tanta confusione mentale nasce dal fatto che post e neomarxisti continuano a concepire la storia come un processo lineare verso il progresso: unificazione dei mercati mondiali = sviluppo delle forze produttive = creazione delle condizioni per la transizione al socialismo. Invece la storia non è un processo lineare e, mentre la mondializzazione accompagna il capitalismo fin dalle sue lontane origini mercantiliste, la globalizzazione nelle forme che ha assunto negli ultimi decenni è una fase contingente destinata a esaurirsi come quella terminata fra fine Ottocento e primo Novecento.
«La globalizzazione – dice Linera – come meta-racconto, come orizzonte
politico-ideologico capace di canalizzare le speranze collettive verso un unico
destino che permettesse di realizzare tutte le possibili aspettative di
benessere, è esplosa in mille pezzi». La subordinazione dei popoli del pianeta
alla valorizzazione del capitale, scandita dai cicli egemonici delle nazioni che
si sono succedute alla guida del processo, in passato è sempre stata
imposta con la forza delle armi, mentre quella attuale è fondata anche su
un progetto ideologico, sulla costruzione di un senso comune legittimante
(rileggere Gramsci!) cui anche le sinistre hanno attivamente contribuito. Ma
l'egemonia, aggiunge Linera, ha iniziato a incrinarsi dopo la nascita dei
governi rivoluzionari che in America Latina hanno avviato il tentativo di una
transizione, se non al socialismo, verso modelli politici, sociali e culturali
postneoliberisti. Dopodiché altre cause di crisi si sono aggiunte in tutto il
mondo – dagli Stati Uniti, all'Europa, al vicino e lontano Oriente – fino a
determinare il crollo che oggi è sotto i nostri occhi: «Donald Trump non è il
boia dell'ideologia trionfalista della libera impresa, bensì il medico legale al
quale tocca ufficializzare una morte clandestina». Ecco perché viviamo un
tempo di incertezza assoluta, un tempo che può essere fertile nella misura
in cui spazzerà via le certezze ereditarie, obbligandoci a costruirne di nuove
con le particelle del caos che si lascia dietro la morte delle narrazioni passate.
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