Copertina
Autore Armando Gnisci
CoautoreFranca Sinopoli, Nora Moll
Titolo La letteratura del mondo nel XXI secolo
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2010, Sintesi , pag. 202, cop.fle., dim. 14,5x21x1,3 cm , Isbn 978-88-6159-504-0
LettoreRenato di Stefano, 2011
Classe critica letteraria , storia letteraria
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Indice


  1 1.  Di che cosa parliamo quando parliamo di letteratura
        mondiale nel 2010?
        di Armando Gnisci

  2 1.1 La coscienza mondialista in Europa dopo la seconda
        guerra mondiale
 23 1.2 Coscienza letteraria mondiale, responsabilità europea
        e coscienza critica nazionale
 37 1.3 Il mondo letterario che è il nostro


 55 2.  Dall'universalismo letterario alle forme attuali
        della mondialità letteraria
        di Franca Sinopoli

 55 2.1 Una categoria moderna del pensiero critico-letterario
 59 2.2 Universalismo letterario: le origini
 65 2.3 Internazionalismo letterario: letteratura mondiale
        e letteratura europea
 81 2.4 Letteratura mondiale e mercato mondiale
 86 2.5 La mondialità della letteratura nel Novecento:
        la biblioteca e il canone
107 2.6 Le linee del dibattito internazionale oggi.
        Il ritorno della "letteratura mondiale"


117 3.  Studi interculturali e immaginari mondiali
        di Nora Moll

118 3.1 Letteratura mondiale e interculturalità
134 3.2 Laboratori di poetica e di teoria interculturali
142 3.3 Immaginari mondiali italiani del Novecento:
        il caso dell'Africa


187 Bibliografia essenziale
191 Indice dei nomi


 

 

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1. Di che cosa parliamo quando parliamo di letteratura mondiale nel 2010?


                                                              La via

                               [...] ita res accendent lumina rebus.
                           e così le cose manderanno luci alle cose.
                                  Lucrezio, De rerum natura, I, 1117

                                       [...] sic rerum summa novatur
                          semper, et inter se mortales mutua vivunt.
                                    Così l'insieme delle cose sempre
     si rinnova, e i mortali vivono insieme le cose tra loro comuni.
                                Lucrezio, De rerum natura, II, 75-76

                I'd love to learn how things got to be how they are.
                                 Mi piacerebbe imparare come le cose
                            sono arrivate ad essere quelle che sono.
   Marilyn Monroe, da una guida turistica "intelligente" di New York

         Nos, autem cui mundus est patria velut piscibus equor [...]
                         Noi [io], per i quali il mondo è la patria,
                                      come l'acqua per i pesci [...]
                    Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, I, VI, 3


                                                            I valori

                       L'Europa è indifendibile. [...] è moralmente,
                                       spiritualmente indifendibile.
                       Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo, 1955

                 [...] anche noi, gente d'Europa, ci si decolonizza:
         ciò vuol dire che si estirpa, con un'operazione sanguinosa,
                                 il colono che è in ciascuno di noi.
                                        Jean-Paul Sartre, Prefazione
                           a I dannati della terra di E. Fanon, 1961

                    Dobbiamo parlare perché dobbiamo dire e ripetere
                  che la letteratura è una maestra di finesse umana,
                                 la più grande di tutte, sicuramente
                                migliore di qualsiasi dottrina [...]
               Iosif Brodskij, "La condizione che chiamiamo esilio",
                                                1987, in Dall'esilio

             La letteratura è l'unico luogo della società nel quale,
                      nel segreto delle nostre teste, siamo in grado
        di sentire voci che parlano di tutto in ogni modo possibile.
                             Non c'è bisogno che la chiamiamo sacra,
                         ma dobbiamo ricordare che è indispensabile.
                     Salman Rushdie, "Non c'è più niente di sacro?",
                                         1990, in Patrie immaginarie

             Ciò fa sì che queste letterature non possano più essere
         considerate appendici esotiche ai corpi letterari francesi,
           inglesi o spagnoli, permettendo loro di entrare di colpo,
    con la forza di una tradizione che si sono esse stesse forgiate,
                                nella relazione delle culture. [...]
  Alejo Carpentier incontra allora Faulkner, Edward Kamau Brathwaite
            raggiunge Lezama Lima, io mi riconosco in Derek Walcott,
        gioiamo tutti nelle spire del tempo del secolo di solitudine
          di García Marquez. La Piantagione distrutta ha contaminato
                             tutt'intorno le culture delle Americhe.
                  Édouard Glissant, 1990, in Poetica della Relazione



1.1 La coscienza mondialista in Europa dopo la seconda guerra mondiale

Che cosa sappiamo e che cosa sappiamo dire della letteratura mondiale oggi, nel 2010?

Questo scritto introduttivo cerca di rispondere a tali domande attraverso un flusso di riflessioni che, innanzitutto, esclude di interessarsi a qualsiasi "questione essenziale" che riguardi la letteratura mondiale – cioè che cosa sia la letteratura mondiale, oggi – e a qualsiasi "questione metodologica" – vale a dire: come si debba svolgere lo studio critico (tra e per esperti) della letteratura mondiale, oggi. Tali questioni riguardano gli addetti ai lavori, gli eruditi e gli accademici. Alla fine del mio impegno universitario mi preme ricordare ai lettori che la critica letteraria non ha come scopo quello di mettere in dialogo l'opera con il mondo della critica, ma quello di mettere a colloquio l'opera letteraria con il mondo del lettore. Questa banale verità è quasi un luogo comune nelle dichiarazioni di molti scrittori, ma raramente si trova ad essere enunciata, riconosciuta e praticata dai critici accademici.

Il tema della letteratura mondiale nel 2010 sarà affrontato come un tratto importante della coscienza storica e di specie del nostro tempo da parte di due studiosi europei italiani – Gnisci e Sinopoli – e di una tedesca che opera in Italia – Moll – che riflettono a partire da e dentro un movimento di mondializzazione letteraria il quale è in atto dalla fine della seconda guerra mondiale. La letteratura del mondo affiora come un viso appena distinguibile dentro un cumulo di nuvole europee a partire dal saggio, alto ed erudito, del filologo tedesco Erich Auerbach del 1952 sulla filologia della Weltliteratur e prende forme via via diverse fino a oggi, nel mondo "globalizzato" e attraversato dalle migrazioni e dalle traduzioni planetarie. Questo prendere forma nuova e diversa è il movimento dentro il quale ci troviamo e impariamo a conoscerci insieme nel Tutto-Mondo, come annuncia lo scrittore francofono dell'isola La Martinica nelle Antille, Édouard Glissant.

Auerbach e Glissant rappresentano in modo esemplare il primo l'avvio europeo postbellico di un pensiero di alta metafilologia, il secondo il risultato attuale del movimento di mondializzazione della letteratura e delle nostre menti, un risultato creolo che si spiega attraverso una "Poetica della Relazione".

Che cosa sappiamo e che cosa sappiamo dire della letteratura mondiale oggi, nel 2010?

Immagino che questo spunto interrogativo dal quale sono partito possa corrispondere oggi a quello in apertura della lezione magistrale che ci ha lasciato Erich Auerbach nel 1952, problematizzando criticamente la coscienza storica dell'idea di letteratura del mondo, nel saggio Filologia della letteratura mondiale [Philologie der Weltliteratur]. La nostra interrogazione discende, però, da un'arte del domandare che ha inaugurato il sapere della modernità: Que sais-je? L'autore di questa domanda è il sindaco di Bordeaux, Michel de Montaigne , che è diventato la mia guida nella comprensione originaria della modernità, e nella comprensione di ciò che siamo diventati dal XVI secolo a oggi.

Il nostro scopo nel proporvi questo libro non è quello di mostrarvi "che cosa veramente sia" la letteratura del mondo o "tutto ciò che si debba sapere oggi, nel 2010" intorno a ciò che chiamiamo da due secoli in Europa e da allora in tutte le università del pianeta: "letteratura mondiale", Weltliteratur, come la definì Goethe. E, quindi, Littérature mondiale et/ou universelle, World Literature ecc. L'attualità del nostro lavoro consiste, invece, nell'interrogarci su che cosa essa significhi ancora – riprendendo proprio l'incipit usato da Auerbach per il suo famoso scritto già citato: «È arrivato il momento di chiedersi quale significato possa ancora [corsivo mio] avere la definizione goethiana, riferita tanto al presente quanto alle aspettative del futuro» – per noi, nel 2010. Il che vuol dire interrogarci ancora una volta proprio su questo punto, decidendo di reinterpretare criticamente la storia di questo concetto a partire dal prima e dal dopo Auerbach, prendendo il 1952 come il crinale critico dal quale ripartire per proporre l'aggiornamento della nostra coscienza storica di letterati europei. Aggiungo: interrogarci sia ripensando i termini del discorso eurocentrico auerbachiano, sia pensando ciò che la grande tradizione tardo-borghese europea, come quella di Auerbach, non era stata capace di pensare alla metà del Novecento e che noi, appartenenti a una generazione successiva alla sua, proprio guardando a quel decennio della nostra infanzia/adolescenza – gli anni cinquanta – abbiamo potuto poi concepire.

Il grande filologo tedesco definisce icasticamente l'importanza e il valore della coscienza storica europea a partire dalla professione filologica: «Ciò che siamo, lo siamo diventati nella nostra storia; solo in essa possiamo rimanere noi stessi e svilupparci; dimostrarlo in modo penetrante e indimenticabile, è il compito degli attuali filologi del mondo e nel mondo. Adalbert Stifter, verso la fine del capitolo "L'avvicinamento" nell' Estate di San Martino, fa dire ad uno dei suoi personaggi la seguente frase: "Sarebbe altamente desiderabile che, alla conclusione dell'umana ventura, uno spirito potesse riassumere e abbracciare con lo sguardo l'intera arte del genere umano, dalla sua creazione fino al suo tramonto". Stifter pensa qui solo all'arte figurativa; né credo che si possa parlare adesso della fine dell'umanità. Sembra piuttosto che il luogo raggiunto sia ad un tempo di conclusione e di svolta e che permetta uno sguardo panoramico prima impossibile».

Anche noi, con questo testo "saggiatore" dell'aria del secolo XXI, scritto in Europa nel 2010, abbiamo provato a costruire un'opera sintetica che potesse aggiornare al presente la storia critica del concetto "universale" della letteratura che è nato in Europa in età moderna e che è conosciuto soprattutto in congiunzione con il pensiero di Johann Wolfgang Goethe. Si tratta di un concetto che ora vive e opera in un mondo radicalmente cambiato rispetto a quello di cui scrive Erich Auerbach più di mezzo secolo fa. Non solo per via della cosiddetta globalizzazione del nostro tempo, ma soprattutto da un punto di vista "spirituale": la coscienza storica mondialistica di un letterato europeo di oggi non è più quella tardo-borghese di Auerbach e Thomas Mann , di Thomas S. Eliot e di Benedetto Croce. Perché essa è stata ri-formata – tra le tante altre riforme – da una decolonizzazione della mente europea, post-borghese ed extra-europea, che Auerbach e Croce non avrebbero potuto concepire. Anche se quella generazione ha vissuto gli inizi della decolonizzazione della quale sto parlando. Lo scopo di questo scritto introduttivo è riassumibile proprio nel tentativo di mostrare, anche attraverso la storia della mia generazione, nata a cavallo della metà del secolo XX in Europa occidentale, che cosa renda nuova e diversa la nostra visione del mondo e della letteratura, non solo rispetto a quella sintetizzata da Auerbach, ma anche di fronte al futuro, che è ora. Infatti la mia generazione letteraria, oltre a prendere distanza da quella dei padri, ha anche formato in maniera "diversa" la gioventù europea dagli anni settanta in avanti.

Come è avvenuto il cambiamento della coscienza mondialista in Europa dopo la seconda guerra mondiale? L'attuale cultura letteraria mondiale in Europa non è più un sogno e un auspicio come si trova annunciato nelle pagine di Goethe, ma un'industria e un mercato – così come avevano visto i giovani Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista del 1848 – nella cui congiunzione, appunto, la mondialità si è compiuta. E forse, senza più speranze fiduciose e ideologie ingombranti, da essa può lanciarsi verso un futuro aperto che potremmo chiamare "laico", anche se imperfetto. Per laico intendo esemplarmente ciò che è tramandato a partire dall'antico «poeta-filosofo perfetto», così come è stato definito da Eugenio Montale nel Novecento, Tito Lucrezio Caro. Non a caso ho messo tra gli exerga di questo mio scritto tre versi dal De rerum natura. «Le cose manderanno luci alle cose» per me vuol dire che per tutto il "futuro" [accendent, lo ricordo, è un verbo al futuro] da Lucrezio fino a noi e fino a chi dopo di noi ancora leggerà il mandato del De rerum natura, la conoscenza sarà riconosciuta in uno scambio di luci tra le cose, come in tutto il cosmo avviene, senza che ci sia una luce centrale e superiore, o un motore universale che muova il cielo e le stelle. Questa "cosmovisione" – come dicono in Spagna e in America Latina – costituisce la fonte e la ragione di una coscienza laica, che nella nostra letteratura nazionale è stata dettata in maniera esemplare ed eminente da Leopardi ne La Ginestra. Una visione che è stata perfezionata nel Novecento ed è stata pensata compiutamente come "coscienza di specie" da alcuni filosofi francesi: Jean-Paul Sartre, Michel Serres e Edgar Morin. Si tratta della "coscienza di specie" che era stata definita all'inizio della nostra civiltà proprio da Lucrezio, quando scrisse che «i mortali vivono insieme le cose tra loro comuni», e che noi abbiamo salvato ed esaltato.

Lo stato del mondo attuale è completamente diverso rispetto a quello postbellico e dell'incipiente guerra fredda dell'inizio degli anni cinquanta del XX secolo, nel quale scriveva Erich Auerbach. Viviamo, ora, in un altro secolo, non solo per obbedire alla vicenda necessitante del passare degli anni, ma anche nel senso che dal 1952 al 2010 ciò che è passato è proprio il Novecento. Con il carico di speranza rivoluzionaria dei suoi primi decenni fino alla rivoluzione cubana del 1959, con la "guerra fredda" tra capitalismo occidentale e comunismo orientale; e, infine, con il crollo economico, politico e storico del regime russo-sovietico e dei suoi stati sudditi o satelliti dal 1989 al 1991. Eric J. Hobsbawm, come sappiamo, ha dato a questo corso storico quasi centenario – per lui, dal 1914 al 1991 – il nome di «secolo breve». E la sua bellissima – proprio così, perché è bella da leggere – opera nella quale racconta questa vicenda è una storia del mondo intero, perché non si poteva scrivere la storia del secolo XX se non in questo modo.

Oggi il nostro tempo-secolo è titolabile con la formula proposta dal sociologo statunitense Immanuel Wallerstein, quella del «sistema-mondo». Egli inoltre, e allo stesso tempo, ha criticato radicalmente e provvidenzialmente il cosiddetto "universalismo europeo". Come ho già detto, è ormai finita l'epoca, molto lunga, pensata ed espressa da letterati come Auerbach e E.R. Curtius; "l'epoca dell'universalismo europeo", di ascendenza goethiana, illuminata da pensatori e scrittori tardo-borghesi come Herman Hesse e Thomas Mann, o, per noi italiani, Benedetto Croce.

Che cosa tocca fare a noi letterati e lettori del XXI secolo, ma di una generazione nata e formata nel XX, e da allora operativa? Si è trattato, per quanto mi riguarda, di accettare necessariamente e rispettosamente l'eredità europea che questi padri culturali ci hanno lasciato, così come loro stessi, Croce e Auerbach, ci hanno insegnato a fare; ma anche di passarla criticamente a contropelo – come sosteneva Walter Benjamin – e di riviverla assolutamente in modo critico. Il che significa: in modo altamente critico, così come è giusto e così come bisogna sempre fare. Questo è stato il mandato per noi letterati critici della seconda metà del secolo XX, che non è più e ancora una volta quello di Auerbach e di Croce, anche se proprio loro sono stati gli antenati della nostra generazione con i quali fare i conti – positivi e non – come si fanno i conti con i padri, sempre.

Intendo dire che noi letterati europei della seconda metà del Novecento abbiamo potuto incontrare e scegliere nel tempo anche altri maestri – a cominciare da Jean-Paul Sartre, un padre molto diverso da quelli fino ad ora invocati, e poi tanti nuovi e di tutti i mondi, come il palestinese Edward Said e altri che vado convocando e insediando fin dall'inizio e prima dell'inizio nel mio discorso. Infatti, anche se in pochi, nei decenni successivi abbiamo finalmente potuto e voluto esporci a tali fuochi/luci della mondialità del nostro tempo, che vivevano nel mondo e non solo in Europa, portandoli nel cuore del nostro lavoro, sia nella ricerca erudita e critica che nell'educazione delle generazioni più giovani di noi.

L'esposizione della quale sto parlando è consistita nell'avvio di un processo di vera e propria decolonizzazione dello "spirito europeo", scorticando con le mani la nostra corteccia-anima coloniale – proprio come afferma Sartre nella Prefazione a I dannati della terra di Frantz Fanon del 1961. Si è trattato dell'apertura di un'autentica "via della decolonizzazione europea", che ci ha portati ad allontanarci, con un'autocritica violenta ma salubre, dal nostro essere diventati coloni del mondo a partire dalla conquista del Mundus Novus delle Americhe e dall'inizio consustanziale della modernità. E dall'esserlo stati e dal continuare ad esserlo da cinque secoli. Senza averne coscienza critica. Proprio noi europei, che in quei secoli abbiamo prodotto la copiosa filosofia moderna, da Bacone a Kant e oltre.

Il Nuovo imprevisto che si manifestò a noi europei all'inizio della modernità si svelò anche come assolutamente sorprendente, venendo avanti agli occhi che andavano alla ricerca della Cina di Marco Polo , pensando di raggiungerla alle spalle. Il Nuovo Mondo sorprese e straniò i nostri antenati – tanto quanto lo fece, anche se più lentamente, la venuta del Cristo, così come scrissero i dotti fin da subito – allontanandoli dalle credenze basate sulla ragione insuperata degli antichi greci e dei loro conquistatori e seguaci romani, e sulla successiva fede nella Chiesa universale (cattolica) di Cristo. Fu così grande il tonfo dell'Europa fuori dalla piscina del Mediterraneo che provocò la caduta e la frattura della continuità tradizionale del mondo greco-romano-cristiano con quello successivo e senza nome, facendo allora, proprio in quel punto della storia, diventare "antico" il mondo di prima (anche se nobilmente). Esso divenne un mondo immaginato e studiato, ma ormai lontano e passato; il che volle dire, nonostante tutto: finito e superato. E quindi, un ammasso di materiali da biblioteca, da museo, da erudizione.

Questa catastrofe silenziosa generò nelle nazioni-stato europee atlantiche la mania liberatoria di una nuova nascita, anzi, della vera rinascita, in sincronia e in sintonia con il nuovo assoluto della mondializzazione moderna, da loro scoperto. Essa si incarnò in una volontà di potenza eurocentrica irradiata sulla sfera mondiale-planetaria. Una volontà di potenza che fu segnata dal passaggio dalla forza delle identità nazionali a quella delle nuove potenze imperiali che si spartivano il mondo intero finalmente conosciuto e definito come sfera terrestre, già nel 1522, con la spedizione spagnola di Magellano. Nella non-nazione Italia – serva di tutti e schiava di Roma – si andò in senso contrario, per una via che anelava a tornare indietro. Il decesso dell'Antico diede impulso alla passione regressiva del far rivivere ciò che era defunto. La follia estetica di far rinascere il passato ormai superato imponeva che esso andasse nuovamente rappresentato come presente e vivo. Questa messa in scena fu chiamata "Rinascimento". Noi italiani, e tutti i popoli affascinati nel mondo, nordamericani e giapponesi in special modo, vedono in questa epoca artistica, erudita e infine controriformista, una dipinta e museale stagione di bellezza, e addirittura il canone stesso dell'armonia delle arti visive. Oso dire che, nonostante tutto, quella bellezza era malata dentro, e che essa agiva come una levigata morte vivente. A volte era indomabile e inquieta, come nella Pietà Rondanini di Michelangelo: il torsolo di marmo di una coppia (Cristo morto scivolante e la Madonna che, dietro di lui, lo sostiene abbracciandolo) sul quale il genio rinascimentale inquieto lavorò fino all'anno di morte, 1564, lasciandolo incompiuto.

Il passato di cinque secoli di modernità stava alle spalle, per noi che eravamo giovani nei primi anni sessanta del secolo scorso, e sembrava che non avesse nulla di diretto da dirci, ma solo pagine di storiografia da studiare per gli esami all'università. Qualcuno invece, in Europa, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, cominciò ad apprendere una missione e un valore nuovi, quelli del pensiero anti-coloniale che accompagnava le lotte dei paesi oppressi per liberarsi dal colonialismo europeo – e che solo in parte equivale a quanto oggi si chiama "pensiero post-coloniale", e accademicamente Post-colonial Studies, un sapere transdisciplinare che viene offerto nei college del Nord America. Si trattava di un pensiero anche europeo, da Bertolt Brecht a Sartre, fino a un inedito Gramsci scoperto e poi venerato dai Subaltern Studies anglo-indiani, ma soprattutto extra e anti-europeo, da Ho Chi Min a Frantz Fanon ad Aimé Césaire e Agostinho Neto, ai miti eroici della rivoluzione cubana fino a Toni Morrison, Salman Rushdie, Édouard Glissant, Ngugi wa Thion'go, Derek Walcott, Eduardo Galeano, Roberto Fernández Retamar e tanti altri.

Quando parlo di "anti-europeo" non intendo far riferimento a fantocci e spauracchi terroristi e a criminali globali, che abitano i nostri televisori, ma voglio significare, esattamente al contrario, una sfera di incontri pacifici eppure severissimi e puliti, generosi e scorticanti, tra umani di civiltà che si sono conosciute e contrapposte nell'epoca moderna. Una sfera nella quale finalmente l'ex-colonizzato ha potuto parlare all'ex-colono europeo e si è fatto ascoltare, dicendo cose che non sapevamo e che altrimenti non avremmo mai saputo. Si tratta di una condizione nella quale noialtri europei abbiamo ricevuto finalmente l'opportunità di imparare ad ascoltare i nostri colleghi di specie. Un ascolto che per cinque secoli non avevamo nemmeno concepito, e che tutta la filosofia moderna d'Europa non ha concepito fino alla metà del XX secolo, nonostante tutta la filosofia moderna d'Europa. Solo Montaigne e qualche viaggiatore del Cinquecento ne avevano intuito l'importanza o raccontato l'avvio, disperso.

Oggi, finalmente, anche noi italiani possiamo leggere la poesia del padre della patria angolana, António Agostinho Neto, nato nel 1922 a Kaxicane in Angola e morto a Mosca — durante la guerra fredda — nel 1975. Neto guidò la nazione angolana nella guerra di liberazione dal colonialismo portoghese — la stessa guerra che combatté, dall'altra parte belligerante, lo scrittore portoghese António Lobo Antunes, vivente. Vi propongo una poesia di Neto che si intitola — lascio il suo titolo nel portoghese di uno scrittore africano — Civilizaçao ocidental. Essa definisce gli europei colonialisti (al club dei quali apparteniamo anche noi italiani) senza metterli in scena e senza nominarli, lasciandoli nel silenzio, nell'assenza e soli nel titolo, che si legge inevitabilmente per primo:

    Lamiere inchiodate su travi
    Conficcate nel terreno
    Fanno la casa

    [...]

    Il sole penetrando le fessure
    Sveglia il suo abitante

    Dopo dodici ore di lavoro
    Da schiavo

    Spaccar pietre
    Portar pietre
    Spaccar pietre
    Portar pietre
    [...]

    La vecchiaia fa presto ad arrivare

    Una stuoia nelle scure notti
    Gli basta per morire
    Riconoscente
    E di fame.

Il contrappunto tra titolo e versi è implacabile nella mestizia. Proprio la mestizia porta con sé una verità formidabile, inaudita e inaccettata, anzi, addirittura inaccettabile: la "civiltà occidentale" come tale non è formata solo dall'Europa occidentale e dall'America settentrionale insieme, come si usa affermare anche da parte di molti intellettuali illustri del nostro tempo, ma è inestricabilmente tessuta da quella euro-nordamericana insieme con i mondi che essa ha distrutto e dominato. E che tuttora controlla e sfrutta. Purtroppo, anche per noi, l'"insieme" non rimanda a una congiunzione onesta e fruttuosa, e nemmeno soltanto a un incontro difficile e conflittuale, ma ad una ferita assurda, ancora mai riconosciuta, da parte nostra, e curata e risanata per i nostri congiunti.

Sentite questa poesia, quale io l'ho sempre sentita, anche come una domanda a cui tocca a noi europei colonialisti rispondere, e non solo ai portoghesi? Che cosa chiede propriamente? E che cosa possiamo rispondere?

Lasciamo che risponda, per ora, lo scrittore Lobo Antunes — che fa parte della mia generazione, essendo nato nel 1942 — ex invasore portoghese, che deve, può e vuole parlare prima di tutti:

[...] l'idea di un'Africa portoghese di cui mi parlavano, attraverso immagini maestose, i libri di storia del liceo, i discorsi dei politici e il cappellano di Mafra, alla fin fine era solo uno scenario di provincia che imputridiva nella vastità smisurata dello spazio africano, progetti di quartieri economici che l'erba alta e gli arbusti divoravano rapidamente, e tutt'intorno un gran silenzio desolato abitato dalle maschere dei lebbrosi affamati. Le Terre della Fine del Mondo erano l'estrema solitudine e l'estrema miseria, amministrate da governatori locali pieni di alcol e di cupidigia, scossi dal paludismo [malaria] nelle loro case vuote, e che regnavano su gente rassegnata, seduta sulla porta delle capanne, indifferente come vegetali. Il Presidente della Repubblica Amérigo Tomàs, ci fissava dalla parete con vitree pupille idiote da orso impagliato, i soldati indigeni della Militia con fucili di altre epoche si addormentavano appoggiati alla loro ombra sotto le tettoie di zinco delle postazioni delle sentinelle, vicino all'inutile filo spinato. E tuttavia c'era la bellezza immateriale degli eucalipti di Ninda o di Cessa, che imprigionavano nei loro rami una densa notte perpetua, la rabbiosa maestà della foresta della Chalala che resisteva alle bombe [...] (pp. 113-114)

E poi, ancora Antunes mette in scena il ritorno in patria dei soldati lusitani, e anche il proprio, dall'inferno di dolore e morte angolano:

La paura di ritornare in Portogallo mi schiaccia l'esofago perché non ho più un posto mio da nessuna parte, sono stato troppo a lungo lontano per appartenere di nuovo a questo luogo, a questi autunni di piogge e di messe, a questi lunghi inverni opachi simili a lampadine bruciate [...]. Privo di radici, fluttuo fra due continenti che mi respingono [...] (pp.176-177)

Credo che il contrappunto drammatico che ho messo in scena, con i due scrittori/testi schierati in campi avversi che si scambiano desolazione e depressione in lingua portoghese, possa rappresentare in maniera esplicita la portata moderna e mondiale del colonialismo europeo e della sua irresponsabilità, che vuol dire innanzitutto e propriamente incapacità di rispondere – dopo aver desolato la terra dei mondi – perché non si è ancora, ancora nel 2010, mai stati capaci di sentire/ascoltare. Si tratta di una malattia della sordità generata dalla "volontà di potenza".

Che cosa vuol dire questa formula di pensiero, che sentiamo e usiamo come un cliché anche nel linguaggio comune? Essa è un calco dalla lingua tedesca:

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La presa di coscienza critica contro il colonialismo europeo moderno, che si è manifestato sempre e ovunque come invasione, sterminio, oppressione e dominio dei mondi – anche all'interno della stessa Europa, basti ricordare la "colonizzazione interna" dell'Irlanda da parte dell'Inghilterra, solo come esempio per una moltitudine di altri casi, a cominciare proprio dalle sorti coloniche delle parti dell'Italia dominate nei secoli dalle varie potenze europee –, ha creato, altrimenti, una nuova idea guida di letteratura mondiale proprio in Europa, successiva e diversa da quella dominante per quasi due secoli, espressa da Goethe e riproposta problematicamente da Auerbach. Questa nuova idea non permetteva più di considerare al centro del cosmo letterario l'insieme luminoso delle letterature europee, e poi al largo quelle extra-europee pensate come testi letterari sparsi e più o meno preziosi o appartenenti a letterature esotiche e minori. Testi e letterature che esprimevano irrimediabilmente la loro dislocazione periferica di "resto del mondo", visto che il centro del mondo era dato ed era certo, ed era quello che dava luce, spargendola ovunque dai fari della coda atlantica dell'Eurasia. Possiamo immaginare l'insieme luminoso della letteratura europea" formato da una corona di "grandi" letterature nazionali – oltre a quelle antiche classiche, quelle moderne eminenti: l'italiana, la spagnola, la francese, l'inglese e la tedesca – e da una corona più esterna di letterature "minori" – portoghese, polacca, ungherese, ceca, e tutte le altre. Una maestosa corona che getta luce dappertutto, ma non ne scambia, nemmeno entro il raggio della corona esterna, perché è stata pensata sempre come unica a gettar luce, dal centro verso tutte le periferie.

Al contrario, oggi siamo messi in condizione – da Goethe e da Auerbach prima, e, in maniera assolutamente nuova e diversa, dalla coscienza critica decoloniale poi – di concepire e di fruire la letteratura mondiale come la casa e la strada, l'albergo e il crocevia di tutti i mondi letterari, nei quali la corona europea, formata da letterature in lingue diverse ma dentro una civiltà comune, è una provincia come le altre, che scambia e traduce luce, come tutte. Certo, la corona letteraria europea ha una sua importanza cruciale, ma proprio e soltanto perché è la vera crux della modernità. E comunque, resta ormai una Provincia mundi. Almeno, per noi che ci siamo educati a valutarla come la croce della modernità mondiale, o meglio, come la croce del "martirio" dei popoli extra-europei attraverso la quale è possibile comprendere la conquista del mondo da noi operata e portata a buon fine, ma solo dal nostro punto di vista, in cinque secoli di devastazione. E che prosegue tuttora, nel secolo della globalizzazione. Visto che la globalizzazione sembra volersi affermare come ciò che il colonialismo voleva diventare "da grande", come disse all'esame un mio allievo qualche anno fa.

Questa è l'immagine del mondo che abbiamo ereditato dai nostri antenati, che non sono stati, per la nostra generazione, solo quelli tardo-borghesi del Novecento europeo. Se non accettiamo, proprio in quanto europei, di passare attraverso la «memoria del fuoco» di tutti i mondi da noi conquistati ed eliminati, sottomessi e deportati, sfruttati e/o modernizzati, non accederemo mai alla luce scambievole e mutua della coscienza mondiale. Per far questo in maniera sempre più importante e decisiva è necessario produrre un sapere, sia accademico sia scolastico sia libero, che metta a punto e all'opera nuovi modi di educazione letteraria mondiale basati su una civiltà della critica e del gusto, liberi ma comuni per tutti e ovunque.

Per ora, mi sembra che sia opportuno e giusto interrogarsi ancora e propriamente su questa speciale e peculiare "importanza" della crux europea. Da dove proviene? E come persiste ancora oggi? Dal mio punto di vista, ma non sono il solo e tanto meno il primo a pensarlo, essa consiste e proviene dalla modernità che è stata aperta e inventata dalle nazioni europee atlantiche e coloniali, quelle che hanno navigato gli oceani mai attraversati, l'Atlantico e il Pacifico, e che hanno circumnavigato il globo — pensate al portoghese Magellano, al soldo del re spagnolo, raccontato in viaggio dall'italiano Antonio Pigafetta — per arrivare a conquistare e colonizzare, a sterminare, sfruttare e rapinare civiltà e popolazioni, a deportare milioni di schiavi dall'Africa occidentale nel Mundus Novus, scoperto come tale, come realmente "nuovo" e inaspettato, dall'intelligenza illuminata e luminosa di Vespucci.

Della prolungata malversazione europea nelle Americhe — la cui vicenda il vescovo Bartolomeo de Las Casas , contemporaneo di Colombo, stigmatizzò, con riferimento negativo verso i suoi conterranei spagnoli, con il nome di Leyenda Negra — restano in cambio le lingue europee (inglese, francese, spagnolo, olandese e portoghese) e le loro letterature "creole" o "europoidi". Di ancora più antico resta solo qualche relitto che si è potuto restaurare proprio attraverso la memoria letteraria. Si tratta di quella Memoria del fuoco alla quale ho accennato prima. Di che cosa sto parlando? Di un'opera in tre volumi dello scrittore uruguayano Eduardo Galeano. Egli narra la "storia moderna" delle Americhe, a partire dalla visita degli europei, e lo fa attraverso gli scritti del colonialismo subito e sofferto. Ciò che viene salvato a pezzi e ricomposto in sequenza è la storia di una devastazione che inizia nel 1492 e perdura fino e oltre il XX secolo. Galeano la riassembla attraverso testimonianze dimenticate e sepolte. Egli scrive nell' Esordio dell'opera: «Attraverso i secoli, l'America Latina non ha sofferto solo il saccheggio dell'oro e dell'argento, del salnitro e del caucciù, del rame e del petrolio: ha sofferto anche l'usurpazione della memoria. Molto presto è stata condannata all'amnesia da coloro che le hanno impedito di essere. [...] Io non sono uno storico. Sono uno scrittore che vorrebbe contribuire al riscatto della memoria sequestrata di tutta l'America...» [ vol. I, p. V].

Se riusciremo, noialtri europei – una volta che avremo appreso a sentirci altri tra gli altri – a leggere, pensare e studiare a partire da questa revisione rieducativa della modernità e in presenza di tutta la letteratura del mondo – anche quando leggeremo, da italiani, Petrarca e Tasso, Galilei e Calvino –, avremo fatto un passo decisivo in avanti per uscire dall'eurocentrismo e per guadagnare un nuovo mondo comune, un Tout-Monde, come afferma Edouard Glissant, scrittore francofono delle Antille, discendente secolare di schiavi africani, così come il suo maestro al Liceo di Fort-de-France, il poeta e uomo politico Aimé Césaire, entrambi dell'isola La Martinica, Dipartimento d'Oltremare, territorio della nazione francese.

Se e quando riconosceremo il "mondo come patria" comune di tutti mondi, seguendo e aggiornando il detto di Dante, avremo messo in movimento, a partire dal sistema-mondo del XXI secolo, la questione della letteratura mondiale in maniera nuova e giusta, aggiornando assolutamente il problema di Auerbach del 1952 alla luce del 2010. E forse saremo in grado di capire anche come «le cose sono arrivate ad essere ciò che sono». Solo così possiamo pronunciare il nostro problema letterario in un modo completamente nuovo e adeguato al corso del mondo nel quale viviamo. Anzi, sostengo che più renderemo comune la storia e la letteratura della modernità, dell'eurocentrismo e della sua critica, e della decolonizzazione, più e meglio ne ricaveremo una coscienza mondialista reale e contrapposta alla grande prigione globalizzata del nostro tempo, sia nell'Europa ricca che nell'Africa desolata, che ovunque. Il nostro mondo comune, infatti, può riconoscersi tuttora come tale solo nella globalizzazione che è l'universalizzazione planetaria dell'ingiustizia, e l'ingiustizia è la discendenza tutta europea dell' adikía della quale parla il primo filosofo della nostra civiltà, Anassimandro di Mileto. L' adikéa /ingiustizia attuale viene rivelata da pochi numeri implacabili – si tratta di dati "universali" forniti dall'ONU – che tutti gli umani viventi dovrebbero conoscere prima di imparare qualsiasi catechismo: le nazioni occidentali ricche del mondo, alle quali apparteniamo, rappresentano il 18% della specie, 800 milioni di persone più o meno, compresi i poveri e gli oppressi, ma abbiamo a disposizione l'83% del reddito mondiale, mentre all'82% della popolazione mondiale, vale a dire a circa 5 miliardi di persone, resta il 17%. Semplice e feroce. L'ingiustizia, una volta riconosciuta, ci permette di vedere le cose antiche in connessione con le cose che oggi ci riguardano e ci permette di comprendere come esse siano arrivate ad essere ciò che sono ora, scambiandosi luci a vicenda.

Vedere l'ingiustizia non basta e non serve a rimuoverla; ma chi ha imparato a vedere può insegnarlo ad altri, e questo accrescimento educativo un giorno, forse, farà tornare la Virgo fuggita per ultima dal mondo degli uomini, ricordata da Ovidio nelle Metamorfosi (I, 149-150), da Virgilio , nei versi 5-7 della quarta egloga, e da Dante nel Canto XXII del Purgatorio, quando fa dialogare Virgilio e Stazio ai versi 69-71: «[...] Secol si rinova; / torna giustizia [...]».

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Sapere che cosa significhi oggi per noi italiani/europei parlare di letteratura mondiale consiste nell'essere pronti e sulla via di mondializzare la nostra mente attraverso le letterature di tutti i mondi che ci arrivano attraverso la rete planetaria delle traduzioni. Mondializzare la nostra mente vuol dire innanzitutto decolonizzarci dal nostro passato di coloni del mondo, così come per gli ex-colonizzati consiste nel decolonizzarsi da noi. Ciò dovrebbe poter avvenire in una mutua conoscenza e in una reciproca liberazione, o almeno considerando questi come i valori da costruire insieme. Questa è anche l'educazione che ci permette di accogliere in maniera giusta i migranti del nostro tempo.

Come ci ha lasciato scritto uno dei maggiori poeti polacchi del XIX secolo, Cyprian Norwid: «La verità si aspetta e si raggiunge insieme».

Sostengo, infine, che la "letteratura del mondo" sia nata nella modernità, quando i popoli sottomessi e offesi dagli europei hanno cominciato a leggere e a scrivere. E così hanno permesso a tutti nel mondo di poter leggere e scrivere: dagli operai di Coketown dell'Inghilterra raccontata da Dickens in Hard Times/Tempi difficili ai "cafoni" italiani che si imbarcavano per le Americhe. Tutti arriviamo a comprendere chi è Calibano, e che Calibano è ognuno di noi, se abbiamo messo da parte i nostri risparmi per poter comprare un libro e raggiungere la grazia.

Le moderne nazioni imperiali europee – quelle atlantiche più la Russia; mentre il Sacro Romano Impero al centro dell'Europa, tracciato dall'asse Germania-Roma, è diventato nei secoli un fantasma capace solo di iniziare guerre e massacri, persecuzioni e sacchi intraeuropei, ma anche tra imperatore e papa sacri, a Roma nel 1527 – hanno scoperto, invaso, distrutto e dominato per secoli i mondi che erano stati fino al 1492 da noi europei sconosciuti e impensati. Quei mondi – e altri ancora, come l'Africa occidentale deportata nelle Americhe e lasciata a sfasciarsi socialmente fino ad ora e tuttora a partire da quella tragedia – hanno risposto con le opere del loro destino e della nuova forza impensata, nelle lingue dei dominatori. Questa è la grande storia vera della letteratura mondiale nella modernità. Oggi, molte persone che appartengono a quei mondi, oltre a risponderci per iscritto, vengono presso di noi e scrivono a noi per stare tutti bene gli uni con gli altri. Abbiamo molto da ascoltare, leggere e imparare. Innanzitutto per apprendere la libertà di autoeducarci reciprocamente a diventare cittadini del mondo, insieme.

Il destino della specie umana futura è stato nominato da colui che, con Montaigne e Cervantes, è uno dei tre spiriti-guida della modernità europea: Shakespeare. Nella Tempesta, in un dialogo con Prospero, duca di Milano, Calibano – che prima della venuta degli europei dice di sé: «Ero re di me stesso» («first was mine own King») – sentenzia: «Mi hai insegnato a parlare e così ho imparato come maledirti. Possa crepare di peste rossa, per avermi insegnato la tua lingua!».

Dopo quattro secoli – The Tempest è stata datata tra il 1611 e il 1612, quattro anni prima della morte del Bardo – un grande studioso palestinese-cristiano-statunitense, comparatista e "allievo" di Auerbach e di Vico, ma anche di Foucault e di Gramsci, Edward W. Said, scrive nella sua opera Culture and Imperialism:

La percezione che gli europei ebbero di un mutamento di prospettiva, terribile e disorientante, nel rapporto tra Occidente e non-Occidente fu un fatto radicalmente nuovo, mai sperimentato né durante il Rinascimento europeo né al tempo della "scoperta" dell'Oriente tre secoli più tardi. Basti pensare alle differenze tra Poliziano che recupera e lavora sui classici greci negli anni intorno al 1460 e due uomini come Bopp e Schlegel che leggono i grammatici sanscriti verso il 1810, e un orientalista o un politologo francese che legge Fanon durante la guerra algerina del 1961, oppure il Discours sur le colonialisme di Aimé Césaire alla sua uscita, nel 1955 – cioè, subito dopo la disfatta francese a Dien Bien Phu. Non solo quest'ultimo, sfortunato lettore è chiamato in causa dagli indigeni proprio mentre il suo esercito subisce gli attacchi dei nativi – un'esperienza mai provata dai suoi predecessori – ma si trova a leggere un testo scritto nella lingua di Bossuet e Chateaubriand che utilizza concetti presi da Hegel, Marx e Freud per incriminare la stessa civiltà che li ha prodotti. Fanon si spinge anche oltre quando rovescia la tesi, fino ad allora mai messa in discussione, secondo la quale l'Europa avrebbe portato le colonie alla modernità per sostenere invece che non soltanto «il benessere e il progresso dell'Europa sono stati edificati col sudore e i cadaveri dei negri, degli arabi, degli indiani e dei gialli» ma che «l'Europa è letteralmente una creazione del Terzo Mondo» [...].

Tra la maledizione pestifera di Calibano e la posizione del comparatista occidentale-orientale della seconda metà del XX secolo, viene in chiaro davanti agli occhi di tutti il movimento di mondializzazione delle letterature nazionali e delle menti individuali, con una visione d'insieme progressiva e liberatoria che i grandi borghesi europei non avevano né potevano avere. Sostiene, infatti, Said a proposito di Fanon: «Il suo messaggio è: dobbiamo lottare per liberare l'intera umanità dall'imperialismo; tutti dobbiamo narrare le nostre storie e le nostre culture riscrivendole in modo nuovo; tutti condividiamo la stessa storia, anche se per alcuni di noi quella storia era stata sinonimo di schiavitù».

In quanto italiani, arriviamo per ultimi – pur essendo stati tra gli ultimi colonialisti europei ad andare via dall'Africa, ma nessuno più lo ricorda –, e con molta reticenza, all'inizio dell'acquisizione di una mentalità de-coloniale, ancora a fatica perfino tra gli scanni accademici. Forse per questo, e certamente per tanti altri motivi, gli italiani si sono scoperti razzisti con le persone immigrate in questi ultimi anni, e hanno lasciato emanare leggi razziste dai loro mandati al parlamento e al governo.

Da italiano con una coscienza mondialista mi sono formato negli ultimi vent'anni arrivando a pensare che la "civiltà occidentale" bianca – quella che sta sola nel titolo della poesia di Neto – ha inventato l'orientalismo, per avvicinare a sé i mondi delle civiltà orientali, come ci ha insegnato Edward W. Said. Mentre la "civiltà occidentale" oscura - quella che abbiamo sottomesso e rinchiuso nelle baracche degli schiavi, quella che ha pagato il nostro sviluppo, ha inventato la letteratura di protesta e i Post-colonial Studies, dei quali Said e tanti altri che in questo scritto sono ricordati e celebrati, sono stati i maestri. L'orientalismo è stato ed è tuttora un'istituzione dell'immaginario e una moda dei saperi; gli studi postcoloniali (anche se cominciano ad essere pervasi da molta erudizione e da sindrome da college nordamericano multiculturale) e la letteratura degli altri mondi formano la coscienza critica della protesta di Calibano e della speranza sacra di Agostinho Neto. Anche per noi.

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Nel 1956, quattro anni dopo il saggio di Auerbach, Raymond Queneau dava alle stampe nel volume Pour une bibliothèque idéale i risultati di una sua inchiesta sull'idea di biblioteca ideale, condotta intervistando nel 1950 decine di scrittori francesi e invitandoli a scegliere da una lista di 3500 titoli le opere letterarie da essi ritenute fondamentali:

Nous voulions essayer d'établir en commun une sorte de "Bibliothèque idéale"; c'est-à-dire de dresser la liste des cent ouvrages que tout "honnête homme" se devrait d'avoir lu. [...] Le but de cette enquête n'est pas de renseigner les doctes, mais bien de faire appel à des personnes jouissant d'une certaine autorité dans différents domaines pour que l'arc-en-ciel de leurs avis puisse guider des lecteurs qui souvent n'ont pas cent livres à lire.

L'operazione condotta da Queneau è rivolta dunque ad un pubblico potenzialmente molto vasto, il quale potrebbe farsi un'idea di come orientarsi nel mare magnum della letteratura e della cultura in senso lato una volta messo piede in una biblioteca o in una grande libreria. Letteratura, poesia, filosofia e cultura generale disegnano i confini di questa biblioteca ideale, ad esclusione delle scienze, criterio che Queneau motiva come regola del "gioco", così come lo è l'aver fissato a cento il numero delle opere. L'introduzione di regole del gioco, del resto, avrebbe caratterizzato dieci anni dopo gran parte dell'attività letteraria dei membri dell'Oulipo – da lui stesso fondata insieme all'ingegnere chimico e matematico François Le Lionnais –, come ad esempio nel caso di George Perec. Ma quali opere includere nella biblioteca ideale? Queneau si mostra consapevole del fatto che qualità assolute e relative vadano tenute in debito conto, per cui «chefs-d'œuvres» certamente, ovvero «ceux de ces livres que l'on appelle immortels», ma al contempo sensibilità per l'elemento soggettivo che è alla base delle scelte degli intervistati, al fine di stemperare la prevedibile monotonia generata dal confluire di gran parte delle preferenze sugli stessi titoli:

Cet élément subjectif permet hereusement d'adoucir la rigueur un peu panthéonesque d'un choix trop incliné vers le génie, car l'on pourra constater qu'il se fait sur certains noms, malgré la diversité de nos correspondantes, une certaine unanimité – un peu monotone.

Il questionario somministrato da Queneau è accompagnato da un nutrito memorandum di 106 pagine, con un elenco di più di tremila titoli tra cui scegliere o a cui aggiungerne ulteriori, anche se l'elenco non è compreso nel volume per evitare che la sua presenza venga recepita come una proposta di "canone", al contrario ne viene sottolineata la parzialità tanto da esser stato integrato, in un secondo tempo, di altri cinquecento titoli. Dall'illustrazione dei criteri con i quali è stata organizzata l'indagine apprendiamo che i destinatari selezionati erano duecento, di cui meno della metà si rivelò attiva, consentendo ad ogni modo di formulare una lista delle cento opere considerabili essenziali, pubblicata in coda al volume. Al di là del piccolo canone che comunque viene ad emergere da una ricerca tutto sommato parziale, poiché rivolta ad un limitato numero di interlocutori per la maggior parte francesi, e il cui risultato vede di conseguenza la presenza in lista di ben 61 autori francesi su 39 stranieri (per la maggior parte occidentali), l'esperienza di Pour une bibliothèque idéale resta un capitolo interessante del tentativo di fissare un'immagine della mondialità letteraria come "biblioteca" in un determinato momento della storia e in un altrettanto specifico contesto sociale. Un'esperienza che Queneau stesso reputava ripetibile a distanza di mezzo secolo, cioè nel 2000, pur ipotizzando in modo preveggente la non esclusività dei libri in formato cartaceo:

Le lecteur pourra constater que, malgré les critiques qu'elle a pu susciter, elle peut lui apporter quelques lumières et quelques reinsegnements certaines et solides sur ce qui peut figurer dans une bibliothèque digne de ce nom au milieu du XXe siècle, bibliothèque qui, contrairement au Musée, peut ne pas être imaginaire.

Et puis, il n'etait peut-être pas inutile de faire un tel inventaire en l'an 1950. Ces petits objets parallélépipédiques, feuilletés et plus ou moins encrés, vont peut-être bientôt disparaître de l'usage courant. Mais, inscrits sur disques, bandes magnétiques, microfilms ou autrement, il en restera toujours quelque chose, encore pour quelque temps. Nous en réparlerons en l'an 2000.

Fermo restando l'interesse costituito a posteriori dall'indagine condotta da Queneau, già nel contesto culturale francese essa venne successivamente ridimensionata e ricondotta all'interno di un quadro di riflessione più generale da René Etiemble, che ne pose a tal fine in risalto le voci più critiche. Nel suo intervento in occasione del quarto congresso dell'Association Internationale de Littérature Comparée/International Comparative Literature Association tenutosi a Fribourg nel 1964, il comparatista francese cita le opinioni di coloro che, intervistati da Queneau su quale fosse la loro scelta tra i cento e più titoli loro proposti, si rifiutarono di rispondere, come ad esempio il filosofo Gaston Bachelard , la cui «bibliothèque idéale est essentiellement ouverte». Etiemble inquadra quindi l'iniziativa di Queneau all'interno di una serie di tentativi di diverso genere, ma aventi lo stesso scopo, ovvero quello di proporre un campione rappresentativo di letteratura universale: da Hermann Hesse con la sua Bibliothek der Weltliteratur, ad Adolf Spemann con una Vergleichende Zeittafel der Weltliteratur, von Mittelalter bis zur Neuzeit 1150-1939, pubblicata nel 1951 ma piuttosto incline a rappresentare esclusivamente i valori borghesi e cristiani occidentali, a un breve libretto dedicato a Tout ce qu'il faut savoir de la littérature universelle di Alice Berthet, opera edita nel 1922 in cui Etiemble rileva un marcato «esprit colonialiste». La sua analisi procede esaminando iniziative di maggior peso scientifico come il dizionario tematico di Elizabeth Frenzel Stoffe der Weltliteratur, pubblicato nel 1962, dunque molto a ridosso dell'intervento di Etiemble, il quale non può fare a meno di notare come alcune voci tematiche siano orientate su testimonianze esclusivamente occidentali, oppure come quelle di origine orientale manchino del tutto. Bisogna dire, a onor del vero, che Etiemble sottopone allo stesso severo scrutinio anche iniziative analoghe elaborate in contesti non europei, ad esempio in Giappone e in Egitto, per trarne le medesime conclusioni, riassumibili in due punti: la necessità di superare il particolarismo nazionale, causato dal «déterminisme de sa naissance» e, condizione preliminare a che ciò accada, l'esigenza di promuovere una formazione letteraria veramente internazionale, con la conoscenza di lingue e culture diverse, possibilmente non appartenenti tutte al medesimo continente.

Questa indicazione troverà alcuni decenni dopo una risposta nel terzo rapporto sullo stato della letteratura comparata redatto dal critico nordamericano Charles Bernheimer e pubblicato nel 1995. Nel rapporto Bernheimer, dopo aver preso atto dei molteplici modi di contestualizzare la letteratura nei vari campi del discorso culturale subentrati negli Stati Uniti ai vecchi modelli di studio letterario (per nazioni, autori, generi, movimenti, periodi ecc.) e agli eccessi della teoria verificatisi durante gli anni settanta, si procede ad un vero e proprio recupero della formazione linguistica calibrata però su scala mondiale (sincronica/diacronica), interculturale e con lo scopo di acquisire strumenti utili non solo a leggere i testi letterari ma a comprenderne i contesti culturali, anche sotto il profilo politico-egemonico:

Per i comparatisti la conoscenza delle lingue straniere continua ad essere fondamentale. Essi sono un genere di persone che ha sempre avuto un interesse singolare per le lingue straniere, una insolita capacità nell'apprenderle e una vivace facoltà di goderne nell'usarle. Anche i nostri studenti dovrebbero coltivare queste qualità. Anzi dovrebbero essere incoraggiati ad ampliare i propri orizzonti linguistici sino a comprendere almeno una lingua non europea. [...] Crediamo tuttavia che il minimo indispensabile sia lo studio di almeno due letterature nelle rispettive lingue di origine, una buona capacità di leggere altre due lingue straniere e, per gli studenti che si dedicano ai periodi più antichi della cultura europea, asiatica o araba la conoscenza di una lingua "classica". [...] in ogni caso tali requisiti dovrebbero valere al di là dell'analisi del significato dei testi per servire alla comprensione del ruolo della lingua madre nella creazione dell'identità personale, nella costruzione di modelli epistemologici, nell'immaginare strutture di riferimento comuni, nell'elaborazione dell'idea di nazionalità e nell'articolare reciprocamente resistenza e accettazione nei confronti dell'egemonia politica e culturale. Inoltre il comparatista dovrebbe stare attento alle differenze significative presenti all'interno di ogni cultura nazionale, le quali forniscono la base di ogni comparazione e di ogni ricerca ed indagine di natura critico-teorica. Vi sono differenze (e conflitti) di tipo regionale, etnico, religioso, sessuale, di classe, o riguardanti lo status coloniale o postcoloniale. La ricerca comparatistica è particolarmente adatta a seguire i modi in cui tali differenze si aggregano a quelle linguistiche, dialettali o derivanti dall'uso (come nel caso del gergo o slang), così come si presta ad affrontare questioni che riguardano il bilinguismo o il plurilinguismo e le varie lingue creole.

Bernheimer attribuisce inoltre un ruolo particolarmente rilevante alla traduzione sul piano dell'interazione fra tradizioni letterarie e culturali diverse e tra sistemi di valori propri di campi disciplinari diversi. La traduzione viene quindi studiata, in particolare dai comparatisti, proprio in quanto operazione paradigmatica di attraversamento interculturale ed interdisciplinare, che richiama la necessità di esplicitare e contestualizzare la stessa prospettiva da cui si osservano tali attraversamenti:

Se è utile continuare ad insistere sulla necessità e sui vantaggi davvero unici della conoscenza approfondita delle lingue straniere, bisogna tuttavia moderare la vecchia ostilità nei confronti della traduzione. Infatti questa può essere propriamente considerata come operazione paradigmatica per analizzare questioni generali di comprensione ed interpretazione fra tradizioni diverse dal punto di vista delle pratiche discorsive. Possiamo dire che la letteratura comparata intende far luce sia sulle perdite che sui vantaggi che si verificano nella traduzione fra sistemi di valore appartenenti a culture, media, discipline e istituzioni diverse. Inoltre il comparatista dovrebbe assumersi la responsabilità di definire le coordinate spazio-temporali a partire dalle quali studia questi fenomeni. Dovrebbe cioè domandarsi: da dove parlo? Da quale tradizione (tradizioni) o dall'opposizione espressa da quale tradizione? In che modo traduco la realtà culturale dell'Europa, dell'America latina o dell'Africa in quella nordamericana o, viceversa, quest'ultima in un altro contesto culturale?

Il nesso tra letteratura mondiale, ricezione e traduzione è anche al centro di uno degli interventi di Susan Sontag, The World as India (2003), frutto di una sua conferenza dedicata al tema della traduzione letteraria e tenuta alla Queen Elizabeth Hall di Londra. Dopo aver introdotto e spiegato due presupposti centrali della sua idea di traduzione letteraria, e cioè la traduzione come conseguenza di una motivazione di stampo "evangelico" («il fine della traduzione è quello di ampliare la cerchia dei lettori di un libro considerato importante»), con tutto ciò che questo comporta sul piano dell'investimento etico del tradurre, e la traduzione come ramo stesso della letteratura – cioè come compito tutt'altro che meccanico, bensì volto a realizzare la potenziale traducibilità di un'opera –, Sontag si confronta con la questione del peso della lingua internazionale (l'inglese) nel mondo contemporaneo. Un peso simbolico, di derivazione coloniale e di prospettiva neocoloniale, che fa sì che una lingua particolare sia un privilegio per coloro che la praticano come lingua madre e un obbligo per tutti gli altri che la usano nella vita di tutti i giorni come lingua comune necessaria per connettersi con il mondo. Ma qual è l'effetto della globalizzazione di una lingua sulla letteratura? E sulla traduzione? Dalla prospettiva della studiosa, che è quella statunitense, l'effetto sembra essere quello di un impoverimento della varietà di letterature disponibili in traduzione inglese, al quale corrisponde viceversa un aumento dei libri pubblicati in lingua inglese e di lì tradotti in altre lingue, ad indicare una progressiva perdita di interesse del pubblico statunitense per la letteratura europea o proveniente dal resto del continente americano, e una maggiore ricezione della letteratura scritta direttamente in lingua inglese anche se prodotta in altre paesi. Sull'idea di "letteratura mondiale" Sontag interviene nella quinta parte del suo intervento, riprendendone l'accezione principale in Goethe, ovvero «l'idea di un pubblico mondiale di lettori che legge i libri in traduzione» senza tuttavia poter far altro che constatarne la disillusione più totale nell'epoca della globalizzazione:

Nel corso del secolo [XIX], tale idea di internazionalismo, o cosmopolitismo, in letteratura finì col diventare, nei paesi dominanti, l'idea più progressista, quella caratterizzata da connotazioni libertarie. Per progresso si intendeva la naturale evoluzione della letteratura da "provinciale" a "nazionale" e poi a "internazionale". Una certa idea di Weltliteratur ha continuato a fiorire per gran parte del XX secolo, insieme al sogno ricorrente di un parlamento internazionale in cui tutti gli stati-nazione avrebbero avuto uguale peso. La letteratura poteva diventare un sistema internazionale di questo genere, tale da attribuire alla traduzione un ruolo sempre più importante, e dunque permettere a tutti di leggere i libri degli altri. La diffusione globale dell'inglese poteva perciò considerarsi come una mossa essenziale per la trasformazione della letteratura in un sistema di produzione e scambio di portata davvero mondiale.

Ma, come in molti hanno osservato, la globalizzazione è un processo che produce benefici diseguali per i vari popoli della terra, e la globalizzazione dell'inglese non ha alterato la storia dei pregiudizi sulle identità nazionali. Una delle conseguenze di tutto ciò è che alcune lingue – e la letteratura che in esse si produce – continuano a essere considerate più importanti di altre. Un esempio, Le memorie postume di Bras Cubas e Don Casmurro di Machado de Assis e El cortip (Bassifondi) di Aluisio Azevedo, tre dei migliori romanzi scritti nell'ultima parte del XIX secolo, sarebbero certamente famosi quanto può oggi esserlo un capolavoro scritto nel tardo Ottocento se, invece che essere scritti in portoghese da autori brasiliani, fossero stati scritti in tedesco, francese, o russo. O in inglese. (Non si tratta di una contrapposizione tra lingue più o meno diffuse. Al Brasile non fanno certo difetto gli abitanti e il portoghese è la sesta lingua al mondo per numero di parlanti.)

E da tale prospettiva, riprendendo il mito della torre di Babele come metafora della letteratura mondiale che già avevamo individuato alla base dell'utopia mazziniana, Sontag ne dà una lettura diversa, aggiornandolo alla luce delle conseguenze negative della globalizzazione culturale:

Un'antica immagine biblica suggerisce che viviamo con le nostre differenze, emblematicamente linguistiche, gli uni sugli altri – come nel grattacielo alto un miglio sognato da Frank Lloyd Wright. Ma il buon senso ci dice che la nostra dispersione linguistica non può essere rappresentata da una torre. La geografia della nostra differenziazione in molte lingue è infatti molto più orizzontale che verticale (o così pare), con fiumi, montagne, valli, e oceani che lambiscono la massa terrestre. Tradurre significa traghettare, trasferire. Ma forse qualcosa di vero in quell'immagine c'è. Una torre ha molti livelli, e i suoi numerosi inquilini sono accatastati uno sull'altro. Se quella di Babele assomiglia alle altre torri, i piani superiori sono i più ambiti. Forse certe lingue occupano intere sezioni dei piani più alti, le sale più grandi e le terrazze che dominano il panorama. Mentre le altre lingue e i loro prodotti letterari sono relegati ai piani inferiori, con i soffitti bassi e la visuale ostruita.

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Di fronte all'impostazione prevalentemente intraculturale di Dyserinck e di Joep Leerssen, l'evoluzione dell'imagologia letteraria in direzione interculturale è stata proposta dalla scuola francese di Daniel-Henri Pageaux. Punto di contatto immateriale tra le culture, "teatro" delle «rappresentazioni e delle modalità secondo le quali una società si guarda e si pensa, pensando e sognando l'altro», l' image letteraria è al centro, quindi, dell'analisi imagologica. Essa viene studiata passando da esempi microtestuali a macrotesti culturali, usando un armamentario metodologico interdisciplinare ispirato all'etnologia, all'antropologia culturale, alla sociologia e alla storia delle mentalità. Abolendo con la nozione di image il confine rigido tra auto- ed eteroimmagine di una cultura, Pageaux vede nell' image innanzitutto una sorta di linguaggio simbolico collettivo, il quale funge da «punto di riferimento per tutti i membri di una stessa cultura». Tale linguaggio simbolico del sé posto di fronte all'altro mette allo scoperto l'appartenenza ad una cultura o collettività e permette, all'interno di un determinato contesto di enunciazione e di un determinato ruolo socio-culturale, di esprimersi sull'altro e contemporaneamente su se stessi. Pageaux approfondisce, infatti, la sottile dialettica che lega l'immagine della propria nazione o cultura/civiltà a quella dell'altro e dell'altrove nei seguenti termini:

Je regarde l'Autre et l'image de l'Autre véhicule aussi une certaine image de ce Je qui regarde, parte, écrit. Impossible d'éviter que l'image de l'Autre, à un niveau individuel (un écrivain), collectif (une société, un pays, une nation) ou semi-collectif (une famille de pensée, une opinion, une littérature) n'apparaisse aussi comme la négation de l'Autre, le complément et le prolongement du Je et de son espace. [...] L'image est un fait de culture et une pratique anthropologique pour exprimer à la fois l'identité et l'altérité (et le vêtement, la cuisine sont d'autres langages symboliques). À ce titre, l'image a sa place dans l'univers symbolique que nous nommons «imaginaire», lequel, parce qu'il est inséparable d'une organisation sociale, d'une culture, est nommé imaginaire social.

È evidente, da ciò che si è detto fin qui, che l'imagologia trova diversi punti di contatto con gli studi sociali intorno agli stereotipi, definiti come segnali che «rinviano automaticamente a una sola interpretazione», indice «di una comunicazione univoca da parte di una cultura che si avvia alla paralisi». Relativamente allo stereotipo, variante dell' image che è fissa e bloccata nello spazio e nel tempo, è molto importante anche la riflessione sulle possibili derive verso ideologie essenzializzanti come il razzismo: «Lo stereotipo alimenta la confusione tipica dell'ideologia tra il descrittivo ("quel tale popolo è...") e il normativo ("quel popolo non sa...", "... non può"). Il descrittivo (l'attributo fisico) si confonde con l'ordine normativo (l'inferiorità di quel popolo, di quella cultura). L'ideologia razzista, con molteplici varianti, poggia sulla dimostrazione errata dell'inferiorità fisica e intellettuale o dell'anormalità dell'altro (rispetto a una norma posta da un enunciatore e ritenuta superiore)».

A partire dall'indagine sui tanti modi delle nazioni e delle culture di "stare insieme" all'interno dell'immaginazione letteraria, sulle aperture o chiusure di una cultura verso l'altra, e sulla propensione delle stesse culture o di singoli gruppi a instaurare un dialogo, oppure a sopprimere, ideologicamente o realmente, l'altro da sé, si possono individuare tre concetti che caratterizzano la rappresentazione delle altre culture; essi ci saranno utili anche nell'ultimo paragrafo di questa sezione, che sarà dedicato alla rappresentazione dell'Africa nei testi italiani del Novecento: la mania, all'interno della quale «la realtà straniera è ritenuta dallo scrittore o dal singolo gruppo come assolutamente superiore rispetto alla cultura d'origine "che guarda"» (come nel caso dell'anglomania dei filosofi francesi illuministi e l'ispanomania dei romantici francesi, per rimanere nel quadro europeo); la fobia, in base alla quale «la realtà straniera è ritenuta inferiore rispetto alla cultura d'origine» (presente nell'antisemitismo e nell'"orientalismo", nell'accezione che gli è stata data da Edward W. Said); la filia, che sussiste quando «una realtà straniera è vista e giudicata come positiva, e s'inscrive in una cultura "che guarda" la quale ha una considerazione altrettanto positiva di sé», caratteristica di tutti i contesti di vero scambio dialogico "alla pari" tra le culture, nei termini di un incontro rispettoso delle differenze e teso a trasformare "l'altro" in un "tu". Infine, vi sono delle attitudini atte a cancellare le differenze, inglobandole in una stessa identità unitaria, spesso utopiche oppure tese a ricostruire, anche politicamente, un'unità perduta: è il caso del panslavismo o del panafricanismo. Va sottolineato, tuttavia, che tali attitudini possono esistere contemporaneamente all'interno di una stessa cultura o collettività, o rovesciarsi bruscamente l'una nell'altra, soprattutto nel caso dei due "estremi" della mania e della fobia: l'afromania, riassunta nella parola-chiave del "mal d'Africa", vede al suo fianco vari esempi (sociali e letterari) di africanofobia, nella quale si propagano antiche images fin dai tempi dello schiavismo e del colonialismo plurisecolari. In generale, prendendo in considerazione l'accelerazione di informazioni, di stimoli visivi e immaginativi derivata dalla compenetrazione planetaria dei mass media e in particolare di Internet, possiamo ben dedurre che anche le rappresentazioni interculturali hanno raggiunto un grado inaudito di complessità.

Rimane comunque da chiarire che gli studi imagologici non si prefiggono di descrivere e/o di comprendere in sé la cultura "altra" immaginata e rappresentata; né il loro obiettivo è di comporre una poetica degli spazi (città, paesaggi, intere aree geografiche o continenti), con l'obiettivo di renderli "visibili" o fruibili al lettore del discorso critico. Per riprendere le parole di Jean-Marc Moura, «trascurando il problema del referente, [l'imagologia] segue il postulato di una immaginazione produttrice che (ri)crea letterariamente il luogo straniero». Diversamente dagli assunti della geocritica, al centro dell'analisi imagologica sono appunto gli scarti tra due ordini di realtà culturali, e le conseguenze di tali scarti per la definizione sia dell'alterità che dell'identità, ma non la conformazione reale di spazi e delle culture. Le conseguenze etiche, e anche politiche, di tale prospettiva di ricerca sono state riassunte in maniera incisiva già da Hugo Dyserinck, che postula una radicale "demistificazione" delle images letterarie, soprattutto laddove esse sono espressione di accentuate manie o fobie dell'altro: atteggiamento che lo studioso belga applica esclusivamente al contesto europeo, inteso come «laboratorio sperimentale» della convivenza tra i popoli.

Tuttavia, tale esigenza demistificatoria ritrova un corrispettivo in Orientalismo di Edward Said, che può essere benissimo definito come un esempio di imagologia interculturale ante litteram, che infrange il verdetto della prospettiva neutrale per rileggere e reinterpretare l'"archivio" della cultura occidentale rovesciando la prospettiva alla quale l'osservatore europeo era abituato, anche attraverso gli scritti e le narrazioni di viaggiatori, mercanti, romanzieri e studiosi. Infatti, Said ribadisce nel suo studio come l'Occidente abbia gettato per molti secoli un velo interpretativo sull'Oriente, "ricreandolo" nell'immaginario al fine di affermare la propria egemonia su di esso, e soppiantando il "vero" Oriente con la sua rappresentazione occidentale: [...]

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3.3 Immaginari mondiali italiani del Novecento: il caso dell'Africa


                                                      Africa! Unica mia
                                                            Alternativa
                                                          P.P. Pasolini


                           Superiorità? Inferiorità? Perché non cercare
      semplicemente di toccare l'Altro, di sentire l'Altro, di rivelare
             l'Altro? La mia libertà non mi è dunque data per edificare
                                                       il mondo del Tu?
                                                           Frantz Fanon



Nell'immaginario letterario e, più ampiamente, culturale europeo, l'Africa da sempre ha assunto il valore dell'alterità assoluta, distante, esotica, oggetto di dominio e di desiderio di evasione. Dalle Storie di Erodoto – fondatore della ricerca etnografica e di quella storiografica e iniziatore delle narrazioni intorno a questo continente – a Heart of Darkness di Joseph Conrad e Out of Africa di Karen Blixen , la cultura occidentale si è rivolta a quella africana come altro da sé, dipingendone immagini favolose e quadri apocalittici, coltivando il proprio "mal d'Africa" e continuando a formulare desideri di possesso coloniale e personale. Se da un lato, a livello tematico, le varie Afriche immaginate o visitate dagli scrittori europei sono state occasioni di mondializzazione e di aperture di immaginari nuovi e alternativi per i loro lettori, dall'altro è difficile trovare, anche in tempi più recenti, storie di incontri autentici tra le culture, o di fusione di orizzonti tra l'io e l'altro in un dialogo alla pari. L'orrore di fronte al potere distruttivo e d'inganno intrinseci alla propria cultura, espresso da Conrad sullo sfondo della connotazione dell'alterità africana nei termini di un primitivismo e di un'inferiorità etnica e morale, sfocia infatti, durante il XX secolo, in rappresentazioni all'interno di testi autobiografici e di fiction letterarie, di reportage e guide di viaggio, che però solo a stento si liberano del grande paradigma interpretativo europeo delle civiltà africane: quello coloniale.


3.3.1 Al servizio del potere dominante: i primi decenni della letteratura coloniale italiana

Diversamente dalla cultura francese, che negli anni venti dello scorso secolo ricevette importantissimi impulsi da intellettuali e artisti africani, sviluppando in questo senso una vera e propria "negrofilia", quella italiana tra l'Ottocento e il Novecento risentì a lungo dell'assenza di relazioni africane dirette. Il discorso sull'Africa, formulato dagli scrittori italiani ad accompagnamento delle iniziative politiche, militari e commerciali in quel continente, è da considerarsi un vero e proprio monologo, che non diede occasioni di risposte o di opposizioni che non fossero quelle, a loro volta, racchiuse in azioni militari a difesa del proprio territorio.

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Rimane, infine, una voce isolata quella di Riccardo Bacchelli , che nel suo romanzo Mal d'Africa (1935) propone un'immagine dell'Africa subsahariana percepita dallo stesso Mussolini come "anticolonialista". Ricostruendo le vicende africane di Gaetano Casati, viaggiatore tra il Nilo e il Congo tra il 1879 e il 1889, Bacchelli sposa la prospettiva temporale degli anni postunitari, per lamentare la «sciagura» della «civilizzazione dei negri», senza dover prendere posizione rispetto alle azioni coloniali della propria patria, e senza staccarsi fino in fondo da un discorso culturale che vedeva soprattutto nella donna africana una preda facile per l'esploratore-viaggiatore occidentale.


3.3.2 Ennio Flaiano: il detto e il non detto in Tempo di uccidere

Quando, nel 1947, Ennio Flaiano pubblica il romanzo Tempo di uccidere, composto in pochi mesi dietro l'amichevole sollecitazione dell'editore Longanesi, anche il pubblico italiano coglie immediatamente la novità di quello che potrebbe essere definito il primo e ultimo autentico romanzo coloniale italiano, nel senso che in esso si riflette finalmente, all'interno della finzione romanzesca, sulla relazione coloniale tra il popolo colonizzatore e quello colonizzato. Flaiano opta per la creazione di un plot inventato, traducendovi tuttavia le sue esperienze raccolte come sottotenente durante la campagna in Abissinia, tra il 1935 e il 1936. La distanza di oltre dieci anni intercorrente tra gli eventi vissuti, e annotati in un diario di guerra che sarebbe stato pubblicato solo postumo nel 1973, e quelli narrati nel romanzo si traduce nel distacco dell'autore dall'autobiografismo a favore di una narrazione in prima persona, in cui concede ampio spazio al gusto per il rocambolesco e per il fantastico.

Tramite l'io narrante, quello di un tenente dell'esercito italiano stanziato in Etiopia, il lettore è proiettato in uno scenario africano che sembra essere scaturito proprio dalla coscienza del protagonista-narratore, autore, suo malgrado, dell'omicidio di una donna etiope con la quale aveva avuto rapporti sessuali. Gli eventi successivi si snodano sullo sfondo della crisi morale del tenente, un chiaro esponente della tradizione di figure letterarie italiane ed europee di inetti. In un primo momento Flaiano, attraverso il suo protagonista-narratore, sembra attuare una critica nei confronti della propria nazione colonizzatrice, una critica riassunta dallo scrittore nelle frasi lapidarie anteposte al proprio diario: «Le colonie si fanno con la Bibbia alla mano, ma non ispirandosi a ciò che vi è scritto», e «Influenza delle canzonette sull'arruolamento coloniale. Alla base di ogni espansione, il desiderio sessuale». Tali appunti contengono in nuce l'idea che Flaiano aveva maturato rispetto al colonialismo europeo e italiano in Africa, e che ai suoi occhi era caratterizzato dall'ipocrisia delle sovrastrutture ideologiche (oscillanti tra l'esigenza di "civilizzare" e quella di "convertire" le popolazioni indigene) atte a giustificare il mero Willen zur Macht e il desiderio di espansione del proprio territorio. Un desiderio che non assume solo metaforicamente valenze sessuali, ma che comporta nella realtà delle colonie la ricerca della libera espressione di fantasie erotiche alimentate da canzonette e «film Paramount», nonché dall'orientalismo secolare della cultura occidentale. La fantasia del tenente, la cui costante preoccupazione di veder spuntare coccodrilli o altri animali selvatici è un importante filo rosso del romanzo, è quindi una fantasia precedentemente codificata dalla cultura d'appartenenza, e la "scena biblica" che lo vede avvicinarsi a una bella indigena in atto di lavarsi, è un dejà vu in cui si incrociano, tra il brutale e il finto romantico, sogni di soldati e realtà dei colonizzati.

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3.3.3 La poesia africana in Pier Paolo Pasolini: sul cammino dal selvaggio al razionale

Con Flaiano si esaurisce il paradigma coloniale nella letteratura italiana, anche se alcune delle sue strutture imagotipiche continuano a esercitare i loro effetti e vengono ribaltate in termini critici solo in tempi molto recenti. Non si esaurisce, invece, il fascino che l'Africa suscita su molti scrittori italiani, che cominciano a scoprirla anche attraverso viaggi fatti in vari paesi del continente. Interessato fin dai primi anni sessanta al difficile processo di decolonizzazione e di lotta per l'indipendenza da parte delle colonie europee del continente, Pier Paolo Pasolini inizia proprio in quegli anni a costruire una propria immagine dell'Africa, la quale percorre diverse delle sue opere letterarie e cinematografiche, sebbene non tutte realizzate. Una prima testimonianza del fascino esercitato dalle culture africane sul poeta di Casarsa, sia in senso estetico che ideologico, è la poesia Profezia, pubblicata nella raccolta Poesia in forma di rosa del 1964, e frutto di un colloquio avuto con Jean-Paul Sartre sulla lotta di liberazione coloniale dell'Algeria, conclusasi solo due anni prima. Immaginando, nel suo componimento "profetico", un cambiamento radicale dell'assetto sociale europeo a seguito dell'immigrazione di «Alì dagli occhi azzurri» e di «tanti figli dei figli» che sarebbero scesi dalle navi provenienti da Algeri, Pasolini formula l'immagine utopica che vede i nuovi migranti unirsi con i proletari e contadini del Sud Italia. Attraverso la fratellanza tra le classi povere, e insegnando «ai compagni operai la gioia della vita» e «ai borghesi la gioia della libertà», i migranti della poesia pasoliniana popolerebbero tutto il Mediterraneo, espropriando la borghesia e innescando un processo rivoluzionario nuovo, dipinto in termini apocalittici ma attraverso un sistema metaforico che parla chiaro dell'entusiasmo del poeta per il processo da lui auspicato. Un processo che, come Pasolini andava concependo in quegli anni, sarebbe stato capace di unire i valori del passato, occidentale ed extraeuropeo, in una tensione verso il futuro, in cui tutti i nodi di un presente oppresso si sarebbero sciolti. In questo senso, l'Africa, come sostiene un altro testo poetico, Frammento alla morte, del 1961, è da lui considerata come sua «unica [...] alternativa», e come un'utopia in fase di realizzazione.

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3.3.5 Gianni Celati: lo sguardo autocritico del turista in Africa

Rappresentanti di spicco della cultura italiana degli anni sessanta-ottanta, Moravia e Pasolini non possono certo essere definiti artefici di una mondializzazione dell'immaginario collettivo italiano in riferimento all'Africa e alle culture orientali. In realtà, fino agli anni ottanta non si riscontra nessun importante rinnovamento dell'immagine dell'Africa nella coscienza degli italiani. Per di più, la lettura e l'analisi delle opere "africane" degli autori italiani alla luce dei movimenti contemporanei di decolonizzazione culturale – messa in moto dall'interno delle stesse nazioni africane, dai Caraibi e dai paesi ex colonizzatori – mettono in evidenza lo spalancarsi di un ritardo culturale paragonabile, a tale riguardo, solo a quello della Germania, detentrice di colonie nell'Africa sud-occidentale fino al 1919. Un ritardo che stupisce tanto più se si tiene presente che – sebbene non ci fosse ancora traccia di una ricezione più sistematica e meditata del pensiero e della produzione artistica di intellettuali, scrittori e filosofi africani – le opere di Frantz Fanon, Aimé Césaire, Jean-Paul Sartre e Albert Camus erano penetrate anche attraverso numerose traduzioni nel tessuto culturale italiano.

Bisogna saltare al 1998 per trovare qualcosa di nuovo in Italia con il libro Avventure in Africa di Gianni Celati. Non è un'opera che si propone l'elaborazione di un discorso sull'Africa libero dalle strutture imagotipiche di stampo eurocentrico e coloniale, né mette in relazione tale discorso con la secolare pratica dello schiavismo. Tuttavia, dalle pagine del diario africano dello scrittore lombardo (annotate nel 1997 durante un viaggio in Africa occidentale in compagnia del fotografo Jean Talon) traspare un passo importante compiuto verso una liberazione dell'immaginario africano degli italiani, a partire dalla messa in discussione della stessa natura dello sguardo del viaggiatore italiano ed europeo, di fronte allo sterminato e quanto mai vario continente africano. Fin dalle prime battute del diario – che ricalcano le sensazioni dello scrittore al momento dell'arrivo a Bamako, capitale del Mali – ci troviamo di fronte all'azzeramento volontario di tutto ciò che si sa o si crede di sapere sull'Africa e sulle sue popolazioni: «Ieri arrivando all'aeroporto di Bamako, ore 2.30 notturne, ho smesso di capire cosa stava succedendo», annota infatti Celati, proseguendo con l'analizzare, con una punta di ironia, il tipo di rapporto che da allora in poi avrebbe legato lui e il suo amico alle guide turistiche e ai traduttori del luogo, mettendone in risalto il potere esercitato sui turisti europei, inesperti e smarriti fin da subito. L'ammissione di sentirsi fuori luogo, riassunta nella semplice frase «non so neanche cosa sono venuto a fare in Africa», sembra alludere al modo in cui un altro scrittore-viaggiatore, Bruce Chatwin, aveva affrontato prima di lui il tema dell'Africa, ragionando in What Am I Doing Here ( Che ci faccio qui? , 1988) sulla difficoltà di formulare un'interpretazione delle culture del continente che rendesse ragione della loro complessità storica e sociale, e preferendo a un discorso simulante una maturità di comprensione e informazione quello ricalcante lo sguardo di viaggiatori-esploratori più antichi, come Montaigne, in Europa, e Ibn Battuta. Sebbene Celati non prenda di petto un immaginario africano troppo consolidato e ossificato, la rottura da lui attuata riguarda sicuramente la pretesa di fornire spiegazioni basate sull'attitudine mentale dell'assimilazione e/o differenziazione culturale, o su stereotipi e cliché belli e pronti. Lo smarrimento dello scrittore lombardo, raccolto con semplicità e sincerità nelle prime battute del diario, non è quindi solo quello del turista che si ritrova all'improvviso immerso nell'alterità del continente africano, ma soprattutto quello dello scrittore che sospende il giudizio immediato, lasciando scorrere le sue osservazioni di viaggiatore non più sentimentale e individuale, bensì normale, e individuato come tale anche dalle persone incontrate durante il viaggio.

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