Copertina
Autore Stuart Kelly
Titolo Il libro dei libri perduti
SottotitoloStoria dei capolavori della letteratura che non leggerete mai
EdizioneRizzoli, Milano, 2006 , pag. 400, cop.ril.sov., dim. 135x187x27 mm , Isbn 978-88-17-01180-8
OriginaleThe moral right of the author has been asserted [2005]
TraduttoreRoberta Zuppet
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe critica letteraria , storia letteraria , libri
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Indice

Ringraziamenti                     7
Introduzione                       9

Anonimo                           21
Omero                             25
Esiodo                            37
Saffo                             40
K'ung Fu-tzu                      44
Eschilo                           50
Sofocle                           64
Euripide                          69
Agatone                           74
Aristofane                        79
Menandro                          84
Callimaco                         92
I Cesari                          95
Ovidio                            99
Longino                          102
Origene                          105
Kàlidàsa                         111
Fulgenzio                        115
Widsith the Wide-travelled       118
Beda il Venerabile               121
Muhammad Ibn Ishaq               127
Dante Alighieri                  133
Geoffrey Chaucer                 139
François Villon                  146
Torquato Tasso                   150
Miguel de Cervantes Saavedra     159
Edmund Spenser                   166
William Shakespeare              176
John Donne                       188
Ben Jonson                       195
John Milton                      202
Sir Thomas Urquhart              214
Molière (Jean-Baptiste Poquelin) 220
Ihara Saikaku                    223
Alexander Pope                   226
Il dottor Samuel Johnson         238
Il reverendo Laurence Sterne     241
Edward Gibbon                    248
Johann Wolfgang von Goethe       253
Robert Fergusson                 262
Sir Walter Scott                 266
Samuel Taylor Coleridge          271
Jane Austen                      277
George Gordon, Lord Byron        286
Joseph Smith junior              292
Nikolaj Gogol'                   298
Charles Dickens                  304
Herman Melville                  312
Gustave Flaubert                 317
Fëdor Dostoevskij                324
Algernon Charles Swinburne       331
Émile Zola                       334
Arthur Rimbaud                   343
Frank Norris                     347
Franz Kafka                      351
Ezra Loomis Pound                358
Thomas Stearns Eliot             366
Bruno Schulz                     369
Dylan Marlais Thomas             374
William S. Burroughs             378
Sylvia Plath                     382
Georges Perec                    387

Conclusione                      393


 

 

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Pagina 15

Esiste un altro gruppo di libri perduti, ma, con una fiducia irragionevole nel futuro, ho deciso di non discutere l'illeggibile. Poiché lingue come la lineare A, il gruppo maya e la scrittura dell'Isola di Pasqua non sono state decifrate, è lecito pensare che racchiudano intere letterature perdute. Nell'Ottocento, la Stele di Rosetta consentì tuttavia la lettura parziale dei geroglifici dopo che questi ultimi erano stati considerati incomprensibili per millenni. Se questo volume comparirà in Quantanet nel 5005, non voglio che i miei discendenti debbano preoccuparsi di cancellare qualcosa.

La perdita presenta sintomi e predilezioni. La commedia mostra molte delle caratteristiche ad alto rischio, proprio come la letteratura erotica e l'autobiografia. La scomparsa dei diari di Philip Larkin, che univano tutti e tre questi generi, era quasi inevitabile. La censura dei testi erotici spiega anche la sparizione di un volume di Ibn al-Shah al-Tahiri, un poeta della corte abbaside, intitolato Masturbazione (non sappiamo se fosse un panegirico, una satira o un manuale). A parte il contenuto dell'opera, la molteplicità di regimi teologici e politici sotto cui uno scritto può venire a trovarsi (la sua cultura, anziché la sua natura, se volete) contribuisce all'estinzione.

Da Savonarola all'ayatollah Khomeini, le religioni si sono espresse attraverso i roghi di libri. Valentin Gentilis, che visse a Ginevra, redasse un saggio incoerente e pieno di divagazioni sull'idea secondo cui la dottrina teologica di Calvino postulava senza volerlo l'esistenza di un quarto membro della Trinità. Restò in carcere per otto anni, ritrattò e infine fu giustiziato: la sua punizione (a parte la morte) fu l'obbligo di bruciare le pagine che aveva scritto. La sentenza fu considerata lieve.

Il fatto che la violenta e satirica Ode a Stalin di Mandelstam sia sopravvissuta è stupefacente; molte altre delle sue carte, bozze e annotazioni furono consegnate alle fiamme, gettate nel gabinetto o distrutte in altro modo. Il suo compatriota Isaac Babel non fu altrettanto fortunato. Quando fu arrestato dalla polizia segreta di Stalin il 15 maggio 1939, gli agenti rimossero ogni singolo pezzetto di carta dal suo appartamento.

Alcuni autori, più che alcuni testi, paiono sospetti. L'assenza quasi totale di capitoli sulle scrittrici, sugli autori gay e sugli scrittori al di fuori dell'Europa, e della lingua inglese, è in parte colpa mia, e in parte di coloro che hanno cancellato sistematicamente quelle opere. Sappiamo che Virginia Woolf cercò di immaginare la sorella di Shakespeare, ma la natura inesorabile e immutabile del passato frustra ogni tentativo di dare un nome a chi è stato privato persino di una spettrale esistenza perduta. Invece, e con poche eccezioni, mi concentrerò sul cosiddetto Canone. Il tanto decantato Canone occidentale, strombazzato nel resto del mondo per la sua ricchezza, la sua qualità e la sua forza, non è una torcia olimpica o un cavallo purosangue; esiste per caso, non per necessità, uno scoglio fortunato che sporge da un oceano di perdite. Questo volume illustra quella triste sfilata di busti sfigurati, ceramiche screpolate, ritratti scrostati e fotografie ingiallite in tutta la sua gloria precaria e traballante, una sfilata che incarna la nostra tradizione ipotetica, potenziale o solo maledettamente benvoluta dalla sorte. Gli scritti sopraffatti dalla corrosione del tempo non hanno avuto un destino altrettanto propizio.

Andare smarrito è la cosa peggiore che possa capitare a un volume? Un libro perduto rappresenta, in certa misura, un desiderio da realizzare. Il libro perduto, come la persona che non avete mai osato invitare a ballare, diventa molto più intrigante perché può essere perfetto solo nell'immaginazione.

Oggi siamo quasi incapaci di credere all'eventualità della perdita. Mentre il Progetto Gutenberg e database come il Chadwyck-Healy continuano a crescere, proponendo l'idea di una cultura del cyberspazio eternata per sempre, dobbiamo avere l'umiltà di ammettere che la letteratura non ha necessariamente una vita successiva. Premi e plausi vengono distribuiti ogni giorno, ma la sorte finale dei fortunati destinatari non è più sicura di quella del tanto celebrato Agatone. Persino un ricettacolo come la British Library aveva vecchi moduli di richiesta con una casella sul retro che, seppur di rado, conteneva una crocetta in corrispondenza della voce: «Volume perduto». Allo stesso modo, nulla garantisce che un'esistenza intangibile sia anche uno stato irraggiungibile dell'essere. Se la letteratura fosse una casa, Il libro dei libri perduti sarebbe House di Rachel Whiteread, un vuoto riempito che funge sia da tomba sia da traccia. Il libro dei libri perduti è una storia alternativa della letteratura, un epitaffio e una veglia, una biblioteca ipotetica e un'elegia a ciò che sarebbe potuto essere.

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Pagina 220

Molière (Jean-Baptiste Poquelin)
(1622-1673)



«I manoscritti non bruciano» scrisse Michail Bulgakov nel suo più grande romanzo, Il maestro e Margherita, anche se, essendo il biografo di Molière, sapeva che le lettere e gli scritti inediti del suo eroe (compreso il suo ultimo capolavoro, L'homme du coeur) erano stati dati alle fiamme. Nella Vita del signor de Molière, Bulgakov non menziona tuttavia un altro testo perduto, sebbene il fatto che sia davvero andato perduto sia ancora dubbio.

Nonostante molti degli eventi che segnarono la sua vita, Molière fu il più fortunato e il più sano di mente degli attori di commedie. Quando la balbuzie gli procurò fischi e lanci di ortaggi sul palcoscenico, si trasformò in uno scrittore: e per la scrittura era molto portato. Quando la sua compagnia fu gettata sul lastrico, trovò rifugio presso i ricchi. Quando i suoi lavori più controversi provocarono scandalo, lui si trovava al sicuro, sotto l'ala protettrice del duca d'Orléans. Quando uno spettatore indignato si alzò durante una rappresentazione di Sganarello, o il cornuto immaginario, e dichiarò ad alta voce di essere stato calunniato, il resto del pubblico, ridendo ancora di più, replicò che chiunque sarebbe stato felice di rivendicare di aver ispirato il personaggio di un pazzo avaro, geloso, borghese. I vacillamenti e le vicissitudini del destino si tramutavano sempre in opportunità, e ogni attacco subìto diventava una vittoria. Anche il pettegolezzo secondo cui Molière avrebbe sposato la propria figlia non incrinò minimamente la sua reputazione: ma i figli dell'ex amante gli resero comunque la vita un inferno.

La vena comica di Molière si fondava sulla visione del vizio come follia. A far ridere non era solo la beffa ai danni del taccagno Arpagone nell' Avaro, ma anche l'idea, già di per sé ridicola, che accumulare ricchezze fosse una strada praticabile. La presunzione intellettuale nelle Preziose ridicole, la paura della morte nel Malato immaginario, l'ipocrisia nel Tartufo, il cinismo nel Misantropo, la lussuria in innumerevoli forme: i più sordidi difetti della psicologia umana, con cui si cercava inutilmente di evitare l'inevitabile, erano fonte di un'allegria spontanea e trionfante.

Ma quale fiduciosa visione del mondo stava alla base della vena da fustigatore ironica e icastica di Molière? Da ragazzo aveva letto, come tanti altri, il filosofo latino Lucrezio. Nel De rerum natura, Lucrezio presentava una dottrina epicurea: gli dèi non erano necessari, l'errore era punizione di se stesso e, come avrebbero scoperto vari autori da san Paolo a Samuel Johnson, era infruttuoso ribellarsi a un cosmo cui non importava nulla della vanità dei desideri umani. La felicità si raggiungeva scansando il dolore: perciò, sillogisticamente, l'individuo capace non solo di procurare piacere, ma anche di evidenziare l'inutilità del pensiero stucchevole e delle sciocche speranze umane non sarebbe stato altro che un santo pagano in un universo senza Cielo.

In un caso, l'allievo superò il maestro. Per prevenire le sofferenze future che senza dubbio gli sarebbero toccate, Lucrezio scelse il suicidio. Ad alcuni amici che, dopo essersi ubriacati, erano così depressi da volersi annegare, Molière fece notare che una protesta tanto vigorosa contro le tristi condizioni dell'esistenza avrebbe certamente perso valore se compiuta tra i fumi dell'alcol. Avrebbe dovuto invece avere luogo l'indomani, dopo colazione, quando, naturalmente, la sbornia era passata e con essa le velleità di suicidio.

Molière si cimentò in una traduzione di Lucrezio. Nel 1661 (l'anno precedente il primo grande successo del commediografo, registrato con La scuola delle mogli), l'abate de Marolles aveva accennato all'intenzione dell'autore di pubblicare il testo, che però non fu mai realizzata. Poiché possediamo l'originale di Lucrezio, la perdita di una versione francese potrebbe sembrare cosa da poco e, in certa misura, è così. Come l'orbita di Urano, deviata dal suo corso dalla massa di Nettuno, aveva consentito a Le Verrier di intuire l'esistenza di un altro pianeta senza averlo visto, così il debito di Molière nei confronti di Lucrezio può essere dedotto dall'orbita ellittica del suo pensiero, benché l'omaggio effettivo non sia sopravvissuto, a eccezione di un discorso sulla cecità degli amanti, ispirato allo scrittore latino e inserito nel Misantropo.

Tuttavia sarebbe stato interessante leggere un Molière che, nel suo stile forbito, scrive della futilità di qualsiasi sforzo e del divino come illusione. Ma — come forse il commediografo avrà deciso di tradurre il titolo del De rerum natura — C'est la vie.

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Pagina 312

Herman Melville
(1819-1891)



I romanzi che non vengono scritti sono moltissimi: può accadere che la scintilla dell'ispirazione non si accenda, che l'opera si guasti mentre viene plasmata, che il pennino venga spezzato dalla morte. Agatha, tuttavia, è unico perché ben due uomini di genio non riuscirono a scriverlo. L'idea originale, secondo cui la biografia della signora Agatha Robertson, nata Hatch, era degna di una qualche trasfigurazione romanzesca, era venuta a un anziano avvocato di New Bedford, che Herman Melville conobbe a Nantucket nel luglio del 1852.

La storia di Agatha Hatch («Ma dovete darle un altro nome» scrisse Melville a Nathaniel Hawthorne ) contiene un momento di intensa drammaticità, parecchi anni di sopportazione paziente seppur molto dolorosa e una sorta di rivelazione. Mettendo da parte per un attimo la cronologia, il catalizzatore che svela tutti i fatti è un certo signor Janney del Missouri, diventato esecutore testamentario della proprietà da ventimila dollari del signor Robertson, il secondo marito di sua suocera. Tentando di rintracciare i discendenti di questi, scopre che il suo vero nome era Shinn. Queste alacri ricerche sono tuttavia meno fruttuose dell'arrivo inatteso di una lettera indirizzata al defunto. Il mittente è una certa Rebecca Gifford di Falmouth, nel Massachusetts, e si rivolge al destinatario chiamandolo «padre».

Torniamo indietro di vent'anni. Dopo aver fatto naufragio a causa di un fortunale improvviso, James Robertson si ritrova sulla spiaggia di Pembroke, nel Massachusetts, e viene curato da Agatha Hatch, una giovane del posto. Il misto di affetto, sollievo e paura generato da un incontro ravvicinato con la morte si trasforma pian piano in qualcosa di simile all'amore, e, come si conviene, i due si sposano. L'uomo intraprende altri due viaggi in mare, e la coppia ha una figlia, Rebecca. Dopo essere partito di nuovo per andare in cerca di lavoro, Robertson non fa più ritorno.

Nei diciassette anni successivi, Agatha vive nell'incertezza. Il fatto che non si risposi indica forse la sua convinzione che il marito sia ancora vivo, tanto più che nulla ne ha mai confermato il decesso. A quanto sembra, il mare sa aspettare a lungo prima di riafferrare chi è riuscito a sfuggire alla morte tra i flutti. Quanto tempo occorre perché la speranza sfumi nella rassegnazione, perché la sopportazione si sgretoli nello sconforto? L'avvenimento che autorizzerebbe il lutto viene rimandato all'infinito. La donna si guadagna da vivere lavorando come infermiera e fa il possibile per iscrivere Rebecca alla più prestigiosa scuola quacchera. A quel punto, James ricompare.

Tramite il suocero, invia alla moglie un messaggio in cui le assicura che capirà se lei non vorrà incontrarlo, ma aggiunge che desidera vedere sua figlia. Non rivela dove è stato, e in qualche modo riesce a persuadere i parenti che cercare di seguirlo o di rintracciarlo sarebbe inutile, se non addirittura pericoloso. Promettendo di tornare definitivamente entro un anno, dispone affinché ricevano una cospicua somma di denaro.

Fedele alla parola data, si rifà vivo il giorno precedente le nozze di Rebecca, ma poi sparisce ancora, e spedisce alcune lettere chiedendo a tutta la famiglia di trasferirsi nel Missouri. Invia anche degli scialli che sembrano essere già stati indossati da qualcuno. Alla fine, confessa al genero il motivo per cui non è potuto restare al fianco di Agatha e Rebecca. La signora Irvin, una vedova, è diventata la seconda signora Robertson, e la loro figlia ha sposato il signor Janney. In seguito, quest'ultimo dichiarerà che suo suocero era un uomo bizzarro e diffidente, abituato a indagare sull'identità dei suoi visitatori prima di acconsentire a riceverli. Agatha asserisce di «non aver voluto rendere infelice nessuno dei due» e osserva che denunciare la bigamia di James sarebbe servito solo ad allontanarlo ancora di più. Né lei né Rebecca insistono affinché il vitalizio che l'uomo ha lasciato ai Janney venga annullato.

Melville scrisse a Hawthorne confidandogli che aveva accarezzato l'idea di usare la storia, «ma, ripensandoci, mi è sovvenuto che questo soggetto appartiene a un genere con cui voi avete particolare dimestichezza. Per farla breve, credo che, in questo argomento, sareste più bravo di me». Data l'accoglienza entusiasta riservata alla Lettera scarlatta (lo studio sull'ipocrisia puritana pubblicato da Hawthorne nel 1850) e alla sottile caratterizzazione di Hester Prynne (una donna dalla pazienza e dall'abnegazione infinite), comprendiamo perché Melville riteneva che fosse il collega a dover scrivere Agatha.

Inoltre, è probabile che Melville soffrisse ancora per le numerose recensioni negative di Moby Dick, il suo romanzo del 1851. «Una porcheria appartenente alla peggiore scuola della letteratura da manicomio» aveva tuonato l'«Athenaeum». «Pura follia strampalata» aveva rincarato il «London Morning Chronicle». «Evidentemente il signor Melville sta cercando di appurare fino a che punto il pubblico accetterà di essere imbrogliato... un vero e proprio ultimatum della debolezza... retorica mediocre, sintassi involuta, sentimentalismo ampolloso e inglese incoerente» aveva aggiunto la «New York United States Magazine and Democratic Review». Dopo quello che sembrava un fallimento clamoroso della sua avventura metafisica sulla monomania, sul cameratismo maschile e sulla caccia alla balena, una stoica tragedia domestica e femminile sarebbe stata senz'altro una novità.

La lettera a Hawthorne rivela che Melville stava davvero plasmando la sua Agatha. Il padre della protagonista, ex marinaio e guardiano di un faro, costringe la figlia a giurare che non sposerà mai un uomo di mare. La cassetta della posta che Agatha controlla ogni giorno viene descritta in una sequenza di fermi immagine all'insegna del deterioramento e della decrepitezza anunuffita; il campo lungo iniziale si sofferma sui poderi e sul paesaggio marino, sugli scogli da cui Agatha non si getterà per la disperazione. Il marito infedele viene trattato con compassione: «Il peccato gli si era avvicinato di soppiatto, senza che se ne accorgesse, tanto che forse gli sarebbe stato difficile stabilire il giorno in cui avrebbe potuto dire a se stesso: "Ora ho abbandonato mia moglie"». Nonostante ciò, era Hawthorne a dover «coprire di vene, carne e bellezza» questo «scheletro di autentica realtà»: «E se pensassi di poterlo fare bene quanto voi, be', non vi permetterei di farlo».

Hawthorne cominciò a comporre un testo intitolato Agatha, ma se ne stancò ben presto. Nell'ottobre del 1852, Melville gli scrisse di nuovo, dandogli dei suggerimenti riguardo all'intreccio e specificando in particolare che la bigamia di Robertson avrebbe potuto «essere ascritta alla concezione singolare e tollerante che la maggioranza dei marinai ha di tutti i teneri obblighi di quel tipo», un'idea che, ne era sicuro, Hawthorne aveva già preso in considerazione.

In novembre, Hawthorne aveva ormai deciso di accantonare Agatha, ed esortò Melville a occuparsene di persona. Melville accettò, chiedendogli il permesso di usare il nome «Isola delle secche», che il collega aveva inserito nel suo frammento, e promettendo che avrebbe iniziato «appena arrivato a casa; e farò del mio meglio per rendere giustizia a una storia vera tanto interessante». Dopo di che, Agatha svanisce dal panorama della letteratura.

L'amicizia tra Hawthorne e Melville si raffreddò intorno al 1856. «Ho appena deciso di annullarmi» scrisse Melville. Pur avendo vissuto per altri trent'anni, smise del tutto di pubblicare opere di narrativa: dopo L'uomo di fiducia del 1857, uno studio brillante e tinto di cupa ironia sull'inganno e sulla cattiva fede, Melville il romanziere scomparve nel nulla come James Shinn Robertson Robinson. Quando morì, il manoscritto incompleto di Billy Budd, marinaio fu ritrovato tra le sue carte. Il manoscritto di Agatha no.

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Pagina 317

Gustave Flaubert
(1821-1880)



Se Gustave Flaubert avesse realizzato il suo inveterato desiderio di distruzione, ci sarebbe pochissimo da dire su questo scrittore. Nel 1851 aveva trent'anni e viveva con una madre attaccabrighe e un armadio zeppo di annotazioni, scarabocchi e scritti giovanili. Fino ad allora, il suo unico tentativo importante di creare una composizione letteraria seria e intensa era stata una fantasmagoria tardoromantica, La tentazione di Sant'Antonio, un'opera ispirata al dipinto di Brueghel che aveva visto a Genova alcuni anni prima. Quell'angosciato poema in prosa era fiorito come un germoglio a partire dal suo appunto iniziale sul quadro: «Donna nuda distesa, Amore in un angolo».

Flaubert l'aveva letto all'amico Louis Bouilhet, che aveva espresso un giudizio lapidario: «Penso che dovreste gettarlo nel fuoco e non menzionarlo mai più». L'autore non aveva seguito il consiglio.

Abbattuto, era partito, e aveva viaggiato con indolenza per il Nordafrica, fissando il volto della Sfinge e l'ombelico di una spogliarellista con le braccia decorate da tatuaggi coranici. Poi era rientrato in Francia, irresoluto, ma con la consapevolezza di dover fare qualcosa. Forse avrebbe dovuto cogliere lo spunto fornitogli da Louis: «Un argomento concreto, un piccolo episodio della vita borghese». L'amico gli aveva inoltre suggerito un intreccio: «La storia di Delphine Delamare», un'adultera locale indotta al suicidio. Evidentemente l'idea aveva messo qualche radice nella mente di Gustave; sulla vetta che sovrastava la cascata di Djebel Abousir e il Nilo ribollente, lo scrittore aveva infatti esclamato: «Eureka! La chiamerò Emma Bovary!».

Tornato a casa con la madre, tuttavia, le cose andavano meno bene. Gli inizi furono sempre difficili per lui: l'ispirazione poteva essere improvvisa ed elettrizzante, ma quando la penna iniziava a sfiorare la carta, il parto era dolorosissimo. Mollemente disteso sulla sua panca, avvilito e assillato dalle pagine vuote, il corpulento scrittore si abbandonava a torrenti di lacrime e a parossismi masturbatori. La scrittura lo disgustava; era come «dover bere un oceano e poi pisciarlo fuori ancora tutto». Pubblicare era un terribile passo falso, «come consentire a qualcuno di vederti il culo». Al culmine di quella fase, fantasticò che l'ideale fosse «essere sepolto in un'enorme tomba, con tutti i miei manoscritti inediti, come un selvaggio tumulato insieme al suo cavallo». Se avesse fatto a modo suo, tutti i suoi testi sarebbero andati perduti in un sepolcro fuori mano.

Alla fine, dopo ben cinque anni di scrittura e revisione, Madame Bovary (1857) comparve nella «Revue de Paris», inizialmente reclamizzato come opera di un certo «Monsieur G. Faubert». Il direttore del periodico, il suo ex amico Maxime Du Camp, aveva imposto ulteriori tagli. Anche così, la versione stampata era disseminata di trattini pudibondi per proteggere gli occhi sensibili dalle parole triviali. Quelle omissioni furono una prova pertinente durante il processo che seguì, quando Sénard, l'astuto avvocato difensore, sostenne che quelle cancellature riguardose avevano soltanto infiammato i sospetti dell'accusa malpensante, che ovviamente conosceva parole molto peggiori di quelle eliminate.

Lo scandale garantì vendite soddisfacenti. L'appassionato di de Sade, solitario e sovrappeso, aveva iniziato una carriera che l'avrebbe condotto addirittura in seno alla famiglia imperiale. Dopo Madame Bovary comparvero Salambò (1862), un'orgia cartaginese, «la storia morale della [...] mia generazione»; L'educazione sentimentale (1867), che il sempre servizievole Du Camp avrebbe giustamente voluto ribattezzare Mediocrità; il Sant'Antonio (1874), rivisto tre volte; e i tardi, luminosi Tre racconti (1877). Un corpus relativamente esiguo per un sedicente Behemoth. Vi erano tuttavia altri scritti, romanzi pianificati, progetti abbandonati, epopee incompiute...

Flaubert scriveva sin dalla più tenera età. Aveva colorato una copia illustrata del Don Chisciotte e costretto la sua bambinaia a scrivere sotto dettatura. Mentre andava ancora a scuola, alcuni amici di famiglia avevano radunato le sue opere giovanili (tra cui una commedia, un'elegia su un cane che viveva nei paraggi e un trattato pieno di malizia puerile) e li avevano rilegati in un unico volume. Da studente, Flaubert aveva scritto a un insegnante, annunciando la composizione di tre racconti molto prima della pubblicazione del volume che porta questo titolo. Nello stesso periodo in cui aveva avuto la spaventosa visione del dipinto di Brueghel, stava buttando giù una versione del Don Giovanni.

Gustave era famigerato per la sua abitudine di accumulare manoscritti e la sua incapacità di gettare via anche il più piccolo frammento di carta. Sappiamo che, nel 1871, mentre l'esercito prussiano invadeva la Francia, un Flaubert guardingo seppellì in giardino una cassetta colma di lettere (e forse altri documenti). Chissà se la scatola conteneva anche qualche indicazione in più riguardo alla satira sul socialismo che si era riproposto di comporre, oppure le bozze di Harel-Bey, il suo romanzo sull'Oriente contemporaneo, in cui gli europei degeneravano mentre gli arabi miglioravano. La casa di Croisset fu demolita un anno dopo la sua morte. A quanto ne sappiamo, la cassetta rimase sotto terra. Come ipotizza un biografo, una miniera di scritti flaubertiani potrebbe giacere sotto il calcestruzzo del complesso portuale di Rouen.

Dettaglio ancor più intrigante, Flaubert aveva preso numerosi appunti per un romanzo sulla società francese durante il Secondo Impero, i cui gradi più alti l'avevano accolto con tanta cordialità. Aveva progettato l'opera dopo gli sconvolgimenti politici del 1870-71, e le osservazioni pervenuteci rivelano un senno di poi piuttosto distorto: la mappa di Babilonia è disegnata su una Parigi in decadenza. Il testo sarebbe stato l'equivalente dell'altrettanto indigesta Educazione sentimentale, una storia che avrebbe denunciato «la grande menzogna in cui viviamo», un romanzo brulicante di «un esercito finto, una politica finta, una letteratura finta, un merito finto e persino puttane finte». Se la psicologia impersonale di Madame Bovary aveva preannunciato il modernismo, il romanzo incompiuto sul Secondo Impero, traboccante di illusioni e disillusioni, avrebbe anticipato ciò che sarebbe venuto dopo? Qualcuno direbbe che fu un'altra opera a svolgere quella funzione.

Bouvard e Pécuchet aveva occupato gran parte del resto della vita di Flaubert, un libro malinconico, enciclopedico, incompiuto e potenzialmente impossibile da finire. Due copisti benestanti ripercorrono l'intero scibile umano. Il Dizionario dei luoghi comuni di Flaubert cataloga la vacuità dell'opinione borghese in tutte le sue molteplici forme. In Bouvard e Pécuchet, lo scrittore ci offre una trionfante celebrazione dell'impulso irresistibile di osservare il mondo.

I due protagonisti, maniaci fittizi e ingenui eccentrici, tentano di analizzare l'universo quasi come avevano fatto i philosophes settecenteschi. Come in una scena recitata da due attori in redingote, inciampano a ogni passo, incapaci di distinguere tra una storia per vecchie comari camuffata da saggezza e la proverbiale perla.

Anche Flaubert aveva interrotto e ricominciato l'opera senza tregua, leggendo oltre millecinquecento libri per le sue ricerche. Scriverla, afferma, era stato come «tentare di mettere l'oceano in una bottiglia». Che fosse stata un'iniziativa donchisciottesca sin dal principio? Forse, anche se l'autore era incline ad affrontare ogni impresa con una paura insondabile della sua conclusione: mentre zoppicava tra i primi capitoli dell' Educazione sentimentale, si era lamentato dicendo che comporli era difficile come «versare il mare in una caraffa». Sotto forma di annotazione, aveva immaginato un possibile finale: dopo aver esaurito ogni campo dello scibile umano, i due ex copisti acquistano con gioia «registro e strumenti, gomme, sandracca e via discorrendo» e ordinano la costruzione di una doppia scrivania. Ritornano al loro lavoro dopo essersi sbarazzati del terribile «desiderio di concludere». Fanno persino un goffo tentativo per farsi perdonare da Mélie, la giovane donna rimasta impegolata nei loro piani bizzarri.

Flaubert avrà anche dichiarato: «Madame Bovary, c'est moi», ma non cominciò mai il libro che avrebbe potuto davvero toccare l'oscuro segreto della sua vita. Definì La Spirale «un ampio romanzo eccentrico, metafisico, prolisso», che sosteneva l'assunto secondo cui «la felicità è nell'immaginazione». Una strana elisione: intendeva forse che la vera felicità si raggiungeva, alla maniera dei poeti romantici, mediante un atto dell'immaginazione? O che qualsiasi forma di felicità era un parto della fantasia? Sebbene fossero stati la lettura dell' Inferno di Dante nel 1852 e gli alti e bassi della sua relazione con la capricciosa e non troppo fedele Louise Colet a dargli lo slancio iniziale verso il romanzo, l'opera era scaturita da una sorgente più antica e profonda.

Mentre rincasava con Achille, il suo rispettabile fratello, un Flaubert poco più che ventenne era stato colpito da un attacco grave e inspiegabile, apparentemente causato dalla complessa relazione tra la luce fissa di una taverna lontana e la lanterna oscillante di una carrozza in arrivo. Quei punti avevano creato una triangolazione imprecisata con qualcosa nella sua mente. L'episodio aveva provocato una dislocazione psichica, come se il tentativo di concentrarsi sulle forme avesse cagionato l'equivalente cerebrale di uno stiramento muscolare. Da bambino, lo scrittore aveva mostrato la tendenza a isolarsi e ad astrarsi dalle conversazioni, ma quella crisi era stata qualcosa di più grave. Era stata una «fiamma dorata», un'«irruzione della memoria», «una nuvola gialla», «un migliaio di fuochi d'artificio», una serie di «bengala». Era svenuto con la bava alla bocca e aveva cominciato a farfugliare. In retrospettiva, pare probabile che soffrisse di una forma di epilessia.

La Spirale era «un romanzo sulla pazzia, o meglio sul modo in cui si diventa pazzi». Achille-Cléophas Flaubert, suo padre, aveva fondato l'ospedale di Rouen, e il giovane Gustave aveva assistito ad autopsie e interventi, vagando tra i folli e i deboli di mente. Lui, più di tanti altri, disponeva del materiale con cui costruire una narrazione scientificamente accurata della malattia. Ma, confessò, «è un argomento che mi terrorizza».

La Spirale rimase intrappolata nel corpo di Flaubert, destinata a non essere mai trasferita sulla pagina. La follia, la corruzione, il presentimento che quei nodi e quei difetti non si trovassero solo nella natura dell'io, ma striassero la società sotto forma di traumi usciti allo scoperto: Flaubert non osò imbarcarsi in una simile indagine. Come avrebbe potuto? Il suo culto dell'impersonalità autoriale imponeva che l'autore amasse, combattesse e bevesse pur non essendo un amante, un soldato o un ubriacone. Bloccato da simili restrizioni, come poteva il torturato descrivere il suo tormento? Nell'odioso iato tra ogni opera ultimata e l'inizio della successiva, l'idea baluginava nella sua mente, lo provocava e veniva rimandata. «Dovrò aspettare finché sarò abbastanza lontano da quelle esperienze» scrive Flaubert. Ma non conquistò mai quella distanza.

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Georges Perec
(1936-1982)



Il postmodernismo (il più elusivo, contraddittorio ed ellittico tra i movimenti letterari) è in grado di creare un'opera di portata epica? Leggendo i libri di Georges Perec, e riflettendo sui progetti che questo scrittore lasciò incompiuti, abbiamo la forte tentazione di rispondere: assolutamente sì. La produzione di Perec è un caleidoscopio di stili in cui lo spettacolo di varietà si mescola con la preghiera e i giochi di società hanno un significato cabalistico. La struttura del mondo evocato dall'autore è complessa quanto gli esseri umani, multiforme quanto il linguaggio.

Perec si fece notare per la prima volta nel 1965, quando il suo romanzo d'esordio, Le cose, si aggiudicò il premio Renaudot. Era un orfano: i suoi genitori erano morti durante la Seconda guerra mondiale (suo padre, in servizio in zona di combattimento; sua madre ad Auschwitz), e trascorreva le giornate lavorando come archivista in un istituto di ricerca scientifica, dove preparava complicati cataloghi e si occupava della burocrazia più noiosa. Lungi dal gettarlo nella malinconia, quel lavoro fu un apprendistato importante per la sua attività all'interno di un nuovo e sofisticato movimento letterario: l' OuLiPo, l'Ouvroir de littérature potentielle, o Opificio di letteratura potenziale.

Il gruppo, che annoverava tra i suoi membri Harry Mathews, Raymond Queneau e Italo Calvino, si prefiggeva l'obiettivo di sviluppare forme letterarie inedite, in cui la libertà di espressione veniva raggiunta quasi sempre mediante le più rigorose costrizioni matematiche. Un primo tentativo di Perec fu il dramma radiofonico La macchina, in cui una poesia di Goethe viene sottoposta ad analisi e permutazioni pseudoscientifiche. Il testo contiene un esempio del gioco di sostituzione aritmetica S+7, in cui ciascun sostantivo viene rimpiazzato dal settimo seguente di un dato vocabolario, e cerca di cogliere lo spirito della poesia tramite letture interminabili e una numerologia rituale, ritraendosi dal linguaggio incomprensibile per rifugiarsi nel silenzio e nel mistero.

La scomparsa (1969) si impone una condizione quasi incredibile riportando in vita il lipogramma, un componimento in cui è proibito l'uso di una determinata lettera. Perec scrisse tutto il romanzo — un thriller incentrato sulla scomparsa di Anton Vokal — senza mai usare la e, la lettera più comune. Una dimostrazione dell'ingegnosità di Perec è il fatto che il primo recensore riuscì a non accorgersi dell'assenza delle e. Il suo capolavoro, La vita: istruzioni per l'uso (1978), tutto ambientato in uno stabile parigino, è un compendio di nuove forme di complessità. Sovrapponendo una matrice 10 x 10 all'edificio, il narratore sposta la sua attenzione da un punto all'altro, capitolo dopo capitolo, seguendo il rompicapo scacchistico che prescrive di percorrere tutte le caselle con il cavallo senza mai passare due volte sulla stessa. Da Marcia, la commerciante di curiosità del pianterreno, a Smautf, che abita in soffitta, il libro è un'istantanea e una storia, un'antologia di racconti boccacceschi, con tanto di puzzle, spiritelli e Santi Graal. Perec pretende moltissimo da se stesso. Vi sono un lessico obbligatorio di parole da utilizzare e una biblioteca da plagiare. Questo volume fu il suo Moby Dick, l'ultimo tentativo di superare quella che chiamava la sua «voglia di essere Flaubert». Tattiche singolari, angolazioni insolite, traiettorie radicali: piccole osservazioni vivificano ciascuna rigida strategia, anche se solo per un istante.

Queste storie non sono stupidaggini. E non sono neppure enigmi sterili e insignificanti, bensì studi approfonditi di come sono strutturate le vite, i pensieri e i racconti; una sintesi dell'ordine e del disordine. La vita: istruzioni per l'uso descrive l'esistenza come nessun altro libro, in tutta la sua causticità, spavalderia e comicità clandestina.

53 giorni, l'ultimo romanzo di Perec, è un omaggio ai polizieschi popolari che l'autore tanto amava. Come Il mistero di Edwin Drood di Dickens, è incompiuto, e dunque costringe il lettore a partecipare attivamente all'indagine. Si apre in un porto imprecisato del Nordafrica, dove il narratore, un insegnante privato di matematica, viene contattato dal console riguardo alla scomparsa di Robert Serval, un giallista espatriato. Serval, il cui vero nome è Stéphan Réal, ha lasciato istruzioni affinché, qualora gli capiti una disgrazia, il narratore riceva il suo manoscritto incompiuto.

Quest'ultimo, ambientato tra la foschia e la grandine dell'estremo Nord, narra dell'omicidio di un diplomatico della Marina, la cui auto esplode dopo essere uscita di strada. Il detective è convinto che un altro giallo contenga l'indizio indispensabile per districare questa storia di spionaggio industriale.

Mentre siede sorseggiando sorbetto e vino mediocre tra le zanne d'avorio dei cacciatori e i gusci delle tartarughe giganti di questa soffocante ex colonia dittatoriale, Veyraud deve stabilire se il frammento nordico è un'intricata allegoria che spiega la scomparsa di Serval. Il manoscritto incompiuto codifica forse qualche dettaglio locale? Il bordello o i delinquenti che si nascondono tra la polizia hanno qualche parallelo o qualche traduzione? Mentre scopre, o pensa di scoprire, una cospirazione ordita dal console per rubare una statua della regina Zenobia, il narratore si ritrova compromesso a ogni piè sospinto. Alla fine, i sospetti ricadono su di lui anche se la sua innocenza è l'unica cosa di cui è sicuro.

Perec completò soltanto i primi undici capitoli, ma lasciò molti appunti su come si sarebbe risolto il mistero. Veyraud si accorge che il libro è, di fatto, la sua lapide, dopo di che passiamo improvvisamente a un'altra voce. Un manoscritto, intitolato 53 giorni e imperniato su un insegnante privato di matematica persuaso che il romanzo inedito su un diplomatico assassinato nella sua automobile contenga alcuni riferimenti segreti, è stato rinvenuto nella vettura di un uomo d'affari, un ex Maquis scomparso di nome Robert Serval.

Così l'ossessione ricomincia, e cadiamo in una spirale vertiginosa di scatole cinesi e interpretazioni a crescita esponenziale. Lo scherzo conclusivo di Perec è rintracciabile nelle sue bozze. La storia si chiude tra le sabbie ocra del Marocco, dove emerge che la soluzione è uno scrittore di nome GP, che ha accettato la sfida di creare questo libro. Invece del vaso di Pandora, pieno dell'odio e della sofferenza del periodo bellico, l'ultimo cofanetto è una scatola a sorpresa. Si chiama 53 giorni, un accenno al tempo impiegato da Stendhal per redigere La certosa di Parma, e sfoggia varie allusioni ingegnose, richiami forzati all'autore francese e tracce impercettibili dell'intera, elaborata sciarada.

Quel che ci resta è, tuttavia, solo un vago scheletro di possibilità. La sinossi non riesce a trasmettere la squisita tessitura delle opere di Perec. Harry Mathews, il suo compagno di bevute, si rifiutò di ascoltare l'elenco di tutte le burle e gli stratagemmi disseminati nel libro, per avere il piacere di incespicare in quelle mine nascoste nel testo; ed è difficile ricostruire l'ispirazione della forma definitiva basandosi su queste bozze che ora ci paiono malinconiche.

Perec non portò a termine molti altri progetti: il suo inventario di tutto ciò che mangiava nel corso di un anno, quello dei letti in cui aveva dormito, la sceneggiatura di un «film d'avventura» riguardante cinquemila cavalleggeri kirghisi. Il più intrigante, perché vi rifletté per tutta la vita, è tuttavia L'Arbre, o «L'albero».

Come un granello di sabbia che si insinua e cresce all'interno di un'ostrica, l'idea di scrivere una genealogia di famiglia ossessionava Perec, ma non produsse alcuna perla. Il puntiglioso Perec era a dir poco schivo, e non mise per iscritto nemmeno la sua apparizione a sorpresa alla fine di 53 giorni. Buttò giù diversi spunti: sui rami Peretz e Bienenfeld, sul commercio di perle del suo facoltoso zio, sulle bizzarre interconnessioni delle relazioni familiari. Avendo perso entrambi i genitori a causa di Hitler, avrebbe osato guardare dritta negli occhi la parte peggiore del Novecento?

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Conclusione



Che cosa potrebbe simboleggiare l'ottimismo superficiale degli anni Ottanta meglio dello specchio rotante di un compact disc?

Il cd sembrava una soluzione provvidenziale al problema della conservazione dei suoni registrati. I nastri magnetici tendevano ad aggrovigliarsi, e il vinile si deteriorava sin dal primo momento in cui si ascoltava il trentatré giri, perché la puntina distruggeva senza alcun riguardo la struttura stessa di ciò che avrebbe dovuto leggere. Quei materiali non erano meno fragili dei primissimi cilindri di cera.

I cd erano diversi: cerchi dallo scintillio futuristico, codificati con tecnologia digitale e riprodotti tramite la delicatissima carezza del laser. Negli spot pubblicitari, venivano imbrattati di marmellata e immersi nella risciacquatura dei piatti, eppure le informazioni lì custodite non subivano il benché minimo danno. Naturalmente, i consumatori venivano messi in guardia dai graffi, dalla polvere e dalle calamite ma, con un po' di accortezza e attenzione, il cd realizzava un sogno umano millenario: l'indistruttibilità.

O almeno, così ci hanno fatto credere. Nei primi anni del ventunesimo secolo, gli utenti hanno cominciato a lamentarsi dicendo che i compact disc iniziavano a fare le bizze. Inoltre, cambiavano impercettibilmente colore, passando dall'argento all'oro, un fenomeno soprannominato «bronzatura» o, con un termine più prosaico, «ruggine dei cd». In un primo momento, l'industria ha risposto che gli scherzi e le bravate degli spot pubblicitari non andavano presi sul serio e che le istruzioni inequivocabili riguardanti il calore, l'umidità, i campi elettrici e il contatto tra le dita e il disco indicavano la necessità di una manutenzione particolare.

Quando anche i cd che erano rimasti imballati sin dall'istante dell'acquisto hanno mostrato i primi segni di deterioramento, è sorta tuttavia la necessità di trovare un'altra spiegazione. I dischi venivano sigillati versandovi sopra una vernice protettiva, e probabilmente, in alcuni casi, la forza centrifuga non aveva rivestito a sufficienza la superficie, permettendo all'aria (in particolare, all'ossigeno) di penetrare fino allo strato di alluminio che conteneva i dati. L'alluminio si ossidava, proprio come il rame diventava verderame. In breve, i compact disc si corrodevano a poco a poco. La perennità ci era sfuggita di nuovo.

Una scoperta straordinaria fatta a Ercolano, la città sepolta dall'eruzione del Vesuvio nel 79 a.C., si colloca nello stesso periodo dell'affannosa commercializzazione dei compact disc. Durante gli scavi di un edificio poi battezzato Villa dei papiri, gli archeologi si sono accorti che i fagotti bruciati prima scambiati per sacchi di grano erano, in realtà, manoscritti antichi. La forza dell'esplosione piroclastica li aveva carbonizzati tutti interi.

Normalmente, gli elementi organici presenti nel papiro conducono alla corrosione, ma il calore intenso dell'eruzione aveva eliminato quei composti. Le pergamene annerite vennero disinfettate. La medesima catastrofe che aveva distrutto la città aveva salvato i manoscritti.

Leggerli fu tuttavia un processo molto faticoso. Il calore li aveva resi friabili, sempre sul punto di disintegrarsi in cenere. Pian piano, con l'aiuto di soluzioni chimiche conservanti, gli studiosi li hanno srotolati. I raggi X e la fotografia digitale hanno rivelato poco per volta le differenze tra il nero dell'inchiostro e il nero del papiro bruciato. L'immagine è stata schiarita regolando il contrasto, ed è stato possibile leggere un testo che tutti avevano considerato perduto per sempre.

Finora la biblioteca di Ercolano non ci ha regalato una copia del Margite, una commedia di Agatone o una raccolta delle poesie di Gallo. Molti scritti erano già noti: l'idea che una simile collezione non comprendesse l' Eneide o l' Iliade avrebbe generato più misteri di quanti ne avrebbe risolti. Sono stati recuperati molti trattati epicurei finora sconosciuti, e restano molte altre pergamene da decifrare. Analogamente, a Vindolanda, sul Vallo di Adriano (nel Northumberland), una fossa per i rifiuti che le precedenti generazioni di archeologi avevano passato al setaccio con entusiasmo alla ricerca di spille, pettini o statuette ci ha restituito tavolette scrittorie di legno, conservatesi nella torba e mimetizzate fra il terriccio. Sono state decifrate lettere, istanze e altre copie di Virgilio, ma, finora, nessuna nuova grande opera antica.

Il papiro e il cd, il codice e la pagina web: l'ingenuità umana si sforza, non solo di trovare un supporto permanente per la sua cultura, ma anche di recuperare quanto è stato fissato su materiali più fragili. È una battaglia che non possiamo vincere.

La seconda legge della termodinamica (quella dell'entropia) dimostra che non esiste un modo perfetto per passare da una forma di energia all'altra, perché qualsiasi mutamento comporta una dissipazione. Due palle da biliardo si urtano, e la velocità si trasferisce dall'una all'altra, con un rallentamento provocato dallo scontro e dalla produzione di calore o dall' attrito momentaneo tra i due oggetti. Se guardiamo oltre il nostro minuscolo capitolo della storia universale, il quadro appare fosco.

La coronosfera del Sole avanzerà a poco a poco, finendo per inghiottire Mercurio e consumare Venere. Tra migliaia e migliaia di anni, la Terra brucerà come un insignificante pezzo di carta. Per citare la Bibbia, il cielo si ritirerà come un volume che si arrotola. Per allora, come in una storia di fantascienza dimenticata da tempo, l'umanità futura si sarà forse rifugiata su un pianeta umido, roccioso e più sicuro, portandosi dietro un'Arca di Noè della conoscenza. Ciò non farà altro che rimandare l'inevitabile. Alla fine, tutta la materia si sparpaglierà sotto forma di sottile polvere interstellare o si concentrerà all'interno di un buco nero stracolmo. La perdita non è un'anomalia, una deviazione o un'eccezione. È la norma. È la regola. È imprescindibile.

Allora perché fare tanta fatica? Cercando di conservare quanto ci rende umani, dimostriamo la nostra umanità. Un proverbio tedesco recita einmal ist keinmal, una volta è mai. Non è vero. Qualcosa non perde il suo senso o il suo significato solo perché smette di esistere. Ogni vita umana produce un'eco, provoca un cambiamento e influenza il nostro modo di pensare e sentire anche dopo la morte della persona specifica, e lo stesso vale per la nostra cultura, un accumulo di innumerevoli vite perdute. Lottiamo invano contro l'oblio, e la lotta stessa racchiude il nostro successo.


            Sul piedistallo queste parole appaiono:
            il mio nome è Ozymandias, re dei re,
            guardatele le mie opere, voi Potenti, e
            piangete. Niente qui resta. Intorno al consumarsi
            di questo colossale relitto, sconfinate, nude
            le solitarie e uniformi sabbie vanno
            stendendosi lontano.

                                  (Percy Shelley, Ozymandias)

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