Autore Andrea Tortoreto
CoautoreL. Gallesi, A. Allegra, G.O. Longo, F. La Polla, E. Passaro, R. Rosati, G. Panella, R. Gramantieri, G. Iannuzzi, A. Scarabelli, G. Zanarini, V. Tripi, D. Arona, G. De Matteo, S. Proietti, C. Pagetti, A. Vaccaro, S. Nannini
Titolo Filosofia della fantascienza
EdizioneMimesis, Milano-Udine, 2018, Il caffè dei filosofi 111 , pag. 274, cop.fle., dim. 14x21x2,3 cm , Isbn 978-88-5755-079-4
CuratoreAndrea Tortoreto
LettoreFlo Bertelli, 2019
Classe fantascienza , filosofia












 

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Indice


PREFAZIONE                                                 9
Luca Gallesi

FILOSOFIA E FANTASCIENZA                                  13
Andrea Tortoreto

NARRAZIONE E IDEOLOGIA.
UNA RIFLESSIONE SU TRANSUMANO E FANTASCIENZA              23
Antonio Allegra

IL ROBOT TRA SCIENZA E FANTASCIENZA                       37
Giuseppe O. Longo

FANTASCIENZA: DAL PRESENTE AL FUTURO                      59
Franco La Polla

LA FILOSOFIA DI DUNE                                      67
Errico Passaro

LA VISIONE DEL MONDO DEI SAMURAI NEI MANGA E NEGLI ANIME  73
Riccardo Rosati

UN'ESTETICA DELLA CITTÀ DEL FUI URO.
DAL FALANSTERIO A STAHLSTADT E METROPOLIS                 89
Giuseppe Panella

SPAZI ETEROTOPICI NELL'OPERA DI WILLIAM GIBSON           105
Riccardo Gramantieri

ECOCENTRISMO, ALTERITÀ, ALIENAZIONE NELLA FANTASCIENZA
DI GILDA MUSA                                            121
Giulia Iannuzzi

LOVECRAFT INTERPRETE DI SPENGLER                         135
Andrea Scarabelli

AI LIMITI DELL'IMPOSSIBILE.
ROBOT, CYBORG E AVATAR AL CINEMA                         145
Gianni Zanarini

UTOPIE SPURIE. IL COMUNISMO PLATONICO E LA TIRANNIDE
ARISTOTELICA NELLE DISTOPIE SCI-FI                       163
Vito Tripi

L'OSSESSIVA FREQUENZA DEI SEGNI E DEI SOGNI              179
Danilo Arona

MACCHINE COME NOI. FANTASCIENZA, ESSERI ARTIFICIALI
E NUOVE FORME DI CITTADINANZA                            193
Giovanni De Matteo e Salvatore Proietti

ESSERE O NON ESSERE (MR. SPOCK). VITA, MORTE,
RESURREZIONE DI UN FILOSOFO DELLO SPAZIO                 215
Carlo Pagetti

L'IMMORTALITÀ TERRENA
TRA FILOSOFIA, TECNOLOGIA, FANTASCIENZA E TEOLOGIA       227
Andrea Vaccaro

ASSASSINIO A NEUROLANDIA. UN RACCONTO DI FANTAFILOSOFIA  243
Sandro Nannini


 

 

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Pagina 9

LUCA GALLESI


PREFAZIONE



La principale, ineludibile utopia che emoziona da sempre l'essere umano riguarda l'insopprimibile desiderio di scoprire cosa ci riserba il futuro, che diamo, ingiustificabilmente, sempre per scontato. Se non fossimo animati da una istintiva fiducia nel futuro, tanto misterioso quanto inevitabile, la nostra vita perderebbe di sapore, se non addirittura di significato. Il desiderio di squarciare il sipario che ci costringe nella dimensione presente ha, quindi, animato spesso uomini ingegnosi e irrequieti che, in qualche caso, si sono adoperati a costruire delle macchine del tempo o, più frequentemente, si sono spinti a immaginare realtà diverse e universi paralleli, per scoprire cosa si nasconde dietro l'angolo, o quale destino ci aspétta alla fine dei tempi.

Operando una grossolana e discutibilissima classificazione, potremmo definire "fantascienza" il genere letterario che include i tentativi di immaginare il futuro compiuti intenzionalmente dall'autore. Escludendo, quindi, autori come Platone, Ariosto o Tommaso Moro, da alcuni critici considerati i padri nobili della fantascienza, ci resta comunque un'ampia possibilità di scelta nel determinare una data o un autore di partenza. Brian Aldiss, autore di una tra le prime storie critiche della fantascienza pubblicate in Italia, fissa la pubblicazione del Frankenstein di Mary Shelley (1818) come data di nascita di quella che sarebbe diventata science fiction solo nel secolo successivo. Escludendo il genere horror e quello fantastico/fantasy, la prima volta che la parola "scientifiction" viene usata (per essere tramutata nel classico science fiction nel 1929) è su una pubblicazione di pulp fiction, la statunitense "Amazing Stories" che uscì, con qualche saltuaria interruzione, dagli anni Venti del Novecento fino al 2005.

[...]

La fantascienza, poi, fa largo uso di simboli, e, come tutta la letteratura non mimetica, attinge più facilmente a ciò che Jung ha chiamato l'inconscio collettivo, quell'universo archetipico di segni, sogni e simboli che sono parte integrante, anche se inconsapevole, della coscienza umana. In un'epoca secolarizzata come la nostra, riallacciare legami con la sfera spirituale dell'esistenza è un modo efficace per alleviare la tensione della vita moderna, sublimando i problemi reali attraverso l'immaginazione, prezioso nutrimento dell'anima.

In fondo, affrontare mostri extraterrestri può essere più facile - o comunque più divertente - che combattere contro gli eserciti ipertecnologici dei nuovi padroni del mondo che minacciano di usare armamenti atomici per sconfiggere il cattivo di turno, così come immaginare viaggi interstellari su pianeti di altre galassie è più sicuro che sfidare l'incognito nel Vicino e Medio Oriente, divenuti terre di martirio e di morte. Ipotizzare vittoriose rivoluzioni in un futuro più o meno prossimo sembra essere ormai l'unico modo per invocare una giustizia sociale tradita e calpestata ogni giorno dai nostri governi democraticamente eletti, mentre descrivere società dove il profitto e il consumo non siano gli unici ideali di tutti i cittadini è un opportuno espediente per tramandare idee altrimenti destinate a una rapida ed inevitabile estinzione.

Non solo, quindi, deprecata letteratura d'evasione, la fantascienza, anche se è una fuga dalla realtà, ha i suoi molti e preziosi lati positivi, come dimostrano i variegati contributi del libro che avete tra le mani.

Buona lettura.

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Pagina 13

ANDREA TORTORETO


FILOSOFIA E FANTASCIENZA



Scienza e immaginazione

Capita spesso di notare all'inizio di libri che parlano di filosofia, soprattutto quando questa viene fatta dialogare con altri ambiti del sapere o della cultura tout court, lunghe digressioni sul significato e sulla natura della filosofia stessa. In questo caso, non si darà seguito alla suddetta tradizione poiché condurrebbe la discussione su di un terreno minato e complesso, dato che discutere del senso della filosofia è già, in una certa misura, fare filosofia. Sarà piuttosto sufficiente avere presenti le questioni, i problemi e gli interrogativi che il pensiero filosofico si è posto nel corso dei secoli, per considerare quale ruolo svolgano e che peso possiedano all'interno della fantascienza.

In fase preliminare, potrebbe allora risultare più utile interrogarsi sulla natura di quest'ultima, se non sussistesse un problema anche riguardo tale questione. Difatti, come è stato notato, per quanto concerne la fantascienza «una definizione anche solo "un po' precisa" nessuno è mai riuscito a trovarla». Al punto tale che Pohl , importante autore americano ancor più noto quale curatore di antologie, durante una Convention negli anni Sessanta rispose all'interrogativo sulla natura della science fiction definendola ironicamente come il genere di letteratura pubblicato nei suoi volumi!

Come capita spesso, l'ironia mette in gioco un problema serio e contribuisce socraticamente a svelare delle verità; in questo caso la grande vastità e disparità di temi affrontati dalla fantascienza che ne rendono complessa una definizione univoca.

Il primo a tentare l'impresa fu colui che coniò il termine science fiction, del quale il nostro fantascienza intende essere la traduzione. Ovvero Gernsback che, nell'editoriale del primo numero di Amazin Stories, prima rivista di fantascienza mai pubblicata, datato 5 aprile 1926, scrive: «Per science fiction intendo storie alla Jules Verne , alla H.G. Wells , alla Edgar Allan Poe... romanzi affascinanti mescolati a fatti scientifici e visioni profetiche».

[...]

Seguendo il modello epistemologico proposto da Kuhn , tanto fortunato proprio perché è stato possibile applicarlo nei più diversificati ambiti del sapere, la fantascienza è l'immaginazione di nuovi paradigmi. Questo spiega anche quello che viene spesso definito il potere predittivo della fantascienza; nella misura in cui nulla vieta che i paradigmi immaginati possano effettivamente concretizzarsi nel futuro. Questa lettura giustifica ulteriormente la storica affermazioni di Aldani secondo cui «la science fiction non è, come molti credono, scienza vestita di fantasia ma esattamente il contrario, cioè fantasia pura ricoperta dei veli di una elaborazione razionale».

Più di recente, peraltro, la posizione di Aldani è stata ripresa da Catani il quale sottolinea che «è una immaginazione, quella dello scienziato, di natura differente, da quella fantascientifica, perché quando Isaac Asimov o Bruce Sterling immaginano qualcosa non sono obbligati a compiere verifiche: ecco dunque un primo punto in cui la scienza, in fantascienza, viene inquadrata in un ambito ben preciso, direi limitato».

In questo modo giungiamo al cuore di ciò che per la filosofia può rappresentare la fantascienza. Lo stesso Catani, non a caso, parla poco oltre il passo riportato di «esperimenti mentali», usando un termine tanto caro alla tradizione filosofica in particolare di area analitica. Proprio questo può costituire la narrazione fantascientifica; una serie di esperimenti mentali in grado di mettere alla prova, talvolta anche di forzare e di mostrare le estreme conseguenze di determinate questioni filosofiche. Ciò è possibile perché, come visto, la scienza della fantascienza è forzata in chiave mitica, in una direzione che ricalca proprio il ruolo che il mito ha avuto nella speculazione filosofica fin da Platone. Il mito cioè come accesso alternativo al pensiero, alla speculazione, come modalità di riflessione parallela alla pura argomentazione razionale, il mito che persiste nel corso della storia della filosofia e che non si estingue dopo la sua primordiale comparsa.

[...]

Ma quanto la capacità di meravigliarsi costituisca una facoltà che accomuna tanto il filosofo che lo scrittore di fantascienza ce lo mostra, in maniera mirabile, un pensatore vissuto tra il Seicento e il Settecento: Vico. Il filosofo napoletano scrive infatti: «L'uomo, ch'ove osserva straordinario effetto in natura, come cometa, parelio o stella di mezzodì, subito domanda che tal cosa voglia dire o significare». Questo perché la facoltà di provare stupore è «figliuola dell'ignoranza; e quanto l'effetto ammirato è più grande, tanto più a proporzioni cresce la meraviglia».

I misteri del cosmo, così come quelli dell'interiorità umana o della tecnica suscitano stupore e la conseguente spinta verso una maggiore comprensione, verso quel logon didonai che rappresenta l'essenza della filosofia e dello sforzo intellettuale che ne costituisce la natura ultima, ma che trova un contraltare pure nell'impegno immaginativo che anima la fantascienza.

Non è quindi un caso se la fantascienza offre interessanti esperimenti mentali su temi che, tradizionalmente, hanno meravigliato i filosofi. Il problema dell'identità personale (Blade Runner, Dark City, Atto di forza, Frankenstein), la questione del rapporto mente-corpo (Matrix), i paradossi legati ai viaggi nel tempo (L'esercito delle dodici scimmie), l'intelligenza artificiale (2001 Odissea nello spazio, A.I.), la realtà virtuale (Matrix), utopia e distopia (1984, Farenheit 451), per finire con il non-umano, il postumano e l'altro (Ultimatum alla terra, L'uomo bicentenario, Bad Taste) sono infatti al centro di grandi classici della letteratura e del cinema e costituiscono, al contempo, questioni fondamentali per la filosofia.

Vale, come espressione forse più importante di tali punti di contatto, un autore che si è misurato con tutti i temi suddetti, dichiarando esplicitamente di scrivere fantascienza per motivi prettamente filosofici: Philip K. Dick.

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Pagina 37

GIUSEPPE O. LONGO


IL ROBOT TRA SCIENZA E FANTASCIENZA



                                        Attorno al mese di dicembre del 1910,
                                        le caratteristiche dell'uomo cambiarono.

                                                                  Virginia Woolf



Sommario

Il robot, unione di mente sintetica e di corpo sintetico, rappresenta l'ultima versione del nostro tentativo plurisecolare di costruire l'uomo artificiale. La somiglianza sempre più spinta tra robot e uomo, che si estende dalle fattezze esteriori alle capacità cognitive, all'autonomia e in prospettiva anche alle emozioni e forse alla coscienza, pone interrogativi inquietanti. La crescente diffusione dei robot in tutti i settori della società ci obbliga a considerare il rapporto di convivenza uomo-macchina in termini inediti, che coinvolgono in primo luogo l'etica. Affrontare questi problemi è importante e urgente.


Introduzione

                                Forse, in realtà, stiamo assistendo a una
                                graduale fusione della natura generale delle
                                attività e delle funzioni umane con le attività
                                e le funzioni di ciò che noi umani abbiamo
                                costruito e di cui ci siamo circondati.

                                                                    Philip Dick


Mentre l'evoluzione biologica ha dotato gli organismi viventi prima di un corpo e poi di un cervello, avente funzioni di controllo centrale e dotato in certi casi di proprietà cognitive superiori, non strettamente necessarie alla regolazione del corpo, l'intelligenza artificiale funzionalistica ha invece cercato di costruire una mente senza corpo, cioè un'intelligenza che imitasse le funzioni simboliche e astratte del cervello biologico evitando ogni interazione con un ambiente considerato fonte di disturbo. Tuttavia le difficoltà di estendere questa forma d'intelligenza artificiale al di fuori dei domini simbolico-formali hanno fatto ritenere che soltanto accoppiando la mente artificiale all'ambiente, attraverso un corpo artificiale dotato di sensi e di organi attuatori, si potesse ottenere un'intelligenza flessibile e ad ampio spettro com'è quella biologica.

Il recupero della dimensione corporea e sensoriale ha portato ai robot e ha aperto una serie di interrogativi che vanno dagli aspetti tecnici della loro costruzione fino a sottili questioni di natura etica. Infatti il robot è un artefatto capace di apprendere e dotato di una certa autonomia di decisione e comportamento e queste caratteristiche, in una prospettiva di stretta convivenza uomo-robot, non possono non sollevare certe domande:


Fino a che punto siamo disposti a convivere coi robot, ad affidarci a loro nella vita quotidiana, nell'accudimento e nelle cure?

Se i robot dovessero un giorno diventare intelligenti e sensibili (quasi) quanto gli umani, potremmo continuare a considerarli macchine, come le lavatrici o le automobili? O dovremmo adottare atteggiamenti empatici e comprensivi come nei confronti degli animali domestici? Dovremmo arrivare a conferire loro dignità etica?

E viceversa: quali comportamenti dei robot dovremmo tollerare, incoraggiare o vietare? E di chi sarebbero le responsabilità di un loro eventuale comportamento dannoso?


L'ultima domanda è importante perché rivela il conflitto tra la natura artificiale dei robot, che dovrebbe renderli obbedienti alla nostra programmazione, e la loro parziale autonomia (se un robot non è autonomo non è un robot) che, in linea di principio, potrebbe indurli a decisioni nocive nei nostri confronti. Erano problemi di questo genere che aveva in mente Asimov quando postulò le "Leggi della robotica", che vietano ai robot di compiere azioni dannose per gli esseri umani e che costituiscono il primo embrione di un'etica dei robot o, con un espressivo neologismo, di una "roboetica".

In questo ambito le previsioni si mescolano facilmente con la fantascienza e accanto alle speculazioni ci sono le realtà: in Giappone (il paese di gran lunga più avanzato nella costruzione e nell'impiego dei robot) si tocca con mano quanto possa diventare intenso il rapporto uomo-macchina quando il robot sia un (o una) "badante" con sembianze umane oppure quando abbia più o meno le fattezze e il comportamento di un animale domestico (si pensi ad Aibo, il robot cane della Sony, ormai fuori produzione, che per anni ha svolto la funzione di "animale" da compagnia). La proiezione affettiva è tanto forte da suscitare problemi psicologici e, ancora una volta, etici. E poi, in generale, la marcia sempre più convulsa di una tecnologia invasiva e onnipresente non può non avere effetti profondi sull'immagine che abbiamo di noi stessi e sul nostro stesso essere "umani": specchiandoci in quello straniante alter ego che sta diventando il robot, quale immagine ce ne ritorna? Riusciremo, per differenza o per similarità, a capire qualcosa di più di noi stessi?

Nei paragrafi che seguono, dopo un breve inquadramento storico che descrive in particolare il passaggio dall'intelligenza artificiale funzionalistica alla robotica, sottolineando l'importanza del corpo sotto il profilo cognitivo e attivo, si considerano i problemi etici sollevati dalla presenza sempre più diffusa dei robot. Tali problemi sono acuiti dalla somiglianza crescente che presentano con gli umani, oggi sul piano cognitivo e attivo e, domani, forse, anchè sul piano emotivo e della coscienza.


Una storia millenaria

L'impresa della robotica si colloca nel solco di un tentativo millenario, quello di imitare l'atto divino della creazione. Più o meno dichiarata, quest'ambizione risale all'antichità biblica e classica, e la leggenda del Golem ne è forse l'esempio mitologico e letterario più noto. In quest'impresa s'intrecciano la vertigine del creatore e il timore per la creatura, che talora minaccia di ribellarsi e distruggere l'inesperto demiurgo. Anche nel caso del mostro di Frankenstein la creatura trascende il progetto e si rivolta, suscitando negli uomini angoscia e terrore.

[...]


L'altra metà del robot: il corpo

Dopo i primi lusinghieri successi, anche i sostenitori più ferventi del funzionalismo dovettero riconoscerne i limiti, che derivano dalla natura disincarnata della mente artificiale, cioè dall'assenza di un corpo che comunichi con l'ambiente. Se l'intento era quello di simulare l'intelligenza umana, il riduzionismo mentalista dell'IA funzionalista ne trascurava un elemento essenziale.

L'intelligenza umana (e animale) si costituisce e si manifesta attraverso il corpo. L'intelligenza è un insieme di caratteristiche e attività fortemente sistemiche, oltre che fortemente diacroniche, cioè evolutive. In particolare, l'intelligenza nasce, si sviluppa e si manifesta attraverso la comunicazione, cioè lo scambio di messaggi di vari tipi, entro vari contesti, in vari codici e a vari livelli. Poiché la nostra "interfaccia" con il resto del mondo è costituita dal corpo e dagli strumenti tecnologici che abbiamo via via creato e perfezionato e che del corpo sono un potenziamento e un'estensione, è chiaro che proprio al corpo spetta il compito determinante di consentire la comunicazione e di filtrarla, sia in ingresso sia in uscita.

Riconosciuto il limite essenziale del funzionalismo e proseguendo sulla strada dell'imitazione della natura, si trattava di dotare il cervello artificiale di un corpo artificiale: questa strada portò alla robotica. Alla base di questa svolta c'è il riconoscimento della funzione conoscitiva del corpo. Insomma ci si rende conto che per replicare compiutamente l'intelligenza umana (ammesso che sia questo lo scopo dell'IA) anche le macchine intelligenti non possono fare a meno dell'equivalente di un corpo con tutta la sua attività cognitiva profonda e in parte forse non algoritmica: l'intelligenza disincarnata è troppo fragile e limitata. Si riconosce che la maggior parte delle conoscenze, specie quelle vitali, sulle quali poggiano e dalle quali scaturiscono tutte le altre, sono espresse nella struttura stessa del corpo. A sua volta il corpo è immerso in un ambiente il quale, con le sue continue perturbazioni non cessa di arricchire e aggiornare quelle conoscenze.

Il futuro della robotica più ambiziosa, quella che mira alla costruzione di macchine dotate di intelligenza, emozioni e forse coscienza, potrebbe dunque dipendere dalla comprensione del significato cognitivo delle azioni semplici, incarnate e contestualizzate che compiamo di continuo nella vita di tutti i giorni. Le descrizioni e gli strumenti usati finora in IA sono "alti e deboli": occorre integrarli con descrizioni e strumenti "bassi e forti", che riflettano e riproducano il nostro sfuggente "esserci nel mondo".


L'urgenza di una riflessione

La fantascienza costituisce un importante laboratorio di scenari suscettibili di trasformarsi in realtà, se non nei particolari certo almeno nei tratti generali. Nel caso dei robot la letteratura e la filmografia sono ricchissime di spunti. La psicologia e la sociologia dei robot, degli androidi e dei ciborg (o cyborg, all'inglese) sono uno dei temi più interessanti della fantascienza moderna e si annunciano come uno dei settori più problematici di un futuro già a portata di mano nell'ambito della robotica. A cominciare dal dramma R.U.R. di Karel Čapek , passando per racconti di Isaac Asimov dedicati ai robot, fino a film come 2001: Odissea nello spazio, AI: Intelligenza Artificiale, Blade Runner e molti altri ancora, scrittori e registi hanno indagato con slancio e inventiva il rapporto uomo-macchina, indicandone i possibili sviluppi e i nodi prossimi venturi (v. Appendice 1).

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RICCARDO GRAMANTIERI


SPAZI ETEROTOPICI NELL'OPERA
DI WILLIAM GIBSON



Eterotopia e cyberpunk: coincidenze di spazi

Il cyberpunk è stato uno dei pochi fenomeni della fantascienza capace di varcare i confini del "ghetto" della letteratura di genere, e di affermarsi nella letteratura tout-court. Esso ha fornito una visione del futuro adatta al mondo che in quegli anni stava mutando a causa della informatizzazione della realtà quotidiana. Thomas Disch ha detto che altri autori di fantascienza hanno scritto buoni libri, anche migliori di quelli di William Gibson , ma che nessuno di loro ha generato una visione del futuro tanto potente da essere capace di diffondersi, come fosse un virus, in ogni ambito possibile. La tematica della realtà virtuale, descritta da Gibson e dagli altri autori del movimento (Bruce Sterling, Pat Cardigan, Neal Stephenson, per citarne alcuni), ha suscitato anche ampio interesse accademico, grazie alla metaforica esplorazione dei processi socio-spaziali che il cyberpunk permette. La giustapposizione di spazi contemporanei apparentemente incompatibili ma complementari (metropoli e matrice; periferia low-tech e città high-tech), rende attuale quello che un padre del post-moderno quale è stato Michel Foucault, aveva suggerito quasi vent'anni prima della pubblicazione del seminale Neuromante di Gibson.

[...]




Conclusioni

Parafrasando Kingsley Amis , che vedeva la fantascienza una mappa dell'inferno, Tony Myers suggerisce che si possa vedere il cyberspazio come un tentativo di cartografia postmoderna. La città e la matrice, attraverso il cyberpunk, aggiornano la definizione di realtà. La narrativa di William Gibson ha modificato un ordine letterario che la fantascienza classica aveva stabilito, descrivendo un mondo che non viene più combattuto, rifiutato, o cercato, come invece accadeva nelle utopie e nelle distopie. La metropoli americana nipponizzata è vissuta e accettata come tale dai personaggi che si muovono nei romanzi di Gibson, e per questo perde la propria idealità (tipica dell'utopia) facendosi concreta, diventando cioè eterotopia, il contro-spazio, o spazio-altro, descritto da Michel Foucault. Se una volta la fantascienza reinventava la geografia creando l'utopia (e la sua variante negativa, la distopia) speculando una realtà in versione anticapitalista e antistalinista, il cyberpunk annulla tale ordine concretizzando tali spazi trasversali tanto nel concreto (la metropoli e il ponte) quanto nel virtuale (la matrice). Sia l'agglomerato urbano che la sua controparte cibernetica, la matrice, riorganizzano lo spazio che la modernità ha trasformato con velocità impensabile, trasformandole in rami di labirinti veloci, in circolazioni rizomatiche. Al contrario, la struttura di transito per eccellenza quale è il ponte, diviene città, e la dinamicità che un tempo contraddistingueva i flussi che lo attraversavano, ora descrive solo la mutazione delle strutture dei tuguri di cui è ricoperto.

Le ambientazioni di Neuromante, Luce virtuale e degli altri romanzi di Gibson si possono porre dunque come esempio di eterotopie futuribili, capaci come sono di descrivere relazioni spaziali diverse e impensate, basate su una topografia fatta di sovrapposizioni eccentriche.

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Pagina 163

VITO TRIPI


UTOPIE SPURIE
Il comunismo platonico e la tirannide aristotelica
nelle distopie sci-fi



In Italia è sempre stato presente un preconcetto culturale nei confronti della letteratura di genere considerata sempre, in maniera spregevole, "paraletteratura", "letteratura d'intrattenimento" o peggio ancora "lettura per ragazzi". In buona sostanza il genere può solo narrare ma mai insegnare. Vi è sempre stato un odio bipartisan, gramsciano da una parte e crociano dall'altra, nei confronti di tutto ciò che "intrattiene" e che quindi non invita alla lotta di classe e distrae, o che non viene, erroneamente, considerato colto.

In verità tutta la letteratura di genere ha sempre avuto dei ricaschi socio-antropologici e psicologici notevoli. In particolare la fantascienza ha sempre cercato di toccare varie tematiche, da quella scientifica, a quella sociale passando per la storia. In pochi, però, considerano l'importanza che la filosofia, o almeno una cerchia di filosofi, ha avuto nello sviluppo di numerosi racconti e romanzi a sfondo fantascientifico.

Platone ed Aristotele, i padri del pensiero filosofico occidentale, con le loro opere filosofico-politiche più importanti, Politéia per il primo e Politica per il secondo, hanno tracciato le direttive per molte delle società classiste e distopiche comparse in quasi tutti i mondi futuribili della fantascienza.

In questo nostro lavoro cercheremo di esaminare le visioni politiche di questi due filosofi, in particolar modo il comunismo platonico e la tirannide aristotelica, raffrontandole con le società classiste e gerarchico-autoritarie di Metropolis, del regista tedesco Fritz Lang, 1984 di George Orwell, e Hunger Games di Suzanne Collins.

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Pagina 193

GIOVANNI DE MATTEO E SALVATORE PROIETTI


MACCHINE COME NOI
Fantascienza, esseri artificiali
e nuove forme di cittadinanza



È piena di fantascienza l'ultima parte del recente libro di Stefano Rodotà , Il diritto di avere diritti. Come in tutta la buona SF, sono tanti i neologismi, legati al ridefinirsi dei concetti di soggetto, persona e identità: bio-diritto, nano-mondo, robo-legge, neuroetica. Rodotà, ovviamente, non è il primo a dire phe la nozione di identità personale non è più quella associata a Cartesio, Locke o Rousseau; piuttosto che muovere da una postmoderna «morte del soggetto», il suo lavoro intreccia democrazia, diritti e scienza/tecnologia in una visione irriducibilmente relazionale. Questo ci sembra il presupposto del suo approccio: per ragionare di nuove forme di cittadinanza bisogna rifiutarsi di postulare l'essere umano come monade perduta. Idealizzare un presunto passato dell'«autenticità» significa cancellare le forme di potere che lo sostenevano e consegna all'ignominia i soggetti emersi dalla modernità - e quelli emergenti mentre scriviamo. A differenza del lessico di tutte le ben note geremiadi antimoderne, dall'uomo antiquato all'eclissi dell'intellettuale e ai barbari invasori (oscillanti fra il rimpianto e un crudele victim-blaming), Rodotà ci parla di aperture, vulnerabilità e nuovi conflitti, e ci propone l'urgente esigenza di una nuova democrazia.

Per questo è lecito leggere Rodotà in dialogo con la fantascienza. Anche prima che si cominciasse a parlare di «postumano», la SF si era concentrata sulle soggettività che si sviluppano in collegamento con la scienza e la tecnologia. Un'operazione concettuale è il superamento di quel riflesso culturale che Isaac Asimov aveva chiamato «Complesso di Frankenstein»: l'essere artificiale immaginato soltanto come maschera dell'alienazione, incarnazione del pericolo di una perdita di controllo sulla macchina, in cui il suo raggiungimento di un'autonomia di decisione è causa di terrore. Ma se l'essere artificiale è in grado di affermare una sua soggettività, chi ha il diritto di negargliela? Chi ha il diritto di dichiararsi più «naturale» di un'altra entità senziente?

Nell'attenzione di Rodotà al postumano, l'identità è distribuita, multipla: con le tecnologie che fanno parte di noi dobbiamo fare i conti. E l'identità è multipla in un mondo globalizzato sempre più multietnico e multiculturale, anche per l'espandersi della sfera tecnoscientifica. Nel nostro mondo le «utopie tascabili» (per riprendere Kim Stanley Robinson in Pacific Edge, romanzo del 1990 mai tradotto in italiano) delle piccole comunità omogenee (come in fondo sono anche categorie quali etnia e nazione) sono sempre più da ritenersi regressive e inquietanti. Mutanti e chimere, robot e cyborg, cloni e creature bioingegnerizzate reclamano i loro diritti come forme di «homo possibilis», presente e futuro dell'essere umano: proviamo ad ascoltarne la voce.

Fra gli autori di fantascienza, insieme a George Orwell , Aldous Huxley e William Gibson (e a Giuseppe O. Longo , filosofo della scienza che ha firmato diversi racconti SF), Rodotà evoca Kazuo Ishiguro con il bellissimo Non lasciarmi , storia di clonazione e di oppressione. Bellissimo, ma nel suo radicale pessimismo forse meno lungimirante dell'ormai classico racconto di Ursula K. Le Guin , Nove vite (1969): anch'essi destinati allo sfruttamento lavorativo e biologico, i cloni di Le Guin dichiarano anche la loro capacità di provare sentimenti e confrontarsi con gli altri, insieme a un'irriducibile volontà di sopravvivere.

A capire molto era stato Philip K. Dick , già negli anni `70. Prendiamo il saggio intitolato L'androide e l'umano:

Il nostro ambiente, cioè il mondo di macchine, costrutti artificiali, computer, dispositivi elettronici, componenti di interconnessione omeostatici creati dall'uomo, comincia in effetti a essere, e sempre più sarà, dotato di [...] animazione. In senso molto concreto, il nostro ambiente sta diventando vivo, o almeno quasi vivo, in modo specificamente e fondamentalmente analogo a noi.


Fino in fondo, per Dick l'essere umano è homo faber, che soltanto idealizzando un inesistente passato «naturale» si può prendere in considerazione a prescindere dall'interazione con il mondo. A sua volta, il mondo non sta a guardare: cambia, si modifica, e impone a «noi» di fare i conti con la sua volontà. Al tempo di Dick, sta nascendo l'ecologia, e nuovi soggetti stanno rivendicando una presenza. Robot, androidi, cyborg, ibridi, simbionti, creature duplici, meticce (da noi, Primo Levi aveva parlato di centauri): tutte immagini di un mondo sempre meno «puro», che non ha nessuna intenzione di rinunciare ai benefici e ai diritti della modernità - e che, casomai, vuole estenderli a tutti.

Toccato nel profondo dalle letture sul nazismo, Dick conosceva benissimo il rischio di radicare il concetto del «bene» nella biologia e nella natura. Fra umano e inumano, scriveva nel saggio Uomo, androide e macchina, la differenza non sta nell'«essenza», ma nel «comportamento». Proseguiva Dick:

Un essere umano privo di capacità empatica e di sentimenti è identico a un androide costruito, intenzionalmente o per errore, senza di essi. Ci riferiamo fondamentalmente a qualcuno a cui non importa della sorte delle creature viventi sue simili: costui ostenta distacco, come uno spettatore, mettendo in pratica con la sua indifferenza il teorema di John Donne, secondo cui [...] "nessun uomo è un'isola", ma in una formulazione leggermente diversa: ciò che è un'isola morale e mentale non è un uomo.

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SANDRO NANNINI


ASSASSINIO A NEUROLANDIA
Un racconto di fantafilosofia



Era la prima volta che Xenos tornava a Neurolandia a dieci anni di distanza dalla sua precedente visita. Una telefonata riservatissima di Fantasy, l'assistente di Biocog, lo aveva convinto a montare in aereo per raggiungere in Germania il grande centro di ricerca dove si costruivano gli androidi, ossia i robot umanoidi indistinguibili dagli esseri umani. Xenos del resto non sapeva con certezza neppure di se stesso se era un essere umano o un androide. Quando aveva conosciuto per la prima volta Biocog e Fantasy - depositari del segreto dell'emergere della coscienza dall'attività cerebrale ed unici bio-ingegneri al mondo capaci di costruire dei veri androidi autocoscienti - credeva di essere un umano proveniente dal pianeta Elea e di trovarsi sulla Terra solo da pochi giorni per tenervi un ciclo di conferenze su invito di AFO Socrate, l'Androide Filosofico che presiedeva all'epoca La Nottola di Minerva, una confraternita laica che da secoli preservava la memoria dei classici della filosofia. Il nome di Xenos era allora Rrowicxjf, che nella lingua - impronunciabile per i terrestri - del suo pianeta di provenienza, Djbw, voleva dire "Straniero", mentre "Djbw" poteva essere tradotto con Elea. Xenos era lo Straniero proveniente da Elea. Emulo quindi del personaggio chiave del Sofista di Platone, che "commette parricidio" confutando la filosofia del suo maestro Parmenide, lui, lo Straniero, aveva il compito di convincere i membri della Nottola che il sapere filosofico poteva essere salvato dal suo declino solo se veniva rinnegato nella sua forma tradizionale e trasformato in un punto d'incontro interdisciplinare per tutte le scienze naturali e cognitive.

Poi però era successo qualcosa di molto grave. Rrowicxjf al termine del suo ciclo di conferenze non era potuto ritornare sul suo pianeta perché, come gli spiegò il direttore del Centro Galattico per le Telecomunicazioni ed il Teletrasporto, il tunnel spazio-temporale tra la Terra e Elea si era chiuso improvvisamente e non era prevedibile se e, eventualmente, quando si sarebbe riaperto. Già questo era stato per Rrowicxjf un duro colpo: prigioniero per sempre sulla Terra, strappato al suo pianeta ed ai suoi affetti! Ma ci aveva pensato Socrate a sconvolgerlo ancora di più:

- Caro amico - gli aveva detto il vecchio androide - i viaggi a velocità superiore a quella della luce non sono possibili. Il teletrasporto istantaneo da un pianeta ad un altro lontano molti anni-luce è solo un inganno perpetrato dal governo per tenere buona la popolazione con fantastici viaggi-premio in pianeti-vacanza. In realtà nessuno si muove dal Centro di Teletrasporto. I presunti viaggiatori vengono addormentati e viene creato nei loro cervelli un sogno artificiale. Tu, ad esempio, sei convinto di essere giunto sulla Terra provenendo da Djbw, ma non è vero. Djbw semplicemente non esiste. E tu non sei affatto Rrowicxjf. Sei AF11 Lo Straniero! Sei un androide come me, costruito a Neurolandia da Biocog. Ma nella tua memoria artificiale sono stati inseriti falsi ricordi di una vita trascorsa in un lontano pianeta.

Xenos era rimasto scioccato da queste opposte rivelazioni. Lui chi era davvero? Era Rrowicxjf o AF11 Lo Straniero? Era un essere umano o un androide? Nessuna indagine clinica o test di laboratorio poteva sciogliere questo dubbio. Socrate però lo aveva all'epoca convinto che la sua situazione, per quanto penosa, non era dissimile da quella di tutti gli esseri umani, perché nessuna prova empirica può chiarire se il nostro io sia un epifenomeno emergente dall'attività cerebrale, ma da essa ontologicamente distinto, oppure se sia semplicemente l'illusoria rappresentazione che il cervello si dà della sua stessa attività per meglio coordinarsi. Le scienze cognitive possono portarci ad escludere, riguardo al rapporto tra la mente ed il corpo, il dualismo interazionistico: nessuna sostanza immateriale, nessun'anima, sarebbe capace di muovere il nostro corpo. Tutto quello che facciamo lo facciamo perché è il cervello, e solo il cervello, che provoca i nostri movimenti mediante processi puramente fisici. Ma questo non esclude, in linea di principio, che la nostra mente sia un epifenomeno dell'attività cerebrale sì incapace di retro-agire su di essa, ma tuttavia dotato di una propria realtà indipendente da quella dei processi neurofisiologici da cui emerge. È un'ipotesi strana, questa, ma che il materialista non può provare essere falsa. Tanto più che questo sentirci come qualcosa di distinto dal nostro cervello è sì un sentimento costruito dal nostro cervello stesso, un sentimento probabilmente in larga misura ingannevole; ma è un inganno al quale, sul piano emotivo e percettivo, difficilmente possiamo sottrarci senza minare la nostra salute mentale. Come aveva concluso Socrate, "nessuno di noi sa se lo Straniero che siamo per noi stessi e per gli altri sia in realtà un Rrowicxjf spirituale strappato al suo mondo cartesiano (dove menti e corpi sono davvero sostanze diverse, reciprocamente irriducibili e interagenti l'una sull'altra) e costretto a vivere tra i materialisti sotto il dominio del cervello oppure se sia un AF11 identico all'attività cerebrale che lo realizza, ma impossibilitato a presentarsi come tale e costretto quindi ad essere per sé e per gli altri l'illusoria maschera cartesiana costruita dal suo cervello stesso".

Lo Straniero si era abituato a convivere con l'amara conclusione di Socrate. Aveva imparato l'italiano (e, approssimativamente, anche qualche altra lingua dei terrestri) ed era divenuto cittadino europeo con il nome di Xenos. Che voleva dire Straniero, certo! Ma, usando la nobile lingua di Platone, gli sembrava di aver reso, per così dire, più ufficiale e rispettabile e quindi più sopportabile la sua condizione di esule. Egli aveva ormai accettato di essere per sé quello che era per gli altri: un essere umano proveniente da un altro pianeta costretto a vivere per sempre sulla Terra. Che si trattasse molto probabilmente di un inganno non faceva grande differenza per nessuno. Neppure per lui.

[...]


- Ma che cosa è l'Asino di Buridano - domandò il Governatore incuriosito.

- È il nome di un esperimento immaginario escogitato, si dice (ma forse l'attribuzione è erronea), da uno scolastico francese vissuto nel XIV secolo, tal Giovanni Buridano appunto, e poi ripreso da Leibniz per provare che gli esseri umani godono, a differenza degli animali, di libero arbitrio - chiarì Xenos - Secondo Buridano (e Leibniz), se mettete un asino ad eguale distanza da due mucchi di biada egualmente appetibili, il povero asino, essendo attratto con ugual forza da entrambi i mucchi, non potrà decidersi né per l'uno né per l'altro e morirà perciò di fame. Un essere umano invece ha il potere di scegliere arbitrariamente (e quindi, si sostiene, liberamente) uno dei due mucchi, sebbene non abbia una ragione particolare per preferirlo rispetto all'altro?

- Ma la coscienza che c'entra? - insistette il Governatore.

- Penso - proseguì Xenos, mostrando al Governatore anche alcuni disegni che tirò fuori dalla sua cartella - che Silvana sia partita dall'idea che una delle funzioni essenziali della coscienza fenomenica sia quella, soprattutto nella percezione visiva, di consentire la distinzione tra figura e sfondo. Si può infatti ipotizzare che la sincronizzazione neuronale che realizza la coscienza fenomenica riguardi solo i neuroni che rappresentano la figura e non quelli che rappresentano lo sfondo; o meglio si può pensare che una certa figura venga costruita dal cervello distinguendola dallo sfondo proprio mediante la sincronizzazione dei gruppi neuronali interessati. Se è così, allora la coscienza fenomenica svolge anche la funzione di "disambiguare" le figure ambigue, come ad esempio l'anatra-lepre:

In questo caso l'input sensoriale è ambiguo, ma nessuno vede simultaneamente sia un'anatra sia una lepre. In ogni istante vediamo o un'anatra o una lepre, ma mai tutt'e due insieme. Perché? Perché nel momento in cui il cervello, mediante la sincronizzazione, impone all'input sensoriale il formato della coscienza fenomenica, ne scioglie automaticamente anche l'ambiguità. Questo "scioglimento" è stabile nella maggior parte dei casi, mentre risulta oscillante nei caso di certi particolari input sensoriali come quello dell'anatra-lepre. Quindi l'essere coscienti ha la funzione di trasformare un input sensoriale caotico nella visione di un mondo esterno dotato di ordine e regolarità e, nel caso di un input sensoriale ambiguo come l'anatra-lepre, l'insorgere della coscienza fenomenica costringe il cervello a cancellare l'ambiguità dell'immagine percepita optando, anche senza una ragione (e quindi in modo "libero"), per una soltanto delle interpretazioni possibili. Per questo non vediamo mai, coscientemente, l'anatra-lepre, ma sempre o l'anatra o la lepre, sebbene l'ambiguità dell'input faccia sì che questa interpretazione sia instabile e si trasformi in genere dopo pochi secondi nell'interpretazione alternativa: vediamo la lepre e poi, improvvisamente,... l'anatra! E poi di nuovo la lepre. E così via. A differenza del povero asino che non poteva decidersi se mangiare la biada del mucchio di destra o di quello di sinistra noi non possiamo fare a meno di deciderci ad ogni istante o per l'anatra o per la lepre anche quando l'input sensoriale non contiene una buona ragione per preferire l'una o l'altra interpretazione. Ovviamente se questo fatto, empiricamente riscontrabile, sia sufficiente per parlare di libero arbitrio in senso metafisico è un problema filosofico che qui non affronto.

- Capisco - commentò il Governatore - E Silvana come aveva sfruttato tutto ciò nel terzo test?

- Il terzo test - spiegò più diffusamente Xenos - si basa sul fenomeno del priming, come ho già avuto modo di spiegarLe, Governatore - Ora, è provato che negli esseri umani (e negli androidi), quando l'immagine subliminale è un'immagine ambigua come l'anatra-lepre, essa produce un effetto di accorciamento del tempo di reazione nel riconoscimento sia di immagini associabili all'anatra sia di immagini associabili alla lepre. Ciò significa che a livello inconscio noi "vediamo", per così dire, l'anatra-lepre, mentre a livello cosciente possiamo vedere solo o l'anatra o la lepre. Questo negli esseri umani e negli androidi.

- Il Delegato come ha reagito al test invece? - domandò il Governatore sempre più incuriosito.

- Ha reagito - chiarì nel dettaglio Xenos - in modo, appunto, non umano, perché i suoi tempi di reazione si sono ridotti, dopo aver "visto" l'immagine subliminale dell'anatra-lepre, non solo quando immediatamente dopo ha dovuto classificare figure associabili o alle anatre o alle lepri (ad esempio oche o conigli), ma anche quando è stato messo di fronte ad altre figure ambigue che nulla avevano a che fare con questi animali, come ad esempio la figura del "vaso-volti":

Il fatto che il Delegato associasse una figura ambigua subliminale ad una figura che avrebbe dovuto essere percepita a livello cosciente, dopo una (oscillante) disambiguazione, o come un vaso o come due volti giustapposti lo ha tradito. Se fosse stato un essere umano, infatti, avrebbe dovuto vedere coscientemente o il vaso o i due volti, ma non un'immagine ambigua; e quindi non ci sarebbe stata nessuna ragione per associare i volti o il vaso alle anatre e alle lepri. Se il suo cervello ha colto una somiglianza tra l'ambiguità dell'anatra-lepre e l'ambiguità del vaso-volti (una somiglianza evidenziata dalla diminuzione del tempo di reazione), è perché per lui, in quanto Zombi Cinese, anche la seconda immagine, non essendo stata sottoposta alla disambiguazione operata dal formato della coscienza fenomenica, rimaneva ambigua al pari della prima, sebbene fosse rimasta in vista per un tempo sufficiente a farla percepire in modo cosciente (e quindi non più ambiguo) ad un essere umano!

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