"Prima Pagina" di novembre 2014

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[...] Quando faceva buio, prendevo un libro e mi mettevo a leggere accanto a una vecchia lampada da scrivania che avevo recuperato in un cassonetto all'universitŕ: la lampadina, avvolta da una campana di vetro, proiettava una luce verdastra sulle mie mani, sul libro che tenevo in grembo, sul tessuto liso del divano. A volte leggevo ad alta voce, e notavo che le parole creavano uno strano sottofondo mescolandosi al mormorio dei presentatori francesi, tedeschi o olandesi, o al suono delicato dei violini d'orchestra, e l'effetto era amplificato dal fatto che gran parte dei testi che leggevo erano tradotti da quelle lingue europee. Quell'anno, saltabeccavo da un libro all'altro: La camera chiara di Barthes, Telegrammi dell'anima di Peter Altenberg, L'ultimo amico di Tahar Ben Jelloun, tra gli altri.

Quella fuga sonora mi faceva ripensare a sant'Agostino e alla sua incredulitŕ di fronte a sant'Ambrogio, che si diceva riuscisse a leggere senza pronunciare le parole. In effetti č incredibile - mi sorprendeva allora e mi sorprende ancora oggi - poter comprendere un testo leggendolo mentalmente. Per Agostino, solo ripetendo le frasi ad alta voce se ne poteva cogliere davvero il ritmo e la vitalitŕ, ma da allora molto č cambiato nella nostra idea della lettura. Da troppo tempo ci viene ripetuto che l'immagine di una persona che parla da sola č associata a eccentricitŕ e pazzia, e non siamo piú abituati a sentire la nostra voce, se non durante una conversazione o quando ci possiamo confondere tra la folla. Ma ogni libro rimanda a una conversazione, a due persone che parlano, e in quel tipo di scambio č normale sentire dei suoni, o perlomeno dovrebbe esserlo. Cosí, leggevo ad alta voce, con me stesso come pubblico, pronunciando parole altrui.

Teju Cole, "Cittŕ aperta", Einaudi, Torino, 2013